La casa in cui dormivamo si trova a Gorazdevac, un’enclave serba di 800 abitanti. Gorazdevac è un villaggio di circa 3×3 km, attraversato da un’unica strada asfaltata. All’entrata e all’uscita ci sono i militari della Kfor (questa zona è assegnata a militari rumeni e italiani), che prendono nota di tutti quelli che entrano ed escono e sono naturalmente armati fino ai denti. Il villaggio è fatto di case in mattoni a vista, strade non asfaltate e orti, sembra di stare in campagna, ma una campagna decisamente squallida e anche piuttosto sporca. Gli 800 serbi che vivono qua non possono uscire dal villaggio, se non 3 volte alla settimana, sui convogli scortati dalla Kfor, e solo per andare in Serbia. Naturalmente il viaggio per uscire dal Kossovo e arrivare in Serbia è lungo e costoso e non è fattibile di frequente. Quindi il villaggio è, a tutti gli effetti, una sorta di prigione a cielo aperto. Noi italiani usciamo ed entriamo tranquillamente per andare nella vicina città albanese, Peja-Pec, mentre i serbi (nessuno di loro) può farlo senza rischiare la vita.
«Ma davvero se in città si accorgono che un tipo che sta passando è un serbo, lo ammazzano, così mentre cammina per la strada? E da cosa lo riconoscono, poi?» continuo a chiedere. Mi sembra ancor più incredibile in quanto noi invece ci muoviamo tranquillamente e tutti sono molto amichevoli con noi. Riesce difficile pensare che questi stessi abitanti della città possano trasformarsi in belve sanguinarie alla sola vista di un serbo. «Intanto i serbi per la maggior parte non parlano albanese – mi spiega Fabrizio – poi hanno dei tratti somatici lievemente differenti. Inoltre, prima del ’99 non erano così rigidamente segregati, quindi molti albanesi conoscono molti dei serbi del villaggio. Non è detto che tutti gli albanesi si metterebbero a picchiare un serbo appena lo vedono, ma è molto probabile che qualcuno lo farebbe. Prima degli avvenimenti del 13 agosto 2003, qualcuno si azzardava ad uscire qualche volta, anche se comunque sempre scortato da noi, magari per venire in città a fare acquisti, ma ora non è più possibile».
Ogni famiglia a Gorazdevac ha un po’ di terra e qualche animale, molto importanti per il loro sostentamento. Ci sono due o tre chioschi che vendono qualcosa da mangiare, una «boutique» (c’è scritto così sull’insegna; in realtà, è un chiosco di 2 metri x 2, che vende qualche vestito), una farmacia, un bar e una specie di centro di ritrovo per i ragazzi (che consiste in due stanze in pietra sotto terra che fanno da pub e un biliardino), una chiesa, un campo di calcetto, due cimiteri e qualche gioco per i bambini. Essendo il villaggio un’economia chiusa, il lavoro non c’è per tutti e comunque chi lavora, ha una paga media di 200 euro; chi non ha lavoro dispone di un sussidio di 30 euro al mese per famiglia. Si fa fatica ad arrivare a fine mese, ma il problema di fondo non è la povertà, è la depressione. Per i vecchi e i bambini la dimensione del villaggio potrebbe anche avere dei lati positivi, ma per i giovani diventa incredibilmente frustrante. Nel villaggio ci sono le scuole – fino alle superiori – ma manca ogni prospettiva, ogni possibilità di un futuro normale.
Viene naturale chiedersi perché questi serbi, almeno i giovani, non se ne vadano in Serbia, alla ricerca di una vita normale. Non so rispondere a questa domanda. Sicuramente a Gorazdevac hanno una casa, qualche animale e – alcuni di loro – anche un lavoro, e questo è già molto. In Serbia sarebbero dei profughi senza nulla, e il tasso di disoccupazione in Serbia è già molto alto per i non profughi, figuriamoci quanto sarebbe difficile trovare lavoro per loro. Ma c’è anche la volontà di non abbandonare la propria terra, un sentimento nazionalistico esacerbato dallo scontro con gli albanesi, che difficilmente noi possiamo capire.
Federica e Fabrizio, i due volontari della Colomba, hanno dei progetti di «educazione alla multietnicità» che portavano avanti sia nella città con i ragazzi albanesi, sia nel villaggio, con i serbi. Fino all’anno scorso questo tentativo di integrazione aveva dato anche dei piccoli-grandi risultati, addirittura i ragazzi delle due etnie si incontravano ogni tanto, confrontandosi su attività comuni (rappresentazioni teatrali o mostre fotografiche, preparate separatamente, ma allestite insieme). Poi è successo che una mattina d’estate, i serbi erano in riva al fiume che facevano il bagno e prendevano il sole, quando qualcuno ha sparato sulla «folla», uccidendo due ragazzi e ferendone molti (si legga, in questo stesso dossier, «L’ultimo tuffo di Ivan»). È stato come distruggere in un attimo il lavoro di un anno. Da quel momento la chiusura – sia mentale che fisica – dei serbi è diventata totale. Si è dovuto ricominciare tutto da capo, ma crederci è diventato più difficile.
Un altro lungo periodo di lavoro lento e faticoso, sia con gli albanesi che con i serbi, per convincerli a ricominciare… e poi un nuovo scoppio di violenza. Un altro enorme passo indietro, è difficile ricominciare un’altra volta, anche Federica e Fabrizio fanno fatica a trovare l’entusiasmo. Dopo quello che è successo, anche i rifoimenti dei negozi all’interno dell’enclave diventano più scarsi e Fabrizio e Federica si riducono a fare un servizio di «compere» in città: medicine, scarpe ad un ragazzo che non può sceglierle né provarle, taniche di benzina, pezzi di ricambio per gli attrezzi agricoli…
Fabrizio e Federica non sono a Gorazdevac per questo, ma in questo momento c’è bisogno anche di questo. Comunque continuano a fare attività di discussione con serbi e albanesi. Il villaggio fa molto affidamento su di loro, ed è curioso vedere come comunque i ruoli siano ben definiti: a Fabrizio si rivolgono gli uomini, per chiedergli degli acquisti o una «scorta» se devono uscire dall’enclave; a Federica invece si appoggiano le donne quando la difficoltà di portare avanti una famiglia nella povertà e nella mancanza di speranza si fa più pesante. Per loro è molto importante che lei vada a trovarle e far loro un po’ di compagnia.
Nel villaggio non c’è il metano, la linea telefonica funziona solo nella ricezione. Ci si scalda, si cucina e si fa luce solo con l’elettricità, ma la Kek, l’impresa elettrica del Kossovo, non riesce a rifornire costantemente e così la corrente viene sospesa quasi tutti i giorni e in casa, a lume di candela e senza televisione, non rimane molto da fare. Una stufa a legna è presente in tutte le case, per potersi scaldare e per cucinare anche quando manca la corrente.
Noi non abbiamo condiviso la loro condizione, perché eravamo liberi di spostarci ovunque e lo facevamo, ma la gente di Gorazdevac ci si è comunque affezionata. I giovani parlano un po’ di inglese, i bambini parlano un po’ di italiano (alcuni molto bene) e con gli adulti comunicavamo grazie a Fabrizio e Federica che traducevano. La sera casa nostra diventava un’isola di allegria nel villaggio (cantavamo, giocavamo, parlavamo) e quando ce ne siamo andati, probabilmente a qualcuno siamo mancati.
Un’esigenza molto forte era quella di comunicare col mondo esterno, che in quel momento noi rappresentavamo. La domanda ricorrente era: «Cosa ne pensi di Gorazdevac?». Una domanda a cui era difficilissimo rispondere. Ma non potevi prenderli in giro: dovevi dire loro che a Gorazdevac la situazione è molto triste. Ed immediatamente dopo ti dicevano: «Quando torni in Italia, racconta ciò che hai visto».
Fabiana Scotto
Fabiana Scotto