APPELLO KENYAViva Nairobi viva
Il 55% della popolazione di Nairobi (Kenya) vive in 168 baraccopoli, dove i servizi sono inesistenti. Il governo del Kenya ha deciso
la demolizione di 42 mila strutture (baracche, scuole, chiese, centri comunitari, cliniche, mercatini, ecc.), lasciando senza casa né speranza oltre 354 persone. Le demolizioni
sono già cominciate, senza preavviso né offerta
di alcuna alternativa o compensazione.
Il «Coordinamento delle parrocchie negli insediamenti informali» (slums) di Nairobi ha lanciato un appello per fermare le demolizioni
e avviare un tavolo di trattative serio, finalizzato a trovare soluzioni accettabili: limitazione dei trasferimenti, rilocazione concordata, indennizzi per gli sgomberati.
Varie associazioni e personalità inteazionali hanno aderito all’appello e lanciato la campagna «Viva Nairobi Viva», tra cui i volontari di AfrikaSì, impegnati negli slums della parrocchia della Consolata di Westlands, Nairobi
(vedi dossier in M.C. marzo 2004).
La notizia della demolizione sistematica degli slum a Nairobi ha colto noi operatori volontari in quel territorio di sorpresa, lasciandoci basiti.
Chi conosce gli slum sa perfettamente quali siano le condizioni di degrado estremo di quella realtà che si svolge al di fuori di ogni canone di vita compatibile con gli esseri umani. Ma cacciarli di lì senza alcuna azione concreta di ristrutturazione migliorativa o no, significa togliere loro l’unica risorsa di cui dispongono: la speranza.
È per dar loro la speranza di una vita accettabile e civile che noi di AfrikaSì andiamo laggiù a operare, immergendoci nella loro miseria materiale e spirituale e nella loro vita. Noi, un pugno di volontari, andiamo a portare il poco che possiamo materialmente, il tanto che abbiamo nel nostro cuore, commossi e profondamente turbati dal loro dolore, nascosto spesso dietro un sorriso e la rassegnazione.
Cacciarli di lì, da quei tuguri che rappresentano l’unico «bene» e certezza, non è propriamente un atto di civiltà, come si vorrebbe far credere, ma un ulteriore crudeltà della civiltà delle ruspe e della tecnologia.
Possiamo comprendere, noi occidentali, come spianare il loro fango misto a sterco, allontanando il loro fetore, possa essere liberatorio per noi, per le nostre case e la nostra «pulizia»; diversa forse la loro ottica. Buttar via quelle quattro assi e quegli stracci, unici loro beni, significa compiere l’ultimo gesto di negazione e di rifiuto, dopo aver loro rubato le terre, le case rurali, la realtà contadina decorosa e civile in chiave con le loro radici e tradizioni a favore del latifondo, con l’inganno supremo di un lavoro in città, con il miraggio di un benessere migliorativo.
Questo il primo passo della nuova Repubblica kenyana, il primo intervento nei confronti dei diseredati della terra.
«Son sempre i cenci che vanno all’aria» diceva Manzoni. Le ruspe contro le forchette come sempre, come adesso «esportare la democrazia» è il nuovo look politico di questa epoca che, nella sua grande violenza e ipocrisia, aggredisce i deboli, togliendo loro il molto o il nulla che posseggono, peraltro ammantando la prevaricazione, il sopruso, l’offesa sotto la veste etica della democrazia, foriera per definizione di libertà, benessere, bene assoluto.
Bene per chi? Non certo per coloro che non hanno voce, mezzi, armi per difendersi. Perché non fare altrettanto e quindi esportare le nostre ideologie sacre in quei paesi e territori ove la democrazia è carente, ma dove si incontrerebbe una reazione, una risposta altrettanto forte a difesa delle proprie radici, della propria terra, magari una risposta con armi tecnologiche altrettanto distruttive e offensive delle nostre? Semplice, questa è la legge dei prepotenti e dei vigliacchi di questo sporco mondo che, adducendo lo spettro del terrorismo, nascondono agli stolti e ai ciechi che esso nasce proprio dalla violenza, aggressività e ingiustizia e come il perpetuarsi di queste dinamiche sia la causa prima che alimenta la reazione dei poveri con le loro armi: pietre, sangue, pianti e disperata estrema reazione: il suicidio.
Con queste nostre semplici ma oggettive valutazioni, intrise di amarezza e di dolore, unite allo sconforto e all’impotenza intendiamo denunciare con grido lacerante la nostra più vibrata protesta insieme a quella di tutti coloro che vivono e soffrono con noi l’ingiustizia, la prevaricazione, la stupidità. Grido associato in modo irrevocabile alla nostra volontà di andare avanti e di combattere per questi sacri, eterni ideali.
Ennio Di Giulio