Nel 1986, il tecnico Mordechai Vanunu rivelò ad un giornale che Israele disponeva di un sofisticato sistema nucleare. Fu rapito dai servizi segreti
del Mossad a Roma ed incarcerato in Israele. Mordechai Vanunu è uscito lo scorso 21 aprile, dopo 18 anni di detenzione.
In questo articolo, ripercorriamo la sua storia da brividi. E ci poniamo qualche (ingenua) domanda: come mai Israele può detenere testate nucleari senza che nessuno (di importante) se ne preoccupi? Perché mai per Tel Aviv non si parla di ispezioni inteazionali come, ad esempio, per il vicino Iran?
La vicenda che vogliamo raccontare prende le mosse dalla liberazione dal carcere, dopo 18 anni di detenzione, di un tecnico nucleare israeliano, nato in Marocco da famiglia sefardita. La sua colpa era di aver rivelato informazioni segretissime sull’armamento atomico di Israele.
Dopo aver cercato inutilmente di entrare nello Shin Bet, il servizio di sicurezza interno israeliano, Mordechai Vanunu – questo il nome del protagonista – all’età di circa vent’anni venne assunto al centro di ricerche nucleari di Dimona, nel deserto del Negev in Israele. Questo impiego segnò il suo destino successivo.
Prima di ricordae le vicende, vale però la pena di esaminare con un minimo di dettaglio la storia dell’impianto, interessante ed esemplificativa di come le alleanze politiche e militari tra stati cambino radicalmente nel tempo e portino a risultati inattesi e talora imprevedibili.
L’ENERGIA NUCLEARE: MA PER QUALI SCOPI?
Dopo la seconda guerra mondiale la prospettiva di un uso diffuso e importante dell’energia nucleare ebbe sostenitori entusiasti ovunque, dato che in essa si vedeva la fonte energetica del futuro: potentissima, abbondante, economica. I benefici di questa fonte si auspicava fossero universali e a questa filosofia si ispirò il presidente americano Eisenhower quando, l’8 dicembre 1953, davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, propose il programma Atomi per la Pace, mirato a fornire assistenza tecnica ai paesi che desideravano impegnarsi nel campo dell’utilizzo pacifico dell’energia nucleare.
In Israele la Commissione per l’energia atomica era nata un anno prima e si caratterizzò subito per una stretta collaborazione con gli ambienti militari, in ciò seguendo le direttive di uno dei padri dello stato sionista: David Ben Gurion. L’anno dopo gli israeliani riuscirono a mettere a punto un processo efficace per estrarre l’uranio presente nel deserto del Negev, nonché un nuovo metodo per produrre acqua pesante. Con questi due materiali i progetti atomici del paese potevano procedere, innanzitutto costruendo un reattore nucleare.
Per la complessa progettazione e realizzazione dell’impianto, Israele ebbe bisogno di assistenza. La cercò (e la ricevette) in Francia, che a quel tempo era fortemente impegnata a cercare di sconfiggere il movimento indipendentista algerino.
In quel periodo, Parigi si contrapponeva al mondo arabo (in primis all’Egitto, contro cui, nel 1956, Francia, Gran Bretagna e Israele combatterono la cosiddetta guerra di Suez) e quindi era interessata a sostenere uno stato mediorientale «naturalmente antiarabo». All’interno della collaborazione che ne scaturì, Israele ricevette pure assistenza militare diretta, sotto forma di aerei e altri armamenti sofisticati. Il pilastro fondamentale su cui reggeva questa tacita alleanza era comunque rappresentato dalla rivolta algerina e quando la nazione maghrebina ottenne finalmente l’indipendenza nel 1962 iniziò un lento processo di normalizzazione tra Parigi ed i vari stati arabi, che man mano vide il parallelo raffreddamento dei rapporti con Tel Aviv.
La centrale di Dimona venne realizzata alla fine degli anni ’50, in gran segreto. Ma gli Stati Uniti si accorsero che qualcosa di insolito stava succedendo. Effettuando dei sorvoli con gli aerei spia U2 nacque in loro il sospetto che Israele avesse ambizioni nucleari militari, tanto che espressero la loro preoccupazione in merito. Alla fine la natura nucleare dell’impianto fu ammessa apertamente da Ben Gurion, ma solo nel 1960, quando lo descrisse come «struttura di ricerca a scopo pacifico». Negli anni successivi Israele ribadì più volte che non sarebbe stato il primo a introdurre armi nucleari nel Medio Oriente.
L’impianto venne visitato negli anni ’60 da ispettori americani, che però non riuscirono a farsi un’idea chiara di quel che in esso avveniva, anche perché, secondo alcune fonti, gli israeliani camuffarono abilmente le installazioni, realizzando delle false sale controlli e addirittura murando intere sezioni, specialmente quelle sotterranee. Gli ispettori si fecero peraltro l’idea che non esistessero motivazioni scientifiche o civili sufficienti per giustificare un reattore nucleare di tali dimensioni – e ciò aumentò i sospetti che Israele avesse intenzione di farsi segretamente la bomba atomica – ma nemmeno trovarono prove di attività chiaramente mirate alla produzione di ordigni nucleari.
Si giunse così al 1968, quando la Cia americana concluse che Israele aveva iniziato a realizzare bombe nucleari. Negli anni successivi vi fu molta incertezza; non sull’esistenza, ma solo sulle dimensioni dell’arsenale atomico israeliano.
Risulta sorprendente l’incapacità ed il disinteresse mostrato a questo riguardo dal mondo intero: sia gli stati occidentali, come anche e soprattutto le nazioni arabe e l’Urss se ne restarono quieti relativamente all’armamento atomico israeliano. Questo tema non assunse mai grande importanza, né venne mai discusso pubblicamente ed Israele non subì particolari pressioni perché accettasse ispezioni inteazionali e rinunciasse ai propri programmi di armamento nucleare. Anche i principali leaders arabi avallarono questa «politica dello struzzo», evitando di sollevare la questione a livello internazionale. Forse per paura di non poter più utilizzare a fini interni l’infiammante retorica che auspicava la totale distruzione dello stato sionista.
LE «TESTATE» DI ISRAELE
Quando entrò in gioco Mordechai Vanunu? Egli rimase a lavorare a Dimona per quasi un decennio, fino al 1985. Licenziatosi, andò dapprima in Australia, ove si convertì alla religione anglicana. Spostatosi in Gran Bretagna, nel 1986 svelò al giornale britannico Sunday Times l’esistenza del segretissimo programma di armamento nucleare del suo paese. Grazie alle informazioni foite da Vanunu e alle 60 fotografie che egli era riuscito a scattare di nascosto nell’impianto (materiale vagliato e convalidato da noti esperti, come il fisico Frank Baaby), la comunità internazionale scoprì che l’arsenale di Israele era di tutto rispetto: 100 se non forse addirittura 200 testate atomiche.
Ci si sarebbe attesi che la notizia scatenasse un putiferio. Improvvisamente si affacciava sulla scena mondiale una sesta potenza, comparabile con Francia, Gran Bretagna e Cina. Gli stati arabi avrebbero potuto usare questa novità per mettere in cattiva luce lo stato sionista, incolpandolo di aggravare le tensioni nell’area e di introdurre -contrariamente a tutte le dichiarazioni pubbliche precedenti – armi di distruzione di massa dalle conseguenze imprevedibili. Invece nulla accadde e presto tutto finì nel dimenticatornio.
Ma non per Mordechai Vanunu, che per aver divulgato queste notizie dovette pagare un prezzo altissimo.
L’EFFICIENZA DEL MOSSAD E L’ITALIA
Israele si attivò subito e Vanunu cadde nella trappola preparatagli. Una trappola antica, ma sempre valida. Gli venne fatta incontrare una donna – agente segreto di Tel Aviv – di cui egli si invaghì. Da lei fu indotto a venire in Italia e precisamente a Roma. Giunto nella nostra capitale, fu immediatamente rapito, drogato, messo su una nave che aspettava al largo della costa e condotto illegalmente in Israele, ove nel 1988 venne processato e condannato a 18 anni di carcere per tradimento e spionaggio.
L’operazione dei servizi israeliani era chiaramente illegale e infrangeva tutte le leggi italiane e inteazionali. Sta di fatto che il rapimento venne eseguito con tale professionalità che nessuno si accorse di nulla. Ancora una volta il Mossad aveva mostrato la sua leggendaria efficienza.
Il fattaccio venne alla luce solo più tardi, quando Vanunu, durante un trasferimento in auto tra il carcere e il tribunale ove veniva processato a porte chiuse, riuscì a far arrivare ai giornalisti un messaggio. Con grande inventiva Vanunu aveva scritto sul palmo della propria mano poche righe in cui denunciava di essere stato rapito a Roma e la mostrò ai fotografi che stazionavano fuori del tribunale. La notizia fece il giro del mondo, ma ancora una volta la questione non suscitò grandi reazioni nel nostro paese.
Solo la magistratura fece qualcosa: il pubblico ministero Domenico Sica aprì un’inchiesta, ma questa fu presto archiviata con la motivazione che non c’era nessuna prova. L’Italia usciva così dalla vicenda in maniera vergognosa e inetta.
Viene da chiedersi perché i servizi israeliani scelsero di non agire contro Vanunu in Gran Bretagna, attraendolo invece in Italia. Dovevano avere fiducia nella nostra incapacità di intralciare i loro piani e nella mancanza di una reazione degna di una nazione civile. In quella occasione, anziché da democrazia attenta a salvaguardare la propria dignità e i principi di legge, l’Italia si comportò come una impotente «repubblica delle banane».
PERCHÉ LO FECE?NON PER DENARO
Sui motivi che hanno spinto Vanunu a denunciare le attività nucleari militari del proprio paese si è discettato molto. Prima di questa decisione egli aveva certamente vissuto un periodo difficile dal punto di vista psicologico, culminato con la crisi religiosa che lo aveva portato ad abbandonare la fede ebraica per quella cristiana anglicana. In ogni caso il suo ripensamento sulla «bontà» del programma nucleare israeliano doveva risalire a ben prima, dato che si era adoperato a scattare numerose immagini dell’impianto di Dimona e a trafugarle all’esterno. Sicuramente era anche conscio dei rischi cui si esponeva nel rivelare i segreti atomici israeliani, ma questo non gli impedì di agire, accettando la possibilità – come poi avvenne – di venir arrestato e pagare duramente per il suo gesto.
Da quel che si sa appare certo che egli non abbia agito per denaro, ma per motivi etici e morali. Vanunu decise di far sapere al mondo intero che il suo paese si era dotato dei più terribili ordigni di morte, introducendo nel Medio Oriente un elemento fortemente destabilizzante, che avrebbe potuto accrescere i rischi di un disastro totale.
Alcuni, ad esempio lo scrittore israeliano A. Yehoshua, sostengono come l’arsenale atomico israeliano giochi in realtà un ruolo favorevole per le prospettive di pace nel Medio Oriente. Esso permetterebbe infatti alle colombe israeliane di avanzare con maggiore efficacia proposte di rinuncia ai territori occupati e ad altre concessioni, a fronte della garanzia foita dalla presenza delle bombe atomiche, che dovrebbe essere in grado di dissuadere ogni stato arabo da un eventuale attacco finale. Un esempio di questo efficace ruolo di deterrenza viene individuato anche nell’improvviso arresto della notevole avanzata militare di egiziani e soprattutto di siriani nei primi giorni della guerra del Kippur nel 1973; «una sconfitta troppo bruciante avrebbe potuto spingere Israele a far uso delle sue armi letali».
Supponendo, per ipotesi, che il possesso delle bombe atomiche favorisca davvero i moderati israeliani, non si può certo dire che questi abbiano avuto grande successo politico negli ultimi anni!
NELLE CARCERI ISRAELIANE
Il trattamento carcerario in cui è stato tenuto Vanunu è stato spietato. Ha trascorso oltre 11 anni in isolamento completo, senza che gli fosse consentito alcun contatto umano, se non sporadici colloqui con i familiari, il suo avvocato e un prete. Durante questi incontri egli era peraltro sempre separato dai suoi interlocutori da una grata metallica. Fino a tempi recenti non gli venne nemmeno concessa l’ora d’aria, come a tutti gli altri detenuti.
I numerosi appelli inteazionali per la sua liberazione, o almeno per un ammorbidimento delle condizioni di detenzione, vennero sempre rifiutati dalle autorità israeliane. Per loro Vanunu aveva tradito la patria e come tale andava trattato in modo severissimo.
Nonostante questo trattamento disumano, Vanunu non è impazzito e a fine aprile di quest’anno, scontata la sua lunghissima pena, è stato rimesso in libertà.
«LIBERO» E SENZA DIRITTI
L’odissea di Mordechai Vanunu non è purtroppo terminata. Come denuncia Amnesty Inteational, lo stato di Israele continua a violare i diritti fondamentali di Vanunu, anche ora che è uscito di prigione. Gli vengono imposte restrizioni assolutamente arbitrarie; ad esempio non gli viene rilasciato il passaporto e, per la durata di un anno, non potrà nemmeno lasciare il paese (come invece egli desidererebbe).
Inoltre, gli è proibito entrare in contatto con cittadini stranieri, se non con uno specifico permesso; non può visitare nessuna ambasciata di stati esteri (in un primo tempo gli era stato imposto di non avvicinarvisi nemmeno); non può rilasciare interviste.
Questa sembra una vera persecuzione, anche perché Vanunu afferma di non essere in possesso di nessun ulteriore segreto atomico. Ciò nonostante non gli è permesso discutere con nessuno (nemmeno per telefono o per posta elettronica) di argomenti nucleari, e gli è anche vietato ripetere le affermazioni già pubblicate nel 1988 dal Sunday Times.
Tutto questo va contro quanto previsto dall’articolo 12 dell’accordo internazionale sui diritti politici e civili. Questo accordo (ratificato anche da Israele, che quindi sarebbe tenuto a non violarlo) recita che «chiunque si trovi legalmente all’interno di uno stato, avrà – all’interno di quella nazione – diritto alla libertà di movimento e la libertà di scegliersi la propria residenza» e «ognuno sarà libero di lasciare qualunque paese, incluso il proprio». Inoltre i diritti alla libertà di espressione e di associazione sono garantiti dagli articoli 19 e 21 dello stesso accordo.
Secondo Amnesty Inteational, «Vanunu non deve essere sottoposto a restrizioni arbitrarie e a violazioni dei suoi diritti fondamentali, sulla base di pretesti o di sospetti nei riguardi di ciò che egli potrebbe fare nel futuro».
ISRAELE: «STATO CANAGLIA»?
La questione Vanunu non è importante solo per l’aspetto umano, ma ha una valenza ben più ampia.
Si è fatta la guerra contro l’Iraq motivandola con la supposta presenza di armi di distruzione di massa, mai rinvenute. Libia, Iran e Corea del Nord erano state inserite tra gli «stati canaglia» perché sospettate (peraltro a ragione) di voler sviluppare armamenti nucleari.
Di Israele e delle sue centinaia di bombe nucleari non si dice invece nulla, incuranti del fatto che questo arsenale, mai dichiarato ufficialmente, sia all’origine delle ambizioni atomiche di molti governi della regione mediorientale.
Stupefacente appare l’uso di due pesi e di due misure e l’incapacità della stampa e dei media liberi inteazionali di evidenziare i problemi posti dall’arsenale israeliano. Nel caso della stampa nazionale e dei maîtres à penser nostrani, suscita inoltre tristi riflessioni l’assoluta mancanza di autocritica nei confronti di come il rapimento di Vanunu sul suolo nazionale sia stato gestito.
Ulteriore punto importante riguarda la mancanza di clausole di protezione, sia nella legge italiana che in quella internazionale, per chi decida di divulgare informazioni che sono sì segreti di stato, ma che è invece utile siano noti alla collettività internazionale, in primo luogo nel settore della realizzazione di bombe atomiche. Chi lo fa è in tal modo abbandonato alla vendetta dei governi, che spesso hanno molto da nascondere. Questi misconosciuti benefattori dell’umanità non godono nemmeno del trattamento riservato ai prigionieri politici. Pensiamo a quel che succederebbe se uno di questi coraggiosi personaggi si presentasse un giorno alle nostre frontiere, chiedendo asilo politico dopo aver divulgato ai media notizie riservate sul conto del proprio paese. Sarebbe rispedito in patria e abbandonato alla vendetta delle autorità, come è stato per Vanunu?
Si impone, a livello internazionale, un’iniziativa di protezione di queste persone e sarebbe auspicabile che l’Italia e l’Europa si facessero parti attive a questo riguardo.
L’INSEGNAMENTO DI MORDECHAI
Vogliamo chiudere con le parole di speranza espresse da Mordechai Vanunu poco prima del suo rilascio dal carcere: «Siamo riusciti a superare questo lungo periodo di silenzio. Grazie a tutti gli attivisti e ai sostenitori che hanno lavorato in molte nazioni. Siete stati la mia voce, la mia coscienza. (…) Sarò lieto di incontrarvi e di condividere con voi le mie esperienze, le mie opinioni e di lavorare (…) per l’abolizione delle bombe nucleari in tutto il mondo (seguono varie parole censurate). Quella è la nostra missione e il nostro obiettivo futuro. Ci fermeremo solo nel momento in cui si avrà un nuovo accordo internazionale che metta al bando e abolisca tutti i tipi di bombe nucleari. (…) Crediamo che ciò sia possibile e che potremo vedere questo momento nel corso della nostra vita, proprio come è successo con la fine della guerra fredda. Il nostro messaggio è: “la fine delle bombe nucleari è possibile!”».
Mirco Elena