Il paese più ricco dell’Africa dell’Ovest
è all’impasse. La crisi scoppiata a fine 2002 non sembra risolversi.
Per la gente comune dopo i massacri ora
la difficoltà è mangiare. Testimonianze dal basso…
Abidjan. La capitale economica del paese, un tempo modello di sviluppo per tutta l’Africa occidentale, è oggi irriconoscibile. La gente ha fretta: è sospettosa. La sera tutti spariscono e i posti di blocco militari taglieggiano i pochi tassisti. I quartieri popolari sono blindati; i gruppi etnici si sono raggruppati tra loro e tentano, con improvvisate ronde, di garantire la propria sicurezza.
Al Plateau, la Manhattan africana, nel centro di Abidjan, la vita tra i grattacieli pulsa di giorno, ma al contrario di un tempo, si spegne presto la sera, così come sono ormai chiusi ristoranti e locali nottui.
I DUE PAESI
La guerra civile scoppiata il 19 settembre 2002 ha spaccato territorio e società della Costa d’Avorio, creando divisioni tra la gente in base all’etnia e provenienza.
Il paese è diviso in tre: a nord il 40% è controllato da Forze nuove: militari e milizie che presero le armi contro il presidente Laurent Gbagbo, gli ex ribelli; il sud è in mano alle forze legaliste: le Fanci (Forze armate nazionali della Costa d’Avorio). Queste sono fiancheggiate e appoggiate dalle milizie del presidente, pericolosissime perché sfuggono a ogni controllo. In mezzo, la terra di nessuno: una striscia di terra larga decine di chilometri, che taglia il paese in due da est a ovest. È definita zona di «fiducia», controllata da 4 mila soldati francesi, equipaggiati con le più modee tecnologie (la missione Licoe) e dai caschi blu della Onuci, la missione delle Nazioni Unite per la Costa d’Avorio. Questi ultimi, alla fine dello spiegamento, saranno in 4.600.
Il popolo è sempre di più diviso: ci sono le etnie fedeli al presidente (beté, geré, athié, dida), quelle del nord (dioula, senoufo), gli immigrati stranieri (burkinabè, maliani, guineani, che sono circa il 26% della popolazione e hanno fatto la fortuna del paese, lavorando nelle piantagioni), le etnie che il potere sta cercando di «conquistare», come i baulé, legati al partito di Henri Konan Bédié (Pdci).
Ad alimentare la divisione c’è un disegno preciso del clan del presidente. Ma le radici della divisione sono da cercare più nel passato, quando alla morte di Houpouet Boigny (1993), il presidente Bédié inventò il concetto di ivorité, un nazionalismo pronto all’uso per fini politici (cfr MC ottobre 2003).
«Il paese è caduto in disgrazia – dice un tassista ad Abidjan, dal forte accento del nord -: come si può dire che è tranquillo se vengono in casa tua e ti ammazzano?». «Il paese è calmo – secondo la segretaria di uno studio di professionisti della capitale -; all’estero continuano a dire che qui è rischioso, si sta male: non è vero niente; vengano a vedere! È pieno di nordisti che vengono a fare i loro affari». Due punti di vista di persone di origine molto diversa.
La Francia, a vari livelli implicata nella crisi in Costa d’Avorio (circa 200 società francesi di medie e grandi dimensioni sono nel paese, senza contare quelle piccole), ha patrocinato la soluzione negoziale, portando tutte le parti alla firma dell’accordo di Marcoussis (presso Parigi), nel gennaio 2003. Accordo che ha visto la creazione di un governo di unità nazionale a cui sedevano tutti i partiti e i tre gruppi ribelli (Mpci, Mjp, Mpigo) riuniti sotto la sigla di Forze nuove. Goveo, che avrebbe dovuto risanare le ferite aperte della crisi: la legge fondiaria, la nazionalità, smilitarizzare gli eserciti ribelli e portare il popolo avoriano alle elezioni nel 2005.
SITUAZIONE BLOCCATA
Ma il processo di pace si è arenato: dall’inizio del marzo scorso, partiti di opposizione e movimenti ex ribelli si sono rifiutati di partecipare alle riunioni del consiglio dei ministri. «Gbagbo ha da subito reso impossibile ai ministri di opposizione di governare – confida una fonte – impedendo loro di nominare i direttori generali e dando lui direttamente gli ordini a questi ultimi».
Le Forze nuove (Fn) non si fidano di un presidente che puntualmente contraddice, con le azioni, le dichiarazioni e le firme degli accordi; quindi decidono di non deporre le armi. Guillaume Soro, segretario generale delle Fn, e ministro nel governo di unità nazionale, ha dichiarato nuovamente, il primo maggio scorso, che solo se il presidente lascerà il potere, si riuscirà a organizzare elezioni libere; il disarmo, fino ad allora, non ci sarà.
Il gioco si è fatto ancora più duro e la paura è cresciuta nella capitale dopo i massacri del 25 e 26 marzo. L’opposizione aveva in quei giorni indetto una manifestazione e il governo aveva proibito ogni raggruppamento di popolazione. Il presidente temeva che le forze ribelli si sarebbero potute infiltrare e prendere la capitale.
All’alba del 25, reparti militari, di polizia e «milizie parallele» bloccarono i manifestanti prima ancora che potessero organizzarsi, continuando la repressione per tutto il giorno seguente: il governo dichiarò 37 morti; il rapporto dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani parlò di almeno 120 morti, 274 feriti e 20 dispersi; il Movimento avoriano dei diritti umani di 300-400 vittime.
«Ci sono stati molti assassini ad Abobo. I dioula hanno sgozzato due gendarmi. È entrata in azione l’aviazione; altri militari sono entrati nelle case, uccidendo la gente e portato via i corpi. Non si sa dove li portassero, ma li facevano sparire» racconta una fonte (non dioula), del quartiere popolare Abobo, abitato da molti «nordisti» e immigrati.
«Sono sparite centinaia di persone in meno di 48 ore. Voci insistenti parlano di due fosse comuni, che prima o poi, salteranno fuori» afferma un funzionario della Commissione europea, da anni presente nel paese e con molti amici nei quartieri popolari.
Il dettagliato rapporto Onu chiama in causa, come responsabili, «alte cariche dello stato» e ciò ha fatto infuriare il presidente: è iniziata una campagna di discredito nei confronti delle Nazioni Unite, condotta con ogni mezzo (mass media fedeli al potere, studenti, milizie del presidente). La situazione politica e militare è di stallo; i due blocchi si stanno a guardare.
UN VICINO PERICOLOSO
Ma al di là dei giochi e dichiarazioni politiche, continuano le sofferenze della gente comune. David Bêhi Touamin, che ha vissuto la guerra là dove è stata più cruenta, ad ovest del paese, ai confini con la Liberia, acconsente a raccontarci la sua esperienza.
Tecnico agricolo, lavorava per un organismo non governativo prima della crisi; ma alla fine del 2002, in seguito agli scontri di settembre e la divisione tra nord e sud del paese, nell’ovest nasceva il Mpigo (Movimento popolare ivoriano del grande ovest).
«Quando i ribelli presero Danané, pensammo che si trattasse di qualcosa di politico. Ma subito ci accorgemmo che questa gente attaccava tutti quelli che avevano dei beni: ong e funzionari. L’accusa di aver nascosto armi o persone bastava per dar inizio al saccheggio. Chi si opponeva era morto.
Erano liberiani, ma anche sierraleonesi, già attivi nelle lunghe guerre civili dei loro paesi e nell’est della Guinea. Giovani sfaccendati yacuba (etnia della zona) erano con loro e indicavano dove c’era da saccheggiare: sparavano in aria ed entravano nelle case della gente».
«Presi i grandi magazzini e le attività commerciali, restava la popolazione. Quella che ancora non era scappata. Hanno cominciato ad attaccare i villaggi: Kavalé, Toulepleu, Giglò, nella zona dei geré. Questi, che non volevano i liberiani, hanno cercato di respingerli, ma sono stati massacrati. E poiché tra i liberiani c’erano i yacuba, è iniziato un conflitto tra le due etnie». Problema che persiste.
Ma gli avvenimenti più sanguinosi si ebbero quando le forze nazionali (Fanci) cercarono di riprendere la zona. «Le Fanci erano composte da quattro gruppi: militari, gendarmi, milizie geré e liberiani. I geré venivano a vendicarsi per gli attacchi subiti dai yacuba e recuperare il bottino. Attaccarono Zouan-Hounien, sparando a vista, senza domandare nulla. Fortunati chi incontrava prima i militari o i gendarmi: i yacuba venivano arrestati, con l’accusa di aver aiutato i ribelli».
I liberiani di cui parla David sono di etnia affine a quella geré e in opposizione a quelli che costituivano il Mpigo, milizie mercenarie assoldate dal presidente Gbagbo per «liberare» l’ovest. «L’arrivo di questi liberiani fu il momento peggiore – conferma un padre cappuccino che dovette evacuare la zona -. Mostrarono una ferocia senza precedenti».
«Ci sono stati molti morti – continua David -. Li ho visti prima di fuggire: in certi punti c’erano cataste di cadaveri. Hanno riempito i pozzi di corpi (inquinando così le falde e creando focolai di epidemia, ndr.), altri sono stati gettati sul bordo della strada. Nella casa dove vivo adesso, c’erano vari corpi nascosti. Non sappiamo chi e quanti sono morti: è impossibile conoscee il numero».
Una volontaria italiana che lavorava nella zona racconta storie truculente, riportate dai sopravvissuti: «Un uomo fu ucciso e fatto a pezzi davanti alla moglie e ai figli. Poi, i liberiani, obbligarono la donna a cucinarlo e in seguito a mangiarlo e a bere il suo sangue…».
COSTRETTI A SPOSTARSI
David, minuto, non più giovane, è yacuba e, come molti altri nella zona, è dovuto sfollare con la famiglia ad Abidjan. Dati delle Nazioni Unite contano un milione gli sfollati interni a causa della crisi, metà dei quali non sono ancora rientrati. La maggior parte è stata ospitata presso famiglie e conoscenti, gonfiando i quartieri di alcune città come Giglo, Abidjan, Yamoussoukro. L’ovest è stato il più colpito.
«Ho fatto quattro mesi ad Abidjan, cercando lavoro, ma senza successo. Quando sono arrivati i militari francesi, la situazione si è stabilizzata e siamo ritornati – continua David -. Oggi le cose sono cambiate anche nell’ovest: non ammazzano non saccheggiano più. Ma c’è molta fame. Le case sono state bruciate, la gente si è dispersa, ha perso tutto e non ha potuto coltivare. I campi sono abbandonati, tornati a savana incolta. Ma rimane la paura. Molta gente non vuole restare nei campi».
Anche l’ovest è tagliato in due: a nord Danané e Man; a sud Zouan-Hounien, Blolequin, Guiglo. Le prime sono in mano agli ex ribelli dell’Mpci; le seconde ai governativi; in mezzo i militari francesi.
Le milizie liberiane di entrambi i fronti sono state ributtate nel loro paese e la Licoe pattuglia la frontiera per evitare infiltrazioni. David dice che adesso è possibile passare i vari posti di blocco e spiega qual è il business oggi: «Io riesco ad andare a Danané e ritorno in giornata, pagando qualcosa ai posti di blocco. Ma non posso portare bagagli. Oggi tutti cercano di fare affari con il commercio; ma solo i dioula possono farli. Per questo la situazione deve essere mantenuta calma e i soldi devono poter girare, anche fisicamente».
I grossi commercianti e capi ribelli si stanno arricchendo: importano beni di consumo dai paesi del nord (Mali, Guinea, Burkina Faso) e vi esportano caffè e cacao comprato a basso prezzo. Portare mercanzie dalla zona ribelle verso Abidjan è ancora molto complicato.
«Adesso la gente sta rientrando. C’è anche una parte della popolazione della zona occupata dai ribelli che viene da noi perché ha paura. Non c’è legge nel nord, se non quella di chi ha le armi. Qui la guerra ha toccato anche i villaggi. Molte case sono state bruciate. Non si sa ancora chi è morto, chi è vivo ed è scappato. Per questo molti occupano le case ancora in piedi di chi è sparito; mentre può capitare di vedere le proprie cose, saccheggiate nei mesi precedenti, a casa di qualcun altro».
La sanità è in emergenza in entrambi i lati. Le scuole stanno riprendendo anche nel nord, ma i pochi insegnanti non hanno nessun controllo. «Ma il problema più grave è la mancanza di cibo – conclude David -. I commercianti dioula vendono il riso a 200 franchi (30 centesimi) al chilo, anziché a 260, ma la gente non ha i soldi per comprarlo».
Marco Bello