Né «Grande Serbia», né «Grande Albania»
Siamo realisti: oggi in Kossovo la convivenza tra albanesi e serbi è un’utopia. Come spesso accade, le responsabilità sono da suddividere tra i contendenti, aizzati da sconsiderati proclami nazionalistici ed esasperati da una gravissima situazione economica.
Nella regione operano anche i soldati italiani. Le loro motivazioni? Deboli, molto deboli, troppo deboli… Per fortuna, ci sono i volontari.
Al primo viaggio in Kossovo, scendendo dalla Serbia, giù giù fino alla «provincia ribelle», a colpirmi sono le bandiere che sventolano ovunque.
I morti hanno bandiere: prima quelle serbe segnalano, in sperduti cimiteri di frontiera, eroici combattenti, martiri nella realizzazione del sogno frustrato della Grande Serbia; poi, bandiere albanesi su grandi lapidi, che ritraggono a dimensione naturale il defunto in divisa militare e con il mitra in mano. Guerriglieri, quest’ultimi, immolati nella costruzione della Grande Albania.
Al confine tra la Serbia-Montenegro e il Kossovo appaiono le bandiere azzurre dell’amministrazione provvisoria dell’Onu e quelle delle forze Nato. Ad ogni posto di blocco o check point bandiere nazionali tra le più varie indicano la provenienza del personale militare lì impegnato: i rumeni all’ingresso di Gorazdevac, i belgi sul ponte di Mitrovica ecc. ecc.
Ogni edificio o struttura di qualsiasi tipo (addirittura le pensiline alle fermate dei bus) ha la bandiera dello stato finanziatore o donatore.
Il mondo sembra essersi concentrato sul Kossovo e in Kossovo, eppure arrivando in quest’area ho l’impressione che sia doveroso porre in dubbio molte verità regalateci in patria.
(Al riguardo, la redazione di Missioni Consolata mi ha pregato di non calcare troppo la mano, anche se non siamo più in tempo di elezioni. Mi adeguo, ma alcune cose debbo proprio scriverle…)
I SERBI… RINCHIUSI
Spostandoci da Peja-Pec a Gorazdevac è difficile ignorare una collina, sulla destra, completamente spianata e disboscata, gremita di containers e mezzi militari: è «Villaggio Italia», comando del contingente italiano in Kossovo, dove vivono molti degli eroi nostrani, molti dei nostri ragazzi. Quando Peja-Pec e dintorni giacciono nel buio a causa dei frequenti black-out della vicina e grigia centrale termoelettrica, Villaggio Italia splende di luce, letteralmente, propria.
Gorazdevac è una enclave serba del Kossovo meridionale: 800 serbi circa rinchiusi in pochi Km quadrati. Troppo pericoloso uscire. Chi aveva il lavoro fuori dal paesino (molti), è disoccupato. Qualcuno si è inventato un’attività, puntualmente finanziata da qualche ente governativo o non, per guadagnarsi il pane: c’è chi ha una serra per coltivare ortaggi fuori stagione, chi produce concime naturale. Ma il mercato è chiuso, quasi inesistente, solo 800 persone, perché commerciare con l’esterno è difficile, soprattutto dopo gli avvenimenti di marzo 2004. Allora si vive di sussistenza, di rimesse dall’estero, di espedienti, di aiuti; in una montagnola di rifiuti accumulati lungo la strada (a Gorazdevac, Higjiena Publike – l’azienda della nettezza urbana – non passa nemmeno a raccogliere la spazzatura, perché gli abitanti non vogliono e in qualche caso non possono pagare la tassa) ho trovato i resti di un involucro di cartone: «Questa pasta è donata dal popolo e dal governo italiano».
I nostri ragazzi, che i cartelloni pre-elettorali in Italia non smettevano di ringraziare per le eroiche missioni di pace che svolgono nei conflitti nel mondo, a volte distribuiscono aiuti: alimentari, giocattoli, indumenti; ogni operazione di questo tipo viene puntualmente filmata e fotografata dagli stessi militari. Deboli palliativi simboli d’una carità pelosa, dettata, particolarmente in questo periodo, dalla necessità di rendere maggiormente accettabile la presenza degli «inteazionali», oggi messa violentemente in discussione da parte albanese e da parte serba. Da un lato, infatti, gli albanesi vogliono l’indipendenza e rifiutano ogni ingerenza estea; dall’altro, i serbi-kossovari lamentano l’inefficacia della forza internazionale nel prevenire e controllare la conflittualità interetnica. Ne sono un segnale i tragici episodi di marzo: i manifestanti albanesi hanno bruciato auto dell’Onu, case serbe e chiese ortodosse, ucciso.
Nella nostra permanenza in Kossovo, discutiamo con ragazzi serbi e albanesi. I fatti parlano chiaro: se quattro anni di relativa e apparente tranquillità avevano fatto sperare in una possibilità di convivenza, gli scontri recenti hanno rigettato nella disperazione e nell’incapacità di operare chi, da un lato, sperava di poter uscire dalle enclaves-ghetto e chi, dall’altro, aveva lavorato per ricostruire i ponti dopo la guerra del ’99. Gli albanesi e gli egiziani, animatori del Centro culturale «Zoom» di Peja-Pec, ci raccontano le loro attività, l’organizzazione del centro, la potenziale multiculturalità delle associazioni che vi operano; una sera abbiamo discusso delle violenze. Un ragazzo albanese ha anche raccontato d’aver fatto parte di queste dimostrazioni violente; coraggioso e significativo il suo racconto: pochi facinorosi, probabilmente sconosciuti agitatori venuti da fuori, hanno attirato in strada migliaia di giovani costretti all’inerzia dalla morsa dell’eterna crisi economica. Debitamente scaldati gli animi, facili micce vista la condizione a cui sono costretti, i bersagli sono subito divenuti chiari: l’amministrazione internazionale colpevole di non lasciare il Kossovo ai kossovari (anzi, agli albanesi) e gli eterni nemici, i serbi.
Gli scontri di marzo hanno interessato varie località: Pristina, Bijelo Polije, Mitrovica, Peja-Pec. Qualcuno racconta che i nostri ragazzi hanno saputo fare ben poco contro la rabbia albanese. Si dice che molti giovani militari di fronte alla folla sono stati presi dal panico e la loro inefficacia è stata palese. Ad accusarli di non aver saputo fronteggiare gli albanesi sono soprattutto i serbi, che hanno vissuto momenti di terrore, temendo di essere trasformati in facili prede, chiusi come sono in zone ristrette.
LA SOLA SOLUZIONE:
UN PASSAPORTO PER L’EUROPA
Anche a Gorazdevac s’è temuto il peggio. E l’accaduto è servito solo a rafforzare la rassegnazione e la convinzione che con gli albanesi è impossibile convivere. I giovani serbi dell’enclave vedono frustrate le proprie ambizioni, cancellata ogni opportunità di realizzazione, di studio, di lavoro. L’unica possibilità, ci dicono, è emigrare al nord, in Serbia o all’estero. Donne e uomini quotidianamente ci propongono (più o meno seriamente) matrimoni di convenienza: acquisire una cittadinanza europea per loro sarebbe la porta per la salvezza, la possibilità di oltrepassare le difficoltà d’una immigrazione legale in Occidente.
I giovani serbi ci foiscono le solite interpretazioni: il Kossovo è serbo, lo è sempre stato, gli albanesi hanno attuato una guerra demografica per conquistare il potere, non esisteva repressione nei loro confronti, erano loro a rifiutare tout court i serbi. Sono le opinioni propinate dai mass-media e dai politici di Belgrado.
Un’altra cosa appare chiara: da parte albanese e da parte serba manca una élite politica capace di superare gli odi sapientemente alimentati nel passato. Probabilmente, è una eredità di un sistema non democratico (schiacciato sulla figura di Tito prima, di Milosevic poi), che ha dominato in Jugoslavia per decenni. Ma ciò non basta per comprendere l’insistenza del governo (democraticamente eletto) serbo sui temi nazionalisti. E altrettanto incomprensibile risulta l’atteggiamento del governo locale kossovaro, in primis Rugova, incapace o non disposto a porre delle basi solide per una società eterogenea, disattivando quei meccanismi identitari che fanno sì che, a 4 anni dalla guerra, la situazione sia capovolta ma in sostanza immutata: prima i serbi avevano la posizione di forza e tentavano di esercitare forme di pulizia etnica, oggi gli albanesi, vinta la guerra (la strada principale di Pristina è Boulevard B. Clinton…), ricoprono la posizione favorevole e minacciano continuamente i serbi finiti rinchiusi nelle enclaves.
Allora, ci domandiamo, qual è stato l’esito della «guerra umanitaria»: la creazione di uno stato democratico o meramente la sostituzione dell’oppresso con l’oppressore e viceversa? La costruzione di nuovi ponti e convivenze o semplicemente la formalizzazione di una crisi economica permanente, foriera di tensioni sociali, comodamente chiamate «interetniche»?
A PROPOSITO DI SOLDATI…
In Italia, dopo la tragedia di Nassirja, mass-media e politicanti non smettono di celebrare «i nostri eroi», «i nostri ragazzi» che, intimamente motivati ad esportare la pace e la democrazia, la convivenza e il benessere, ogni giorno rischiano la vita in Iraq, Afghanistan, Kossovo, ecc… Dei veri eroi, paladini della democrazia, della cristianità, dell’ Occidente contro la barbarie; militari consapevoli e preparati, professionisti del bene in divisa. Durante la mia permanenza in Kossovo, ben pochi militari hanno dimostrato vera consapevolezza o motivazioni forti per il servizio che stavano svolgendo. La retribuzione economica sembra essere il fattore motivante più importante per i giovani e giovanissimi italiani, provenienti per lo più dal Sud. Per quanto riguarda poi la preparazione, essa appare ancora più carente: spesso i militari hanno scarse conoscenze sul contesto in cui operano, sui problemi che stanno affrontando, sulle caratteristiche culturali delle popolazioni con le quali sono in contatto. Questi non sono dettagli per del personale che opera al fine di ricomporre fratture etniche così esasperate: chiamare Pec la città di Peja può offendere un albanese e viceversa, consegnare aiuti in enclave serba accompagnati da un interprete che sa solo l’albanese può essere controproducente oltre che inefficace… e questi non sono che alcuni esempi dei grossolani errori che i nostri militari commettono quotidianamente.
Mentre i serbi si trovano rinchiusi e frustrati (e così preda di facili manipolazioni da parte dei leaders belgradesi) nelle enclaves e ripropongono vecchie ricette di riscossa nazionaliste (a Mitrovica ho raccolto varie cartoline postali e posters che invocano il ritorno di Milosevic, Karadzic), gli albanesi del Kossovo si ritrovano prigionieri di condizioni di vita ed economiche gravi: salari bassissimi, disoccupazione oltre il 60%, traffici illeciti in mano alla mafia locale dilaganti, dipendenza dagli aiuti inteazionali.
A mio parere, se gravi colpe sono da imputare agli sconsiderati messaggi nazionalisti (di governo serbo, Uck ed ex Uck, governo kossovaro, in gara a costruire una contrapposizione apparentemente insanabile), un ruolo fondamentale nel protrarsi delle tensioni sociali è da rintracciarsi proprio nelle pessime condizioni economiche.
E CHI LAVORA NEL SILENZIO
Accanto alle pubblicizzate, anzi celebrate, attività del contingente militare, della Missione Arcobaleno (vi ricordate lo scandalo?), molti altri nostri ragazzi lavorano nel silenzio ed in carenza di mezzi e fondi. Durante la nostra permanenza siamo stati ospiti dei volontari dell’Operazione Colomba (dell’Associazione Papa Giovanni XXIII) e del Tavolo Trentino con il Kossovo. Svolgono attività a Gorazdevac e a Peja-Pec.
Nella città albanese Mauro è animatore del Centro culturale Zoom, composto da associazioni aperte indiscriminatamente agli appartenenti di tutte le etnie (rom, egizi, albanesi e serbi). Grazie alle attività (alpinismo, fotografia, danza ecc.) del centro si cerca di ricostruire forme di convivenza. La scommessa è che, conoscendosi e lavorando assieme, le presunte differenze etniche passino in secondo piano.
A Gorazdevac, Fabrizio, Lucia e Federica vivono a stretto contatto con la popolazione. Grazie a loro abbiamo conosciuto i volti, l’umanità che si nasconde dietro a parole tanto insignificanti come «serbi» o «albanesi». Abbiamo faticosamente superato l’ostacolo linguistico ma siamo stati capaci di comunicare e forse, ancor di più, di imparare quegli sguardi e scoprire che la sofferenza ha gli stessi occhi da tutte le parti, in tutte le etnie. Questi volontari costituiscono il punto di riferimento, una speranza, per i giovani dell’enclave. Ne favoriscono l’aggregazione e stimolano momenti di discussione. Ora, un problema impellente è la raccolta dei rifiuti sparsi dappertutto nel villaggio. Si pensa di coinvolgere la comunità per rendere più efficace l’operazione. Per pulire il greto e le rive del fiume che delimita l’enclave occorrerà la protezione dei militari, finalmente utili a qualcosa: la scorsa estate due albanesi, dall’altra parte del corso d’acqua, hanno sparato sulla gente che si bagnava. Sono morti due ragazzi, uno 18enne, l’altro 12enne (si leggano i racconti di Fabrizio e Barbara nelle pagine precedenti).
Il lavoro di Mauro, Fabrizio, Lucia, Federica ed altri (non sono così pochi…) non è tanto pubblicizzato. Meno male, così sta al riparo da strumentalizzazioni. Ma, visto che queste parole non andranno sui muri di alcuna campagna elettorale italiana, permettetemi di rivolgere a loro il mio «Grazie, ragazzi».
Francesco Filippi