APPELLO KENYAViva Nairobi viva

Il 55% della popolazione di Nairobi (Kenya) vive in 168 baraccopoli, dove i servizi sono inesistenti. Il governo del Kenya ha deciso
la demolizione di 42 mila strutture (baracche, scuole, chiese, centri comunitari, cliniche, mercatini, ecc.), lasciando senza casa né speranza oltre 354 persone. Le demolizioni
sono già cominciate, senza preavviso né offerta
di alcuna alternativa o compensazione.
Il «Coordinamento delle parrocchie negli insediamenti informali» (slums) di Nairobi ha lanciato un appello per fermare le demolizioni
e avviare un tavolo di trattative serio, finalizzato a trovare soluzioni accettabili: limitazione dei trasferimenti, rilocazione concordata, indennizzi per gli sgomberati.
Varie associazioni e personalità inteazionali hanno aderito all’appello e lanciato la campagna «Viva Nairobi Viva», tra cui i volontari di AfrikaSì, impegnati negli slums della parrocchia della Consolata di Westlands, Nairobi
(vedi dossier in M.C. marzo 2004).

La notizia della demolizione sistematica degli slum a Nairobi ha colto noi operatori volontari in quel territorio di sorpresa, lasciandoci basiti.
Chi conosce gli slum sa perfettamente quali siano le condizioni di degrado estremo di quella realtà che si svolge al di fuori di ogni canone di vita compatibile con gli esseri umani. Ma cacciarli di lì senza alcuna azione concreta di ristrutturazione migliorativa o no, significa togliere loro l’unica risorsa di cui dispongono: la speranza.
È per dar loro la speranza di una vita accettabile e civile che noi di AfrikaSì andiamo laggiù a operare, immergendoci nella loro miseria materiale e spirituale e nella loro vita. Noi, un pugno di volontari, andiamo a portare il poco che possiamo materialmente, il tanto che abbiamo nel nostro cuore, commossi e profondamente turbati dal loro dolore, nascosto spesso dietro un sorriso e la rassegnazione.
Cacciarli di lì, da quei tuguri che rappresentano l’unico «bene» e certezza, non è propriamente un atto di civiltà, come si vorrebbe far credere, ma un ulteriore crudeltà della civiltà delle ruspe e della tecnologia.
Possiamo comprendere, noi occidentali, come spianare il loro fango misto a sterco, allontanando il loro fetore, possa essere liberatorio per noi, per le nostre case e la nostra «pulizia»; diversa forse la loro ottica. Buttar via quelle quattro assi e quegli stracci, unici loro beni, significa compiere l’ultimo gesto di negazione e di rifiuto, dopo aver loro rubato le terre, le case rurali, la realtà contadina decorosa e civile in chiave con le loro radici e tradizioni a favore del latifondo, con l’inganno supremo di un lavoro in città, con il miraggio di un benessere migliorativo.
Questo il primo passo della nuova Repubblica kenyana, il primo intervento nei confronti dei diseredati della terra.
«Son sempre i cenci che vanno all’aria» diceva Manzoni. Le ruspe contro le forchette come sempre, come adesso «esportare la democrazia» è il nuovo look politico di questa epoca che, nella sua grande violenza e ipocrisia, aggredisce i deboli, togliendo loro il molto o il nulla che posseggono, peraltro ammantando la prevaricazione, il sopruso, l’offesa sotto la veste etica della democrazia, foriera per definizione di libertà, benessere, bene assoluto.
Bene per chi? Non certo per coloro che non hanno voce, mezzi, armi per difendersi. Perché non fare altrettanto e quindi esportare le nostre ideologie sacre in quei paesi e territori ove la democrazia è carente, ma dove si incontrerebbe una reazione, una risposta altrettanto forte a difesa delle proprie radici, della propria terra, magari una risposta con armi tecnologiche altrettanto distruttive e offensive delle nostre? Semplice, questa è la legge dei prepotenti e dei vigliacchi di questo sporco mondo che, adducendo lo spettro del terrorismo, nascondono agli stolti e ai ciechi che esso nasce proprio dalla violenza, aggressività e ingiustizia e come il perpetuarsi di queste dinamiche sia la causa prima che alimenta la reazione dei poveri con le loro armi: pietre, sangue, pianti e disperata estrema reazione: il suicidio.
Con queste nostre semplici ma oggettive valutazioni, intrise di amarezza e di dolore, unite allo sconforto e all’impotenza intendiamo denunciare con grido lacerante la nostra più vibrata protesta insieme a quella di tutti coloro che vivono e soffrono con noi l’ingiustizia, la prevaricazione, la stupidità. Grido associato in modo irrevocabile alla nostra volontà di andare avanti e di combattere per questi sacri, eterni ideali.

Ennio Di Giulio




KENYAUna bibbia in ogni famiglia

All’inizio del 2004, in varie diocesi del Kenya si è svolta con successo la campagna
per la diffusione della bibbia nelle famiglie,
con l’invito alla lettura quotidiana della parola
di Dio. A Nairobi l’evento ha avuto luogo
nella parrocchia-santuario della Consolata.

Mentre cresceva nel villaggio rurale di Mwala, diocesi di Machakos, il futuro vescovo di Nairobi, Raphael Ndingi Mwana ‘a Nzeki, non ebbe mai l’opportunità di sedersi e leggere la bibbia, finché non entrò nel seminario maggiore. Non è che il ragazzo ignorasse le scritture. «Prima di tutto la bibbia era disponibile solo in latino; in secondo luogo la chiesa non sempre incoraggiava i laici a leggere le scritture» ha detto l’arcivescovo ai cristiani di Nairobi.
In quei giorni, la bibbia era apparentemente destinata solo al clero. Ma il Concilio Vaticano ii ha capovolto la situazione. Nel 1965 Paolo vi impresse un forte impulso alla costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, Dei Verbum, in cui si raccomanda di provvedere perché «tutti i fedeli abbiano facile accesso alle sacre scritture».
Negli ultimi 40 anni, la bibbia è stata tradotta in tutte le lingue del Kenya, ma l’abitudine di leggere non è diventata abbastanza popolare o, secondo l’umorismo protestante, molti cattolici hanno tale rispetto per la bibbia che non osano aprirla.
«Resta ancora tanto lavoro pastorale da fare, non solo per mettere la bibbia nelle mani dei cristiani, ma anche per aiutarli a capire quanto essa sia importante nelle loro esperienze quotidiane» ha detto Alexander Schweitzer, segretario generale della Federazione biblica cattolica (Cbf), mentre visitava il paese lo scorso febbraio. Egli si è rivolto agli agenti di pastorali perché suscitino la consapevolezza tra i cristiani sull’importanza delle sacre scritture come compagna quotidiana nel loro cammino spirituale.
È precisamente questo che le suore Paoline hanno messo in moto a Nairobi e Nanyuki, all’inizio dell’anno, organizzando la «giornata biblica», all’insegna del motto «la bibbia in ogni famiglia».
A Nairobi, l’evento ebbe luogo il 24 gennaio 2004 nella parrocchia-santuario della Consolata: con una solenne cerimonia fu intronizzata la bibbia, quindi l’arcivescovo Ndingi e il nunzio apostolico Giovanni Tonucci, insieme a vari studiosi, parlarono ai fedeli e risposero alle loro domande. A Nanyuki lo stesso evento fu preparato durante il mese di gennaio e concluso il 14 febbraio 2004.

LA BIBBIA: NON È UN LIBRO, MA UNA BIBLIOTECA

Nella sua presentazione, mons. Tonucci tracciò una breve storia della composizione della bibbia, spiegando che i 73 libri della bibbia cattolica (46 nel Primo e 27 nel Nuovo Testamento; i protestanti ne hanno solo 66) furono scritti da autori differenti, in circostanze storiche e culturali differenti, con linguaggi e stili differenti, in un periodo di mille anni. E questo, ha spiegato il nunzio, fa sì che la bibbia sia una biblioteca di libri da leggere con attenzione.
«I libri della bibbia furono scritti in ebraico e greco – ha continuato -. Ciò che noi oggi usiamo sono traduzioni; e benché i traduttori facciano del loro meglio, esse non sempre riflettono perfettamente gli originali». Portò l’esempio della parola Geova, presente in alcune traduzioni della bibbia e usato da alcuni cristiani come nome di Dio: tale termine, ha detto, non è mai esistito nelle versioni originali in ebraico e greco.
Anche i differenti stili usati nello scrivere la bibbia devono essere tenuti in mente quando si leggono le scritture. Alcuni libri devono essere letti come storia, altri come romanzi, altri ancora come canti; alcuni contengono testi per meditazione e preghiera, mentre altri riportano statistiche, come il 1° libro delle Cronache, che contiene 9 capitoli di numeri, ha continuato mons. Tonucci: «Puoi pregare e meditare sulla misericordia di Dio, rivelata nella parabola del figliol prodigo in Luca 15; non altrettanto si riesce a fare con i 9 capitoli delle Cronache».
Inoltre, la bibbia riflette le differenti culture del Medio Oriente antico: una comprensione di tali culture è essenziale per una lettura significativa delle scritture, ha spiegato il nunzio, aggiungendo che i cambiamenti che avvengono in una lingua attraverso il tempo incide sul significato originale delle scritture.

LA BIBBIA: È CIBO, NON MEDICINA

Nonostante queste difficoltà, i cristiani devono leggere regolarmente la bibbia, ha sottolineato il nunzio: «Essa è la parola vivente solo quando la leggi. Ai nostri fratelli e sorelle protestanti piace andare in giro con la bibbia sotto il braccio: buon per loro; per noi, la bibbia rimane in casa, dove la leggiamo con calma e tranquillità».
Egli ha pure messo in guardia sulla lettura selettiva e ha spronato i cristiani a leggee il libro o capitolo intero, perché la bibbia deve essere considerata come un pasto da consumare, non una medicina da ingoiare a piccole dosi quando sorge un bisogno. «La bibbia non è una miniera di buone citazioni per sostenere le proprie idee, ma una sorgente d’ispirazione nel suo insieme, e sempre sotto la guida della chiesa».
Il nunzio ha confutato la visione protestante, secondo cui la bibbia ha fatto la chiesa. «Non è la bibbia che ha creato la chiesa, ma il contrario: essa è esistita prima del vangelo scritto; è nata nella sala dell’ultima cena, sul calvario, a Pentecoste… La buona notizia della salvezza era già stata predicata molti anni prima che fosse scritto il primo libro del Nuovo Testamento. Più tardi, quando numerosi libri pretendevano di essere racconti della vita e lavoro di Gesù, fu la chiesa a selezionare quelli che erano genuini per essere inclusi tra le sacre scritture.

LA BIBBIA: GUIDA PER LA FAMIGLIA CRISTIANA

Arcivescovo Ndingi, dopo una breve riflessione sulla famiglia come «chiesa domestica», ha detto che la bibbia ha guidato il popolo di Dio nella sua vita quotidiana. «La paragono alla costituzione di una nazione – ha affermato, esortando le famiglie cristiane a fare della parola di Dio il centro della loro vita -. Nella famiglia ha inizio la chiesa universale… I membri della famiglia dovrebbero leggere ogni giorno un passo della bibbia per trae ispirazione».
Padre Henry Akaabian, direttore del Centro biblico per l’Africa e Madagascar (Bicam), ha parlato su come fare della bibbia la guida della propria vita. «Il mio richiamo ai cristiani africani è che abbiamo mancato di testimoniare i valori del vangelo con la nostra vita… Perché leggiamo ciò che Dio richiede da noi e poi non lo traduciamo nella vita delle nostre comunità?». Egli ha messo in risalto come la bibbia deve portare il cristiano a una vera conversione: non si tratta semplicemente di una conoscenza accurata di ciò che dice la scrittura, ma piuttosto di un personale incontro con Cristo.
Padre Vincent Kamiri, dell’Università cattolica dell’Africa orientale (Cuea), ha discusso sul ruolo di Maria nella bibbia e nella chiesa.

IN GUARDIA CONTRO GLI ABUSI

A Nanyuki, la «giornata biblica» ha avuto luogo nella parrocchia di Cristo Re. Mons. Tonucci è stato l’oratore principale. Rivolgendosi ai 10 mila fedeli del decanato di Nanyuki, ha ripetuto la presentazione fatta a Nairobi, quindi ha risposto alle domande presentategli in antecedenza.
Molte di esse tradivano l’influenza della predicazione protestante ed evangelica e riguardavano la Madonna, il sabato, le bevande alcoliche, l’uso delle immagini nel culto cattolico, uso dei pantaloni da parte delle donne, il fondamento biblico della data del natale… Oltre a mettere in guardia i cattolici contro l’uso errato delle sacre scritture, mons. Tonucci ha spiegato che la bibbia non dice nulla su argomenti scientifici. «Gli autori della bibbia hanno scritto libri di teologia e non di scienze. Per cui non si può sostenere che la teoria dell’evoluzione sia errata perché la bibbia parla di creazione. Essa non si occupa di verità scientifica».
Il nunzio si è rammaricato che molti cattolici siano stati fuorviati dalla lettura selettiva e interpretazione spuria della bibbia da parte di alcune chiese cristiane, prevalentemente fissate sul primo testamento.
Incoraggiando i fedeli a leggere la bibbia ogni giorno, egli ha pure avvertito che la verità nella bibbia non è questione di interpretazione personale: «Abbiamo bisogno della guida della chiesa per comprendere la scrittura» ha detto, aggiungendo che i cattolici non vedono la bibbia come unica sorgente di rivelazione divina, come avviene nelle altre denominazioni cristiane. Nella costituzione dogmatica Dei Verbum, la chiesa, mentre esorta i fedeli a sviluppare l’abitudine di leggere la bibbia, afferma che le tre sorgenti della divina rivelazione sono la sacra scrittura, la tradizione e l’insegnamento o magistero della chiesa.
La «giornata biblica» a Nanyuki si concluse con la celebrazione eucaristica, presieduta da mons. Nicodemus Kirima, arcivescovo di Nyeri.

Henry Makori




CIADMedici laici in missione

Il racconto semplice, ma convinto
di una giovane coppia di medici, che ha voluto
«affondare la sua radice» in terra africana.
In nome della fede, alimentata dalla «linfa vitale»
di una frateità a tutto campo.

«Siamo stranieri, ma ci sentiamo a casa; abbiamo imparato a vivere una vita più semplice, ma piena di senso. Per la sua precarietà, le storie di cui veniamo a conoscenza, gli stessi impegni che abbiamo, la vita in Ciad ci richiama continuamente al senso ultimo della vita. Abbiamo affondato nell’humus della terra una nuova radice, che speriamo ci renda più solidi e nutra la nostra famiglia con la linfa vitale della frateità e comunione». Con queste parole Emanuela e Paolo hanno voluto terminare il racconto che mi hanno fatto della loro esperienza missionaria: sei anni vissuti con amore e fede sul territorio africano.

VOGLIA DI CONDIVIDERE

Entrambi medici, si sono incontrati per la prima volta a un corso di medicina tropicale, organizzato dal Cuamm di Padova. Spiega Emanuela: «Indipendentemente l’uno dall’altra, inseguivamo il forte desiderio di dedicare almeno una parte della nostra vita professionale a un paese in via di sviluppo e tutti e due eravamo orientati all’Africa».
Già qualche anno prima di approdare a Padova, avevano avuto modo di toccare da vicino la realtà sanitaria africana: Emanuela era stata in viaggio in Uganda, presso un ospedale missionario; Paolo aveva visitato un ospedale del Burkina Faso, entrambi gestiti da medici del Cuamm. Sono state proprio queste brevi esperienze che hanno fatto crescere il desiderio di passare più tempo sul suolo africano e li hanno spinti a seguire il corso padovano.
Due anni dopo il primo incontro, nel 1993, si sono sposati; pur continuando a pensare, prima o poi, di fare le valigie, hanno cominciato a lavorare in Italia, frequentando scuole di specializzazione in linea con il corso che la loro vita stava prendendo: Emanuela medicina intea e Paolo pediatria.
«In quegli anni, in Italia si era verificata una grande crisi della cooperazione internazionale – ricorda Paolo -. In seguito al crollo del muro di Berlino, gran parte degli investimenti era stata “dirottata” all’Europa dell’Est. Altro duro colpo fu lo scandalo del Fondo Aiuti Italiano (Fai), sull’onda di mani pulite».
Aggiunge Emanuela: «Cercavamo contratti per partire come cooperanti per un periodo minimo di due anni e non ne trovavamo. Da quegli anni in poi si è sviluppata la moda dell’emergenza e contratti a breve termine: sei mesi, massimo un anno. Come prima esperienza, ciò non ci interessava; eravamo convinti che ci volesse un certo tempo per entrare in contatto con la realtà».
Un periodo così breve non avrebbe, infatti, permesso di calarsi fino in fondo nelle situazioni locali, di capire il modo di vivere della gente; avrebbe permesso di portare un aiuto isolato, sicuramente valido ma, per certi versi, fine a se stesso; mentre quello che cercava la giovane coppia era la costruzione di rapporti umani, l’integrazione, per quanto possibile, con la popolazione del posto, per costruire con loro qualcosa che rimanesse nel tempo, oltre il giorno del loro rientro in Italia.

PRIMA… MISSIONARI

Mentre ragionavano sul loro futuro, una coppia di amici, Marta e Marco, si stava preparando a partire per l’Africa, come missionari laici. «Avevamo conosciuto il centro in cui seguivano la formazione, a Piombino in Toscana (Centro frateità missionarie, vedi riquadro) e spesso li accompagnavamo, perché ci sembrava una formazione molto bella, che avrebbe potuto servire anche a noi» ricordano con piacere.
«In effetti, per noi la dimensione della fede restava fondamentale e ci chiedevamo in che modo poterla vivere, anche in un’esperienza prettamente professionale come quella della cooperazione. Nei nostri viaggi in Uganda e Burkina Faso avevamo entrambi notato come la fede fosse sì la motivazione fondamentale di molti, ma spesso restava in secondo piano nella vita concreta, a causa del sovraccarico di lavoro e richieste infinite. Inoltre, ci sembrava che la vita dei cooperanti fosse tutta tesa all’apporto professionale, senza un contatto normale, quotidiano, con la gente, se non quello di medico-paziente. A poco a poco, continuando a seguire la formazione a Piombino anche dopo la partenza dei nostri amici per il Ciad, ci siamo resi conto che la proposta del Centro frateità missionarie poteva fare al caso nostro».
Una presa di coscienza abbastanza faticosa per tutti e due: «Ci veniva chiesto di spogliarci, almeno momentaneamente, del ruolo di medici che a noi stava tanto bene… Prima di tutto dovevamo sentirci inviati, cioè missionari, portatori dell’annuncio evangelico».
All’inizio sembrava tutto troppo difficile. Ma i numerosi aspetti della proposta del Centro frateità missionarie hanno avuto la meglio. «Alla fine del 1996 è arrivata la proposta della frateità di N’Djamena, che era allora composta proprio da Marta e Marco e da don Aldo, della diocesi di Milano. Vivevano insieme da due anni nella periferia della città» racconta Paolo.
Dopo un viaggio conoscitivo e il sì definitivo, lasciato anche il lavoro, la coppia ha dedicato tutto il 1997 a una preparazione più approfondita: un mese al Centro di Piombino; il corso al Centro unitario missionario (Cum) a Verona; due mesi e mezzo in Ciad per imparare il francese; sei mesi al corso di medicina tropicale ad Anversa, in Belgio. «Sono state tutte occasioni preziose, sia per approfondire la riflessione sul cammino che ci accingevamo a percorrere, sia per conoscere tante persone con cui abbiamo iniziato bellissime amicizie. Già nel periodo di preparazione cominciavamo a ricevere il centuplo promesso!» tiene a sottolineare Emanuela.

«TORNIAMO A CASA?»

«Il 4 aprile 1998 siamo arrivati a N’Djamena – continua Emanuela -. Una data impossibile da dimenticare: in piena stagione calda e la peggiore degli ultimi 30 anni! Il termometro arrivava a 48-50 gradi all’ombra. La casa, disabitata da qualche mese, perché Marta e Marco erano in Italia per ragioni di salute, era sepolta sotto uno strato di polvere. C’era di che scoraggiare i più intrepidi. Giovanni, il nostro primogenito, che allora aveva due anni, dopo un’ora ha esclamato: “Papà, adesso torniamo a casa!”. Era quello che tutti pensavamo». Invece Emanuela e Paolo non si sono mossi e sono ancora lì, dopo sei anni!
Nonostante il quadro scoraggiante, almeno per chi vive in Europa, la loro prima impressione, fortissima e che ancora conservano, è stata la gente: nonostante tutto vive ed è contenta. Di fronte a tutto quello che hanno iniziato a vedere e toccare con mano, durante i primi mesi di permanenza sono stati assaliti da un senso di inutilità: «È un sentimento che ci sembra bene risvegliare ogni tanto, per ricordarci che qui non siamo eterni, che è la gente che deve essere protagonista delle scelte e che, se siamo qui, è per uno scambio, il più possibile alla pari».
Il primo anno è passato ad ambientarsi, conoscere le persone, i luoghi, fra cui le strutture sanitarie, imparare l’arabo ciadiano. Nello stesso tempo la coppia ha cercato di capire, anche con l’aiuto della chiesa locale, come mettere al servizio degli altri le loro conoscenze professionali. Così, dal 1999, Paolo ha cominciato a lavorare nell’ospedale governativo del quartiere dove vivevano ed Emanuela nel servizio diocesano per i malati di Aids, campo per il quale c’era stata una richiesta pressante da parte del vescovo.
Nel frattempo, nel marzo 1999, è nata la seconda bambina, Sofia. La famiglia che veniva dall’Italia ha così cominciato a prendere una forma accettabile per lo standard africano, due coniugi con un solo figlio non sono quasi considerati famiglia.
La presenza dei bambini che crescevano ha facilitato una conoscenza sempre maggiore del vicinato e un’integrazione a tutti gli effetti, come avevano sempre voluto: «I bambini non hanno barriere, spontaneamente si infilano nelle case altrui, cosa che qui è assolutamente normale; e noi, per recuperarli, abbiamo potuto conoscere gli adulti degli altri cortili che si affacciano sulla nostra strada» spiega Emanuela.

RITORNO… COME PARTENZA

Spesso, si pensa che chi vive in paesi «lontani» (geograficamente, economicamente o culturalmente) abbia un’organizzazione della giornata e della vita profondamente diversa dagli standard cosiddetti occidentali. In realtà, guardando lo scandire delle ore della numerosa famiglia di Emanuela e Paolo (nel frattempo è arrivato anche Carlo, che ora ha due anni), non si trovano grandi differenze.
Al mattino si accompagnano i bambini a scuola, che inizia alle 7,30. Si tratta di una scuola ciadiana, fondata da una chiesa protestante; nelle classi del ciclo elementare ci sono dai 50 ai 70 bambini, mentre l’asilo è meno frequentato. I loro figli sono gli unici europei, il che ha loro creato qualche difficoltà, vista la curiosità ai limiti dell’invadenza dei bambini africani.
Il ritorno da scuola è intorno a mezzogiorno, ora in cui cominciano le scorribande con i ragazzini del vicinato; una banda di una decina di scatenati, che giocano usando tutta la fantasia e l’energia possibili. Anche il più piccolino, Carlo, saltella dietro il gruppo contento di potersi associare ai giochi, più o meno sorvegliato dagli amici più grandi.
Come in un qualsiasi paese industrializzato, in cui mamma e papà lavorano, anche nella loro organizzazione familiare ci sono due donne che danno una mano nel curare i bambini e gestire la casa.
«Paolo ed io lavoriamo 3-4 giorni la settimana, in ambito sanitario. Abbiamo scelto di avere un impegno a metà tempo per conservare lo spazio per gli incontri di frateità: una volta la settimana sul vangelo della domenica successiva, un’altra per una riunione di riflessione su un aspetto della nostra vita, o più operativa se c’è qualche scadenza imminente. Spesso, comunque, le tre giornate di lavoro medico sono completate da riunioni e incontri che si svolgono soprattutto al pomeriggio. Qui non esiste una vita nottua, il tempo è gestito seguendo la luce solare. La sera, dopo cena, si è spesso così stanchi che non si può far altro che buttarsi sul letto».

Agiugno di quest’anno Emanuela e Paolo sono rientrati in Italia definitivamente: rientro previsto e non più procrastinabile, soprattutto a causa della scolarità dei figli. «Come le altre famiglie del Centro di Piombino già rientrate, consideriamo questo ritorno come una nuova partenza – spiega Paolo -. Ci metteremo in ascolto della realtà italiana, nella città in cui andremo a vivere e ci reinseriremo, come abbiamo fatto in Ciad; con la differenza che, questa volta, abbiamo già un minimo di conoscenza della cultura… Certamente non consideriamo questo tratto di vita come una parentesi da chiudere, ma come un tesoro da spendere nella nostra società italiana. La vita in Africa ci ha sicuramente cambiati: nelle piccole come nelle grandi cose».
Per Emanuela, che ha vissuto 30 anni in una città come Milano, è stata dura abituarsi all’interessamento continuo dei vicini africani sulla loro vita, ai saluti degli sconosciuti: «Qui si dice che, quando qualcuno ti saluta, vuol dire che sei vivo. Un africano si sentirebbe come morto in una delle nostre città, dove si è un po’ tutti indifferenti gli uni agli altri. Ho imparato il grande valore delle relazioni, anche fatte di cose apparentemente insignificanti. Inoltre, lo sforzo di inserirsi in una cultura diversa, la coscienza di essere stranieri (dunque, ospiti) ci ha insegnato una grande umiltà nell’approccio con gli altri. Molti pregiudizi che come occidentali abbiamo incamerato senza accorgercene, si sono dissolti come neve al sole».

Valeria Confalonieri




MONGOLIA (1)Bambini da… stanare

I primi 5 missionari e missionarie della Consolata sono in Mongolia da appena un anno.
Oltre alla lingua, studiano come progettare
la missione. E il lavoro non manca.

Steppe immense e cielo azzurro: è la prima impressione mozzafiato provata nel mettere piede in Mongolia, all’inizio di luglio del 2003. Il paese è cinque volte più esteso dell’Italia, ma con una popolazione di circa 3 milioni di abitanti; un terzo di essi vive nella capitale Ulaanbaatar.
Ben presto l’emozione cede alla visione della realtà: il paese attraversa una profonda crisi economica e di identità, da quando, con la fine del comunismo e lo sfascio dell’impero sovietico, i russi hanno abbandonato a se stessa la Mongolia, lasciando interi villaggi disabitati, provocando la chiusura di molte fabbriche e costringendo la gente a dipendere dagli aiuti umanitari.
Il costo della vita si è impennato, mentre i salari non aumentano: un impiegato statale, per esempio, guadagna da 50 a 80 euro al mese. Dalle nostre spese, possiamo fare i conti in tasca alla gente: un chilo di carne (la più economica è quella di cavallo), un litro di latte e un pezzo di pane costano 2.200 tugruk (1,60 euro); moltiplicato per 30 giorni fa quasi il mensile di un operaio.
La povertà provoca enormi problemi sociali, come la fuga verso la città; l’alcornolismo è diventato una piaga sociale spaventosa. Le statistiche della Fao fanno rabbrividire: un terzo delle famiglie mongole rientra nella fascia della povertà grave; quasi la metà dei bambini vive di stenti; i ragazzi di strada sono tra i problemi più raccapriccianti del paese.

I BAMBINI DEL TOMBINO

Prima di arrivare ad Ulaanbaatar, sapevo del fenomeno per sentito dire; ma non ne avrei mai immaginato la cruda realtà, finché non la vidi con i miei occhi: quasi per caso abbiamo scoperto alcuni bambini in un tombino, poco lontano dalla nostra abitazione. Appena sollevammo il coperchio fummo soffocati da un fortissimo tanfo di muffa ed escrementi; i bambini erano attorniati da un esercito di scarafaggi, rannicchiati in un angusto rifugio di pochi decimetri cubici, sotto il grosso tubo umido e semi arrugginito del riscaldamento, eredità della tecnologia russa, che si snoda e s’incrocia con cento altri tubi nelle viscere della città.
L’alta temperatura dell’acqua che vi scorre procura a quel rifugio un tepore sopra i 20°, che permette, bene o male, di sopravvivere e ripararsi dal gelo che, fuori, attanaglia le strade della città.
Oggi hanno trovato tra gli avanzi delle ossa semispolpate; domani non non lo sanno; forse non troveranno nulla tra l’immondizia di una città povera, non abituata a sprecare.
Ciò che abbiamo visto non è la scena di un pessimo film di fantascienza, ma la reale condizione di migliaia di bambini, molti dei quali in età prescolare, nella capitale più fredda del mondo, dove il termometro scende spesso a meno 35°.
Fuggono situazioni familiari insostenibili: padri ubriachi e violenti, famiglie disastrate, promiscuità, madri single o vedove, situazioni di miseria e degrado inimmaginabili.
Si radunano in branchi, come animali selvatici, ma non lo sono. Vorremmo fare sentire loro che sono esseri umani come noi; spiegare che sono nostri fratelli, figli dello stesso Padre. Ma ci assale un senso di impotenza: siamo ancora all’abc della loro lingua. Anche questo ci stimola a studiare con maggiore impegno per impararla più in fretta. Mentre questi bambini lottano per un osso spolpato, noi lottiamo contro un osso duro: il mongolo (vedi riquadro).
In tali rifugi, oltre al calore, questi bambini cercano un riparo per sfuggire alla polizia di cui hanno paura. Non sappiamo bene perché: ma quando riusciremo a comunicare meglio, lo sapremo.
Da quando è crollato il comunismo (il regime garantiva un minimo di sussistenza), anche i minori ingrossano le file di quei disperati che cercano nell’accattonaggio una possibilità per sopravvivere. Questi bambini vivono nella peggiore promiscuità con adulti alcolizzati, malati, emarginati. Alle sofferenze causate dal freddo, fame, mancanza d’acqua, sporcizia, si aggiunge la paura della violenza: questa può scoppiare spesso irrefrenabile tra ubriachi, adulti o ragazzi più grandi, che affogano la loro miseria in alcornol di pessima qualità e vodka mischiata a metanolo.
Durante il giorno, questi spettri emergono dai loro avelli alla ricerca di un po’ di cibo nella spazzatura; oppure raccolgono qualche bottiglia in vetro e oggetti di plastica da destinare al riciclaggio. In una giornata di lavoro si può raccogliere al massimo 3 chili di plastica, che fruttano 600 tugruk (45 centesimi di euro), quanto basta per comprare un litro di latte.

AFFETTI NEGATI

Questi bambini di strada sono spesso creature tenere, malate nel cuore per mancanza d’amore, che si contentano di un’esistenza che richiede un grande sforzo per chiamarla vita. Sopravvivono con ciò che riescono a guadagnare e la scarsa elemosina che riescono a succhiare da una città che non li ama.
Benché miserevoli e affamati, odiati e scacciati, difficilmente essi si danno alla delinquenza, né formano bande di piccoli rapinatori, come capita in altre latitudini. Ladri o gruppi di rapinatori sono piuttosto formati da adulti.
Eppure spesso la polizia li arresta e li rinchiude in orfanotrofi, oppure, seguendo le ultime direttive del governo, li riporta a quei «simulacri» di famiglie dalle quali erano fuggiti e da cui fuggiranno di nuovo, passando da miseria a miseria.
Anche la gente li accusa di essere dei criminali, lazzaroni, sfaticati, di preferire la strada al lavoro, un bene raro anche per gli adulti.
Un giorno, mentre portavamo una minestra calda a un gruppo di questi bambini, un vicino ci domandò dove andavamo. Più con i gesti che con le parole spiegammo che andavamo al tombino. L’uomo scosse la testa e con un gesto eloquente, come se imbracciasse un fucile, ci fece capire cosa avrebbe fatto lui a quei poveri infelici.

UN’ALTRA MINESTRA

«Vi piacerebbe studiare?» domandiamo loro. «Magari!» rispondono quelle guance rosee e sporche. Ma come sarà il loro futuro? Troveranno un lavoro? Se saranno fortunati di trovarlo, come potranno avere una vita dignitosa, se il mensile di un insegnante, un operaio, un medico è inferiore a 100 euro e il costo della vita continua ad aumentare?
Sono domande che sfidano anche il nostro futuro. Cominciamo a capire che non basta dare un piatto di minestra oggi e domani; ma bisogna elevare l’ambiente nella sua totalità. Dovremo aiutare i mongoli a cucinare un’altra minestra, con una grande quantità di giustizia, forti dosi di amore e comprensione, un bel pizzico di frateità…
Sarà necessario sforzarci di capire non solo la lingua, ma anche il loro modo di vivere, di esprimersi, di concepire la vita. Ed è quello che cerchiamo di fare giorno per giorno: orecchie dritte a scuola, per percepire gli strani suoni della loro lingua, e cuore aperto per conoscere e amare questo popolo e la sua cultura.
Dovremo impegnarci a cambiare l’atteggiamento della popolazione verso i loro figli più sfortunati e vulnerabili. Qualcuno ha già cominciato a vedere di buon occhio le organizzazioni caritatevoli, in maggioranza cristiane, che si occupano con fatica di questi bambini e di altre vittime dell’emarginazione.
La chiesa cattolica, presente in Mongolia da appena 12 anni, ha cominciato subito a mettersi al fianco dei poveri, specialmente dei bambini di strada. All’inizio un gruppo di missionari e missionarie portavano del cibo ai tombini; poi hanno aperto centri di accoglienza.
Nel 1997, padre Gilbert Sales, dei missionari di Scheut, iniziò nella capitale il Verbiest Care Center, sostenuto dal Centro internazionale cattolici missionari e dalle Pontificie opere missionarie: oggi accoglie 120 bambini fino ai 15 anni. «Andiamo a stanare questi piccoli disperati nei loro squallidi rifugi – racconta padre Sales – e li portiamo in un ambiente pulito, sano, pieno di allegria. Restituiamo loro una prospettiva di vita».
Filippino, 39 anni, padre Gilbert Sales è il primo missionario arrivato in Mongolia, assieme all’attuale vescovo, mons. Padilla.
Un’altra iniziativa del genere è portata avanti dai salesiani, che in due piccoli centri accolgono una quarantina di bambini. Il primo serve per la conoscenza dei bambini e dura un paio di settimane; dopo di che saranno loro stessi a chiedere di passare all’altro centro e iniziare a studiare.
Le suore di Madre Teresa hanno un centro di accoglienza per bambine e ragazze madri. «Le ragazze sono più difficili da trattenere che i bambini; vogliono la libertà a tutti i costi» confessano le suore.
Oltre al recupero dei bambini di strada, la chiesa ha avviato altre opere sociali: asili, scuole, centri di insegnamento d’inglese, musica, danza, ecc., progetti a favore di handicappati e carcerati.
«La vita nella capitale mongola – dice mons. Padilla – è caratterizzata da alcornolismo, violenza e condizione familiare debole e incerta. Ogni settimana provvediamo a fornire cibo e vestiti ad almeno 200 adulti allo sbando. La proposta cristiana entusiasma soprattutto i più giovani, che vedono un’alternativa più decorosa alla realtà attuale».

QUALE MISSIONE?

La sorte di migliaia di piccoli mongoli senza il minimo futuro, con l’incubo della fame, malattie, un’aspettativa di vita bassissima, ci interpella. L’impegno in attività di promozione umana potrebbe essere una priorità della nostra presenza in Mongolia. La chiesa locale e i missionari arrivati prima di noi ci aiutano a cercare il modo più efficace di inserirci nella realtà del paese.
In Mongolia siamo 51 missionari, tra padri, suore e laici di differenti congregazioni, paesi e continenti. Anche lavorare e vivere in comunione con loro fanno parte della nostra missione.
Non sappiamo ancora in quale città lavoreremo, né quale sfida accoglieremo. Di una cosa siamo certi: sull’esempio di Cristo, vogliamo lavorare perché tutti «abbiano vita e l’abbiano in abbondanza».
Ma per il momento continuiamo a rosicchiare l’osso duro della lingua mongola. Al tempo stesso, con la saggezza dell’umiltà e la forza della carità, ci lasciamo illuminare da tutte le persone di buona volontà che incontriamo sul nostro cammino, senza giudicare ciò che ancora non riusciamo a capire fino in fondo.
Ci sono di guida anche le parole di Giovanni Paolo ii: «La chiesa considera con sincero rispetto quei modi di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini».
(Fine prima puntata – continua)

Juan Carlos Greco




LETTERAPremiato il vescovo Mongiano

Il 6 aprile 2004 Aldo Mongiano, vescovo emerito di Roraima (Brasile) e missionario della Consolata, fu premiato dal governo brasiliano con la medaglia del «merito indigenista». Il premio fu ritirato a Brasilia da mons. Franco Masserdotti, presidente del Consiglio indigenista missionario del Brasile (organo della Conferenza episcopale), che lo consegnò all’interessato a Torino l’8 maggio scorso (nella foto).
Oltre a vari missionari e missionarie della Consolata, era presente pure qualche esponente della Campagna internazionale «Nós existimos» (in favore degli indios, contadini poveri ed emarginati urbani di Roraima).

Il vescovo Mongiano, dopo aver ringraziato mons. Masserdotti, ha dichiarato: «Questa onorificenza viene consegnata a chi fu vescovo di Roraima; ma in realtà riguarda non tanto una persona, quanto tutti gli indios e i missionari di Roraima. I missionari non si aspettano onorificenze dai popoli che servono; essi lavorano mossi solo da carità evangelica. Tuttavia questa medaglia ci rallegra per due motivi.
L’onorificenza è concessa dalla Funai (Fondazione nazionale dell’indio), che per lunghi anni ha avversato la chiesa di Roraima. Però, grazie a Dio, da qualche tempo ne riconosce il valore, fino a premiare quelli che prima aveva osteggiato.
Il secondo motivo di gioia è legato ai popoli indigeni. Essi stanno vincendo non la battaglia per la difesa dei loro diritti sulla terra dove sono nati, ma hanno già acquisito una coscienza e forza morale, ispirate dalla fede cristiana, che costituiscono una delle vittorie più belle che si poteva sperare.
I missionari sapevano quanto, nella storia del Brasile, si diceva degli indios: questi, di fronte alle invasioni dei dominatori venuti da lontano, si sarebbero piegati o sopraffatti dalla forza o allettati (questo è umiliante) da futili regali materiali.
Invece gli indios, a partire dagli anni ’70, hanno capito il messaggio evangelico, la grandezza della loro vocazione umana e cristiana, il significato di libertà e dignità, nonché l’importanza di vivere i valori della loro cultura. Così hanno deciso di impegnarsi, con sforzo, sacrificio e rischio, per cambiare la loro situazione. L’hanno fatto senza violenza, offrendo a tutto il Brasile un esempio di coraggio e fermezza cristiana. Hanno saputo organizzarsi e mobilitarsi per difendere, pacificamente, i loro diritti sanciti dalla Costituzione brasiliana, ma mai rispettati.
Gli indios, soprattutto, meritano questa medaglia.
Una sola cosa mi rammarica: se i popoli indigeni sono cambiati positivamente, non sono cambiati, invece, alcuni settori ostianti della società di Roraima…».

Redazione




LETTERA La Sampdoria a Kipengere

Spettabile redazione,
a seguito dell’articolo di padre Francesco Beardi (Missioni Consolata, febbraio 2004) e del colloquio telefonico intercorso tra me e l’articolista, ho il piacere di inviarvi una copia di una pagina della rivista Sampdoria Club, uscita in questi giorni.
Resto con la speranza che il seme gettato possa far nascere qualcosa di bello… Complimenti sentiti per la vostra opera e la vostra rivista.

Il signor Vittorio allude ad alcune foto di Missioni Consolata, che ritraggono dei bimbi sieropositivi nella missione di Kipengere (Tanzania), vestiti con le maglie della Sampdoria. Una vicenda (in questo caso) «simpatica» del calcio.

Vittorio Benvenuti




LETTERAFiglia… sua !

Carissimi missionari,
ho 23 anni e studio Scienze dell’educazione. Da quando vi conosco, la mia vita e fede sono completamente cambiate e rinnovate. Sono coinvolta nelle vostre attività in Italia, come socia di «Impegnarsi serve Onlus», e all’estero (due anni fa sono stata un mese in Tanzania).
La vostra rivista Missioni Consolata è meglio di qualsiasi telegiornale, perché parla dei problemi dimenticati dal mondo in modo «sconcertante», ossia veritiero. Grazie. Continuate così.
Ora mi trovo incinta al quarto mese di gravidanza e, da poche settimane, sento la mia creatura muoversi dentro di me… Dopo tante difficoltà iniziali (non sono sposata e non lavoro), sto incominciando ad essere grata di questo dono che Dio mi ha fatto. Anche il mio ragazzo, che sta per laurearsi, la pensa così… I padri Giordano Rigamonti e Daniel Bertea mi sono stati molto vicini in questo periodo difficile: a loro va tutta la mia riconoscenza.
Prima avevo dei dubbi circa il modo di conciliare l’impegno missionario e l’avere dei figli; ora, anche se il mio servizio si è naturalmente ridotto, sento che questo non è solo possibile, ma necessario.
Mi sento «figlia della Consolata» e il mio bambino è anche lui un fiore della Consolata!
Cari missionari, ricordate nella preghiera anche il mio bambino.

«Amo i bambini, dice Dio. Voglio che rassomigliate loro. Non amo i vecchi, dice Dio, a meno che siano ancora dei bambini. Così non voglio che i bambini nel mio Regno… Bambini storpi, gobbi, rugosi, bambini dalla barba bianca, ogni specie di bimbi che credete, ma bambini, solo bambini» (Michel Quoist).

Lettera firmata




LETTERALa Passione secondo Gibson

Egregio direttore,
il mondo affoga nella violenza. Di fronte ad essa spesso taciamo. Ma quante critiche per La Passione di Cristo di Mel Gibson! Proprio, come dice Isaia 52,14 e 53, 2-3, «molti si stupirono di Lui, tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto… Non ha apparenza né bellezza… uomo dei dolori… disprezzato e reietto… davanti al quale ci si copre la faccia».
Io ringrazio Gibson, perché mi ha consentito di alzare lo sguardo su Colui che ho trafitto:
– su Gesù, che «non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Filippesi 2,6-8);
– su Cristo, che «patì per voi lasciandovi un esempio perché ne seguiate le orme… oltraggiato non rispondeva con oltraggi e soffrendo non minacciava vendetta… Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce perché, non vivendo più per i peccati, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti» (1 Pietro 2,21-25)…
Certamente anche lo spettatore non cristiano non potrà fare a meno di sentirsi fortemente interpellato da un uomo che, al culmine del proprio martirio, dall’alto della croce, dice: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Luca 23,34).
Per chi guarderà alle sofferenze di Cristo e al grande amore che queste rivelano, spero che si realizzi la profezia di Ezechiele 36,26-27: «Vi darò un cuore nuovo, metterò in voi uno Spirito nuovo; toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne».
Queste considerazioni sono condivise da familiari, amici e conoscenti che hanno visto il film. Invece mi stupisce che alcuni ecclesiastici e teologi abbiano tanto contestato la pellicola, non perfetta ma realistica, quando nella Via Crucis noi cattolici siamo invitati a ripetere: «Santa Madre, deh voi fate che le piaghe del Signore siano impresse nel mio cuore!».
Ultima annotazione: Maria è resa ne La Passione di Cristo in modo stupendo. Intensi e più eloquenti di ogni parola i suoi sguardi di Madre e corredentrice.

Alcuni ecclesiastici e teologi non hanno contestato la passione-amore di Gesù Cristo, bensì la violenta «spettacolarizzazione» della sofferenza.

Mara Montagnani Tiddia




LETTERAInternet in Africa

Cari missionari,
ho letto su una rivista missionaria che le linee telefoniche dell’intero continente africano sono pari a quelle della sola New York: l’Africa conta meno dell’1% nelle connessioni Inteet mondiali. Però… mio cugino, in Finlandia, può telefonare in Africa attraverso un collegamento satellitare via internet (attraverso il microfono del computer, con un programma e un gestore di linea satellitare).
In generale oggi esistono tecnologie che permettono, attraverso la linea satellitare, di comunicare superando enormi distanze. E poiché in Africa non esistono modee e funzionali linee di comunicazione che coprono il territorio di uno stato nazionale, si potrebbe con questi nuovi strumenti di comunicazione, oltre che fornire informazioni, dialogare e/o utilizzarli per le missioni o per chi vi lavora.
Non so se riesco a far capire ciò che voglio dire. In parole semplici: se in qualche parte del mondo sono privi di linee di comunicazione, si può sopperire attraverso il satellite.
Riguardo ai mezzi economici, io vi posso aiutare solo con la preghiera, affinché altri, più ricchi, vengano incontro ai vostri bisogni.
Infine, se vi chiedete «Noi che c’entriamo?», la risposta è: «Voi potete informare i missionari di queste nuove possibilità (se non lo sanno già) e chi è addetto, come voi, all’evangelizzazione può aiutare lo sviluppo dei continenti più poveri, non solo in modo spirituale, ma anche materiale».
Massimo Piermattei
(via e-mail

I missionari sono a conoscenza delle enormi possibilità di informazioni offerte da Inteet e dal sistema satellitare. Ma non molti possono ricorrere a questi mezzi.
Pensando ai paesi poveri, nel 2002 il Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali scriveva: «È necessaria giustizia, in particolare per eliminare il digital divide, il divario di informazione fra ricchi e poveri del mondo. Ciò richiede un impegno in favore del bene comune internazionale e la globalizzazione della solidarietà» (La Chiesa e Inteet, 12).

Massimo Piermattei




LETTERAMissioni corpo del reato

Spettabile redazione,
vi prego di provvedere alla cancellazione dei dati personali di mio figlio. Non inviateci più le vostre pubblicazioni missionarie.
Di recente si sono verificati dei vandalismi nella nostra cassetta della posta. Purtroppo è incustodita; giornali e lettere sono stati trovati un po’ dovunque, correndo il rischio di essere multati per imbrattamento del suolo pubblico.
Lettera firmata

In un’epoca in cui l’umanità avanza sempre di più nella scoperta di nuove risorse e nella coscienza del valore della persona, è vergognoso che… le cassette della posta siano saccheggiate e, poi, che si venga multati per imbrattamento del suolo pubblico. Quindi si elimina Missioni Consolata… corpo del reato.

lettera firmata