Pannelli solari

Caro direttore,
ho una domanda che mi frulla nel capo da molto e, in questo tempo pasquale, secondo me, profuma di risurrezione. Alludo alla risurrezione dell’Africa.
Perché in questo meraviglioso continente, cui Dio ha regalato tanto sole (troppo a volte), non si sente parlare di pannelli solari? Questi non potrebbero migliorare le condizioni di vita degli abitanti, esportando anche l’energia prodotta? Sono un’illusa o un’ingenua?
Grazie della meravigliosa rivista, che ogni mese arricchisce me e tutte le persone a cui la porgo, fotocopiando articoli che mi sembrano più interessanti e utili al dialogo. In questi giorni faccio girare «Se la bistecca è politicamente corretta» (Missioni Consolata, aprile 2004).
Auguri, con l’incoraggiamento a parlare di energia solare anche per l’Italia, «il paese del sole».
Isa Monaca
Asti

L’estate scorsa eravamo in Tanzania. E che piacere la doccia calda (grazie ai pannelli solari) al termine di un lungo e polveroso lavoro!
L’uso in Africa di pannelli solari dovrebbe essere certamente maggiore. Però si dice che il costo iniziale dell’impianto sia elevato.

Isa Monaca




Perché “così”?

Egregio direttore,
la lettera di Aaldo Simonetta «Perché siamo così?» (Missioni Consolata, aprile 2004) pone un problema bruciante. Tutti avvertiamo l’umiliazione per la esecuzione naturale (e vitale) di certi atti fisiologici cui siamo sottoposti.
La risposta da lei data non appare comprensibile; avrebbe meritato una più ampia delucidazione quel «cogitor ergo sum», in considerazione, anche, della variegata area di lettori che la rivista vanta.
Non mi sottraggo ad una spiegazione: non si può pensare che Dio ci abbia sottoposti ad atti così umilianti (tali sono se ci circondiamo di estrema riservatezza nell’eseguirli), perché l’uomo avverta i suoi limiti ed eviti i suoi insulsi conati di superbia verso gli uomini, verso il creato e lo stesso Creatore? È un pensiero!
dr. Luigi De Tommasi
Brindisi

Grazie del «pensiero».
Sì, la nostra risposta non appare molto comprensibile. Del resto, di fronte ai «perché» (come quelli del signor Simonetta), che sconfinano nel mistero, conviene maggiormente il silenzio della fides quaerens intellectum (la fede che anima l’intelligenza).>/b>

Luigi De Tommasi




La foglia di fico

Cari missionari,
esprimo disappunto di fronte a quel lettore che ritiene il vostro calendario «scandaloso». Ma dove? O stiamo scherzando?
Dopo ciò che è successo in Spagna e dopo le stragi giornaliere in Africa, che non fanno neanche notizia per colpa dei nostri giornali, i quali classificano le disgrazie altrui di serie A o serie B… Questo sì che è scandaloso!
Il «nudo» è creazione di Dio, mentre «la foglia di fico» l’ha fatta l’uomo… Non facciamo i finti moralisti! Grazie a Dio, non siamo a Kabul! Non facciamo come MTV, la tivù musicale che parla di sesso tutte le sere e poi fa la moralista censurando un video-clip di Paola e Chiara, che appaiono in modo sfocato con le gambe scoperte. I più giovani, che seguono MTV, hanno capito…
Nel vostro calendario non c’è nulla di strano. Ma tutto può fossilizzarsi su certe ideologie. Questo è pericoloso. Se i mali del mondo sono le donne svestite nei paesi occidentali e, nel mondo musulmano, le donne kamikaze schiave col burka… Il vero demonio è il soldo, che viene a loro offerto. È scandaloso il fine, non il nudo.
È pure scandaloso che, ogni anno, milioni di quintali di riso siano buttati per festeggiare gli sposi. Questo nessuno lo dice. Intanto «Caaroli» e «Riso Scotti» vendono. E del morto di fame chi se ne frega! Per non parlare dell’immigrato, che serve solo per il bacino dei voti…
Meditiamo gente, meditiamo!
Graziano Pini
Reggio Emilia

Oggi, ad onor del vero, per festeggiare gli sposi, qualcuno «medita» di lanciare fiori di carta, riciclabili, invece di riso.

Graziano Pini




Per non essere pazzi

Cari missionari,
leggo da anni Missioni Consolata, che per me è la stella cometa dell’editoria. Quello che vi distingue è che non siete di parte: non vi lasciate abbindolare dai potentati, ovvero da quelli che decidono per gli altri e credono sempre di avere ragione.
Pensiamo alla Spagna, al suo «11 febbraio». Ancora orrore e morti innocenti per colpa di terroristi, i quali hanno trovato terreno fertile per le loro efferratezze nelle politiche inteazionali di parte. Bisogna eliminare i pretesti che permettono ai terroristi di compiere stragi assurde… Perché a baschi o ceceni non si riconosce finalmente l’indipendenza? Cosa costa, se serve per la pace in Spagna e Russia?
Mi chiedo quanto tempo ci vorrà ancora per creare lo stato della Palestina (di conseguenza si garantirà la sicurezza in Israele). Mi chiedo pure che cosa può pesare sugli arabi, sul piano politico internazionale, senza che contino solo per il loro petrolio. Infine mi domando: perché non si cerca di andare contro corrente, offrendo noi (popoli del 2000) a tutti la mano della ragionevolezza.
Alessandro
Modena
P. S. Scandaloso il vostro calendario del 2004, perché c’è una danza cinese o un indio yanomami seminudo? Per carità! Oggi il vero scandalo è il continuare a ragionare con… due pesi e due misure.

L’invito alla ragionevolezza è di cogente attualità, specialmente di fronte al terrorismo e alla guerra: guerra che l’enciclica Pacem in terris definisce «alienum a ratione» (43). L’espressione fu tradotta dal vescovo Tonino Bello con «roba da matti».
Circa il nostro scandaloso calendario, ecco altre considerazioni.

Alessandro




RICHIESTA RETTIFICA

Con riferimento all’articolo a firma del Sig. Maurizio Pagliassotti pubblicato nella rivista “Missioni Consolata” del marzo 2004, a pag. 62, e titolato “Comandi, Don Mariano” avente ad oggetto un’intervista da me rilasciata al suddetto giornalista, rilevo che mi sono state attribuite frasi mai pronunciate, altre contrarie a verità e pregiudizievoli.
Per quanto attiene il Sig. Gino Strada ho chiaramente detto che “non lo sopportavo” a seguito dell’affermazione di quest’ultimo “I militari italiani in Iraq sono degli assassini” effettuata nel corso di una trasmissione televisiva (Maurizio Costanzo Show). Non ho quindi mai detto che il Sig. Strada fosse un assassino. Quanto alla parte inerente i pacifisti ho sostenuto che le Ong spesso chiedono scorte armate per svolgere gli interventi umanitari andando così in contraddizione quando esprimono concetti esasperati di pacifismo. Nella parte relativa al Santo Natale non ho mai detto che sarebbero stati benedetti i fucili o le armi dei soldati. Auspico la pubblicazione della versione integrale dell’intervista.

Padre Mariano Asunis, cappellano della Brigata Sassari, già cappellano in AN Nassyria (Iraq), richiede anche la pubblicazione integrale dell’intervista rilasciata a Maurizio Pagliassotti. Non possiamo aderire alla richiesta perché non esiste altro testo se non quello da noi pubblicato su MC di marzo 2004 (pagina 62). Esistono soltanto appunti scritti a mano dal nostro intervistatore, in base ad accordi intervenuti con lo stesso padre Asunis, che confermano il contenuto dell’intervista.

Don Mariano Angius




Gino Strada e don Mariano

Spettabile rivista,
poche righe per i cappellani militari, dopo aver letto «Quelle pesantissime stellette» (Missioni Consolata, marzo 2004).
«Se mi soffermassi nel ricordarvi che il vostro stipendio (voto di povertà!) grida vendetta al cospetto di Dio», al cospetto dei poveri, dei diseredati, farei un discorso semplicistico.
Perciò continuo con una frase non mia, rivolgendomi a lei, don Mariano, ai cappellani militari, a tutti quelli che amano le armi e le guerre: «Io credo di avere il diritto di dire che non vi rispetto, non vi rispetto come cristiani, non vi rispetto come uomini»; anzi, ritengo che il vostro agire sia un insulto alle parole del papa, al pensiero della chiesa, alle affermazioni di Cristo.
Chissà se qualcuno di coloro, che stanno all’apice della piramide di quella tanto criticata e biasimata gerarchia ecclesiale, ha il coraggio di schiarirvi le idee: «O preti senza stellette o stellette senza essere preti». Il vostro esaltato fanatismo porta all’allontanamento di tante persone di buona volontà da quella chiesa che voi, volgarmente, dite di rappresentare.
Mi sento cittadino del mondo. I miti della patria e dell’eroe, li ho abbandonati ormai da tempo. Mi auguro che un giorno non lontano siano abbandonati anche da voi.
Giuliano
via e-mail

Egregio direttore,
ho letto «Quelle pesantissime stellette» sui fatti di Nassiriya. Mi sono soffermato sul box «Comandi, don Mariano» e sono rabbrividito. Non condivido le parole di don Mariano, dettate più dall’odio (motivato dal posto in cui si trova) che dalla misericordia divina.
Anch’io sono un pacifista, senza però frequentare cortei. Mi sono limitato ad esporre la bandiera, a dire che la guerra porta solo odio e sangue. Continuo ad affermare che la guerra in Iraq è stata inutile, non per abbattere un brutale dittatore, ma per il modo in cui è stata fatta: tonnellate di piombo su bambini e civili, alla ricerca di armi di distruzioni di massa inesistenti. Per catturare Saddam, bastava corrompere qualcuno e andarlo a prendere in taxi.
Ora ne paghiamo le conseguenze, col terrore di frequentare posti affollati, bersagli di terroristi. Se in Iraq non c’era il petrolio, ma verze, la guerra non ci sarebbe stata.
Da oggi anch’io faccio nausea a don Mariano, e così la commozione suscitatami dai reduci morti di Nassiriya viene ripensata.
Dire poi che Gino Strada sia un assassino è il colmo per un sacerdote. Al di là delle ideologie e simpatie politiche, chi si adopera per salvare le vittime della guerra è da ammirare e ringraziare. Un assassino non salva una vita, ma la toglie. Non mi sembra il caso di Gino Strada, pur con le critiche che gli si possono fare.
Capisco il momento emotivo di don Mariano, ma, proprio perché ministro di Dio, dovrebbe usare più misericordia anche nel linguaggio. Gli ricordo che a tradire Gesù non è stato un medico, ma un apostolo (sacerdote oggi). Pertanto riflettiamo…
Fortunatamente sono un cattolico credente; diversamente, verrebbe voglia, dopo aver letto quel trafiletto, di rispedire al mittente la rivista, ma cadrei nello stesso errore. Non bisogna mai dimenticare il bene che tante persone fanno: e sono la maggioranza!
Grato per l’ospitalità.
Giulio Oggioni
via e-mail

Giuliano, Giulio Oggioni




EDITORIALEMissionari con la “M” maiuscola

Missione, dal latino «mittere» (mandare): una parola sulla bocca di tutti. Curiosamente ognuno ne parla, vantandone una sorta di diritto di proprietà. A cominciare dal mondo ecclesiale, troppi aspetti della vita pastorale sono etichettati come «missione»; a forza di sentire che «la chiesa è missionaria per natura» e che «si è missionari in forza del battesimo», tanti cristiani si credono tali senza sentire affatto l’urgenza dell’evangelizzazione.
Ma al di là del significato teologico, si tratta di un vocabolo inflazionato, utilizzato a proposito o a sproposito da politici, intellettuali, operatori umanitari e militari. Quante volte si parla di «soldati… in missione»
Senza voler indugiare in sterili polemiche, sarebbe importante cogliere la linea di demarcazione tra la missione di chi ha fatto una scelta a carattere religioso e altri tipi di missione. Poco importa che si tratti di gesuiti, salesiani, saveriani, comboniani o della Consolata, tutti coloro che appartengono a queste realtà congregazionali non ricevono mercede alcuna; la loro è una scelta di vita totalizzante e non vanno in giro armati.
Vivono, alcuni addirittura da decenni, nelle periferie del «villaggio globale» in Africa, in America Latina, in Asia o Oceania, prodigandosi per i poveri, senza peraltro che la madrepatria – l’Italia nella fattispecie – sembri accorgersene. Rischiano spesso la vita, vengono sequestrati o addirittura uccisi nel quasi totale disinteresse della grande stampa.
Nel gennaio del 1999, ad esempio, furono rapiti dai ribelli alla periferia di Freetown (Sierra Leone) ben 13 missionari, tra cui sei Missionarie della Carità, la congregazione fondata da Madre Teresa di Calcutta, delle quali quattro persero tragicamente la vita.

Se da una parte è opportuno riconoscere le competenze e, dunque, il valore delle varie professionalità sul campo, al di là del fatto che uno sia in divisa, impegnato in un’operazione di pace o cornoperante a servizio di un’organizzazione non governativa, dall’altra non è lecito fare di tutte le erbe un fascio.
Vi sono diversi modi di interpretare la solidarietà a partire proprio dai valori ispiratori che possono prescindere o meno dalle indennità, dai contributi o da qualsiasi altra forma di agevolazione. Lo scorso anno, il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi disse pubblicamente che i missionari fanno onore all’Italia per la loro dedizione incondizionata in terre lontane.
Siamo certi che le sue siano state parole sincere, ma che vorremmo fossero anche accompagnate da una maggiore attenzione da parte dello stato. Basti pensare che quando i religiosi e i laici missionari sono all’estero è impedito loro di percepire la pensione sociale e ricevere ogni forma di assistenza mutualistica.
Ma forse proprio per questo è giusto dire che sono missionari con la «M» maiuscola.

Giulio Albanese
Direttore di MISNA

Giulio Albanese




VENEZUELA 2004 Tra Bolivar e Chávez (seconda puntata)

Venezuela 2004 (seconda puntata)


CHÁVEZ TI AMO, CHÁVEZ TI ODIO

In Venezuela la maggioranza della popolazione nasce da una combinazione di elementi indigeni, europei e africani. Ma un
dato di fatto è sotto gli occhi di tutti: il presidente Hugo Chávez è un meticcio, mentre i principali leaders dell’opposizione sono
bianchi. Esiste una componente etnica nella crisi del paese caraibico?
Ne abbiamo parlato con padre Agostinho Barbosa, superiore dei missionari della Consolata in Venezuela. Che tra l’altro
ammette: negare che le attuali divisioni politiche siano arrivate anche all’interno della chiesa e dei fedeli è negare
l’evidenza.


Caracas. «Il fatto è successo nove anni fa. Uccisero un ragazzo per rubargli un paio di scarpe, un evento allora piuttosto comune, soprattutto se si trattava di scarpe sportive. Anche i furti seguono le mode: ora, per esempio, va per la maggiore il furto di cellulari. C’è stato il momento delle pistole
dei poliziotti: venivano uccisi per rubare l’arma. Ebbene, durante i funerali del ragazzo mi avvicinai alla sorella che calzava un paio di scarpe sportive… uguali a quelle per cui il fratello era stato assassinato.
Le chiesi se non avesse paura di essere uccisa anche lei. La sua risposta fu che dobbiamo pur morire e, allora, perché avere paura?».
Portoghese, 38 anni, padre Agostinho Barbosa parla sottovoce, quasi avesse timore di offendere un paese a cui si sente profondamente
legato. Superiore dei missionari della Consolata nel paese caraibico, padre Agostinho ha pochi capelli, ma un aspetto giovanile.
«Ho ricordato – dice, trattenendosi
dal fumare un’altra sigaretta –
l’episodio delle scarpe non per giudicare
questo paese. Anzi, sono qui
già da 10 anni e mi dispiacerebbe
molto andare via».
I missionari vivono in una piccola
casa di un solo piano in una zona
chiamata El Paraíso. Il nome benaugurante
non è però sufficiente
per tenere lontani i problemi, che
sono molti, a cominciare dalla povertà
e dalla insicurezza.
A Caracas si concentrano 4 dei 24
milioni di venezuelani, molti attratti
e ingannati dai falsi miti della metropoli.
«Come spesso accade –
spiega padre Agostinho -, il paese
vero non si vede nella sua capitale.
Qui è tutto un correre: per il lavoro,
la casa, la sopravvivenza. Ora
poi tutto è più complicato a causa
dell’esplosione della crisi e della
violenza».

Attoo a El Paraíso ci sono vari
barrios: Las Vegas, Cota 905, Las
brisas del Paraíso, Las artigas, Antimano,
Carapita.

«Noi lavoriamo a Carapita – spiega
il missionario -. È un luogo difficile
e un sacerdote può cadere nella
tentazione di scoraggiarsi. Se tu
non esci, se non stai per strada, se
non cerchi il contatto, non c’è una
risposta della gente. Mi rallegra
molto la decisione che abbiamo
preso fin dall’inizio: andare dove c’è
più bisogno, dove anche i sacerdoti
diocesani non vogliono andare.
Lo stesso arcivescovo, quando gli
dicemmo che volevamo andare a
Carapita, si meravigliò, perché era
la parrocchia più difficile».

L’ALTRO VENEZUELA

La maggioranza dei venezuelani
sono meticci (o creoli, secondo una
terminologia più accademica). I
bianchi sono circa il 21% e vivono
a Caracas e nelle principali città. Gli
afrovenezuelani sono più o meno il
10% e abitano soprattutto a Barlovento
(stato di Miranda), a sud del
lago di Maracaibo (Zulia) e a Cumaná
(Sucre), tutte zone dove c’erano
(e ci sono) le piantagioni di
caffè e cacao. Gli amerindi (ovvero
i popoli indigeni) sono ormai ridotti
al 2% della popolazione totale; vivono
nella regione del bacino dell’Orinoco,
nella boscaglia della
Guayana e all’interno della giungla
amazzonica.

Dunque, fuori Caracas e in generale
fuori delle città, esiste un altro
Venezuela.
Fino al 1998 i missionari della
Consolata hanno operato tra gli indios
guajiros (1) nello stato di Zulia.
Padre Barbosa ha invece lavorato
per 8 anni nelle missioni di Barlovento,
tra i venezuelani discendenti
degli schiavi africani. Li chiama
negritos, non temendo di essere accusato
di patealismo.

«No, non è patealismo – spiega
tranquillo -. È affetto. Loro sono la
“mia” gente. Il venezuelano nero è
molto aperto, molto più del guajiro,
per esempio».
A Barlovento i missionari della
Consolata seguono 3 parrocchie
con 33 frazioni (caseríos). «Le distanze
sono notevoli – spiega
padre Agostinho -. E poi i
problemi organizzativi sono
complicati dal fatto
che le persone non si
preoccupano molto degli
orari (peraltro, ammetto
di non trovare
sgradevole questo aspetto
del carattere).
Loro dicono sempre:
“Vengo, vengo
un po’ più tardi”.
Sono stato in
Inghilterra e là
non era certo così. Qui devo fissare
un incontro alle 8 per poter cominciare
alle 9. Forse. Però, se uno si abitua,
non ci sono difficoltà».
«Ho trovato persone che vivono
alla giornata, nel senso che il domani
non ha molta importanza. O, meglio,
importa, ma non nel modo europeo
per cui bisogna risparmiare,
essere pronti per ogni futura evenienza.
Se c’è denaro va bene, se
non c’è non importa».
«Forse – continua padre Agostinho
-, è l’ambiente stesso, la natura
del tropico, che si riflette nei
comportamenti della gente. In Europa
devi avere una casa ben chiusa,
pronta per l’inverno; qui non è
necessario, dato che la temperatura
è sempre piacevole. Là
occorre seminare
nel giusto periodo
per
avere il raccolto nel mese adeguato;
qui non serve, perché il raccolto si
può fare varie volte all’anno».
«Non è vero che i negritos siano
dei fannulloni, come dicono molte
persone. Il fatto è che, a causa del
caldo, si lavora solo nelle prime ore
del mattino, per esempio nelle piantagioni
di cacao. Poi, verso le 10 del
mattino, li si vede già per strada, all’angolo
della chiesa o sotto un albero
di mango. Tutto ciò è comprensibile:
nessuno può lavorare
con 35-36 gradi e un tasso elevatissimo
di umidità. Magari, verso le 5-
6 del pomeriggio, quelle stesse persone
toeranno nei campi, ma la
maggior parte del giorno la passano
per strada».
Oggi la gente afro vive come
gli altri venezuelani
(anche se in condizioni
di più accentuata povertà), ma conserva le
proprie radici culturali. «Conosco –
racconta padre Agostinho – un afro
che è diventato avvocato e vive in
città. Ma, quando rientra a Barlovento,
si dimentica di tutto e torna
ad essere soltanto un nero con la sua
musica, i tamburi, i balli, l’acquavite».
Anche la loro cultura religiosa è
particolare, legata non tanto alle
tradizioni degli avi africani, quanto
piuttosto a quelle dei colonizzatori
spagnoli. «Guardano ai santi, alle
processioni – spiega il missionario –
. Per sentire che sono chiesa, che sono
cristiani, gli afro devono vedere
e toccare: toccare la statua del santo
o il padre».

PER SCHIARIRE LA PELLE

Incontriamo il dottor Manuel
Barroso, noto psicanalista, autore di
numerosi saggi. Ci spiega che in Venezuela
la «cultura dell’abbandono», importata dai colonizzatori,
continua a produrre moltissimi
danni nella struttura della società.
Nel paese ci sarebbe un 60% di figli
abbandonati o senza un genitore
(di norma il padre).

«Quella della famiglia è una questione
molto seria – ci conferma padre
Agostinho -, ma non mi limiterei
a spiegarla con il machismo. È
vero che il problema nasce per l’irresponsabilità
dell’uomo, ma anche
per colpa della donna a
cui della famiglia non importa
molto: quello che le interessa è
avere figli. Poi, se l’uomo non se
ne occupa, lo fa lei, cioè non lo
obbliga ad interessarsi di loro.
Quindi, è un fatto normale che i
fratelli abbiano padri differenti».
Per fortuna, c’è nella donna la capacità
di accettare i figli che il marito
ha avuto da un’altra. C’è anche la
disponibilità a crescerli come
se fossero suoi e a mantenere
buoni rapporti
con la madre naturale.
«Ho incontrato – racconta
il missionario – donne con
11 figli e solo 2 dello stesso
padre e questi comportamenti
si tramandano di generazione
in generazione. Ci sono
anche coppie stabili, ma i
numeri sono bassi. Personalmente
conosco due coppie sposate in chiesa (pochissime si sposano
in chiesa), che non hanno figli da
altre relazioni. Tutte le altre, anche
se magari convivono stabilmente,
hanno avuto figli fuori dal matrimonio.
Questi comportamenti riguardano
in modo particolare gli afrovenezuelani».
La sociologa Mercedes Pulido ha
spiegato a Noticias Aliadas (2) che
in Venezuela il colore della pelle è
sempre «caffè con latte. A volte con
un po’ più di caffè, a volte con un
po’ più di latte». La questione è se,
nel paese caraibico, il colore della
pelle sia o no un fattore discriminante
(3).

«Lo è, lo è – spiega padre Agostinho
-. Nella mia esperienza di
missionario, ho visto che ci sono negritas
che vogliono “migliorare” la
razza, schiarendo la pelle, perché a
loro non piace essere nere. Vedere
una afro con un figlio catir (quasi
bianco), mentre convive con un nero,
è facile. Molte donne di colore
cercano l’uomo bianco per avee
un figlio, ma rifiutano la convivenza
con lui.

C’era un italiano, un poliziotto,
che aveva avuto un figlio con una
donna afro: lei ha voluto il figlio, ma
non suo padre. Questo razzismo nasce
da un’autostima molto bassa,
probabilmente per un retaggio storico
duro a morire».
Per confermare questa sensazione,
padre Agostinho racconta altri
episodi accaduti durante i suoi anni
trascorsi tra gli afrovenezuelani.
Come il sacerdote cacciato perché
era «nero come noi». O il medico rifiutato
perché era «nero come noi».
O ancora la lite tra due donne afro
che si affrontavano dandosi del «taci
tu che sei più negra di me».

IL METICCIO CHÁVEZ
DIVIDE ANCHE IN CHIESA

Il presidente Hugo Chávez è un
mestizo. All’opposto la maggioranza
degli impresari, sindacalisti, politici
e giornalisti dell’opposizione
sono bianchi.

«Non so – spiega padre Agostinho
– quanto questa componente razziale influisca. So soltanto che la situazione
generale è complicata e
per noi anche molto delicata. Non
tanto perché il governo fa pressioni
sulla chiesa (questo non mi preoccupa),
ma perché abbiamo il difficile
compito di unire la gente mentre,
anche dentro la stessa chiesa, ci
sono persone che si odiano perché
uno ha un ideale e uno un altro, perché
uno ama Chávez e uno lo odia.
L’altro giorno una signora mi ha
raccontato che suo marito aveva
rotto il televisore, perché compariva
Chávez. Mi ha spiegato che non
ne avrebbe comperato un altro, dato
che il marito lo avrebbe rotto di
nuovo al riapparire del presidente e
ha aggiunto che non avrebbe fatto
la comunione perché provava un odio
fortissimo per Chávez. Un’altra
volta ho incontrato in chiesa una signora
inginocchiata e piangente. Mi
ha spiegato che stava chiedendo a
Dio che Chávez se ne andasse. Io ho
detto che, come per tutti, sarebbe
venuto anche il suo momento e che
Dio non parteggia per l’uno o per
l’altro dei contendenti.

D’altra parte, è altrettanto vero
che ci sono persone, soprattutto dei
quartieri più poveri, che amano il
presidente Chávez».

Il presidente è stato eletto con il
voto determinante delle classi meno
abbienti della popolazione. «Ma
non solo da loro – precisa padre Agostinho
-. Il Venezuela era in una
profonda crisi economica e sociale.
Anche per questo la gente ha votato
in massa Chávez, con la speranza
che lui salvasse il paese. Però non
si può dire che l’abbia fatto. Ha
grandi idee, buoni ideali, buoni
programmi, ma fino ad ora non si è
realizzato molto».

LA COSTITUZIONE
COME UN «BEST SELLER»

Per le vie del centro di Caracas
sulle bancarelle dei buhoneros (venditori
di strada) si trova in vendita
la «Costituzione della repubblica
bolivariana del Venezuela». Nelle
case dei quartieri poveri non manca
mai quel libretto, che può stare
nel taschino della camicia. Se Chávez
dovesse lasciare la presidenza, è
difficile pensare che tutto questo
venga dimenticato.

«È vero – ci conferma il missionario
-. Toare al passato non è più
possibile. Una cosa positiva è che la
rivoluzione bolivariana ha reso più
consapevoli i venezuelani. Questo
significa che il prossimo presidente,
chiunque esso sia, dovrà far i
conti con questa nuova coscienza
collettiva.
Oggi il paese è sul bordo del baratro.
Se dico che sono ottimista
mento, ma mento egualmente se dico
che sono pessimista.
Ricordo una frase che mi dissero
quando arrivai qui in Venezuela: il
venezuelano è molto tranquillo e
pacifico, ma non toccarlo nello stomaco:
è abituato ad avere cibo e
non sopporta di patire la fame».

QUELLA FIRMA DI APRILE

Durante i convulsi giorni dell’aprile
2002, la chiesa ufficiale venezuelana
si affrettò a riconoscere il
golpe contro il presidente Chávez.
In particolare, il cardinale Ignacio
Velasco, arcivescovo di Caracas,
firmò l’atto di accettazione del nuovo
governo di Pedro Carmona.
Padre Agostinho è molto cauto al
riguardo. «Io mi limito a pregare –
conclude il missionario -, affinché il
paese continui ad essere un paese
dove possano vivere sia gli uni che
gli altri. Noi cercheremo di giocare
il nostro ruolo senza metterci troppa
ideologia, se non è proprio indispensabile.
Come sacerdoti non dobbiamo
tanto schierarci contro Chávez, ma
piuttosto essere di stimolo affinché
il presidente torni ad orientarsi verso
i suoi ideali che erano buoni».

(FINE 2a. PUNTATA – CONTINUA)

Box

Fronte dei media. Come televisioni e giornali capovolgono la realtà

Tutti i principali canali televisivi e i
giornali nazionali del Venezuela sono
in mano all’opposizione. Non esiste
alcun tipo di «par condicio». Il presidente
non viene soltanto criticato (come
giusto e normale), ma deriso e insultato.
«Si sta consumando, nell’indifferenza e
nel silenzio del mondo – ha scritto il teologo
Giulio Girardi (1) -, un crimine
contro l’umanità: il soffocamento della
speranza dei poveri, rappresentata in
Venezuela dalla rivoluzione bolivariana
e dal presidente Chávez. Il silenzio che
avvolge e nasconde questa battaglia è
dovuto in larga misura alla complicità
dei mezzi di comunicazione di massa
(…), che presentano della situazione
un’immagine rovesciata, secondo cui un
popolo oppresso si starebbe ribellando
ad un presidente violento e repressivo».
I maggiori canali televisivi del Venezuela
sono:

• Canale 2, «Radio Caracas Televisión»
(di Marcel Granier)

• Canale 4, «Venevision» (Gustavo Cisneros)

• Canale 10, «Televen» (Omar Camero)

• Canale 16, «Globovision» (Federico Ravell).

Sul fronte opposto c’è Canale 8, «Venezolana
de Televisión», la piccola televisione
statale da dove, ogni domenica,
parla Chávez in prima persona nell’ambito
di un programma chiamato «Aló
Presidente!». La trasmissione è prolissa
(può durare ore) e spesso non rende
un buon servizio al presidente, che ha
nella sua «incontinenza verbale» un importante
punto debole.

Sono totalmente schierati con l’opposizione
anche i due principali quotidiani
del paese: «El Nacional» (di Miguel
Henrique Otero) e «El Universal»
(Andrés Mata Osorio).
Vanno inoltre segnalati due siti Web
particolarmente virulenti nei confronti
del governo Chávez e dei suoi sostenitori:
• www.reconocelos.com
• www.militaresdemocraticos.com
Il primo sito è una sorta di «wanted» elettronico
(o di modea «lista di proscrizione
»), dove appare il volto («Nunca
olvides estas caras»), il curriculum e le
abitudini di chiunque collabori e abbia
collaborato, a qualsiasi livello (dai ministri
ai giornalisti), con il governo; gli utenti
del sito possono inviare i loro commenti-invettive. Nella lista si trovano, ad
esempio, la dottoressa Osorio e l’ingegner
Giordani, colpevoli di essere ministri
del governo, o il giornalista Eesto
Villegas, reo di lavorare alla televisione
di stato. Il secondo è invece il sito dei militari
dissidenti che hanno il loro quartier
generale in piazza Altamira (2).

«In Venezuela – ha scritto Naomi
Klein (3) – perfino i telecronisti
sportivi vengono arruolati nel tentativo
dei mezzi d’informazione privati di cacciare
il governo democraticamente eletto
di Hugo Chávez. (…) Le tv private sono
di proprietà di ricche famiglie che
hanno seri interessi economici a sconfiggere
Chávez. (…) Nei giorni che hanno
portato al colpo di stato di aprile, Venevision,
Rctv, Globovision e Televen
(4) hanno sostituito la normale programmazione
con discorsi antichavisti,
interrotti solo da spot che invitavano gli
spettatori a scendere nelle strade. (…) E
se le tv si sono rallegrate apertamente alla
notizia delle “dimissioni” di Chávez,
quando le forze filochaviste si sono mobilitate
per ottenere il suo ritorno, è stato
imposto un blackout totale dell’informazione.
(…) Quando Chávez è
finalmente tornato al palazzo di Miraflores,
le tv (…) hanno mandato in onda
il film Pretty Woman e i cartoni animati
di Tom e Jerry».

(1) Si veda Adista del 4 gennaio 2003.

(2) Al riguardo si legga l’articolo pubblicato
su M.C. di maggio.

(3) Si veda Internazionale del 14 febbraio
2003.

(4) Alcuni siti web delle televisioni: www.globovision.
net; www.venevision.net. E dei due
maggiori quotidiani: www.eluniversal.com;
www.el-nacional.com. Il sito della presidenza:
www.venpres.gov.ve.

Paolo Moiola




SUDAFRICA dai campi agli agglomerati urbani

ORIZZONTI PIÙ VASTI
Sconfitta l’apartheid, il Sudafrica
è alle prese con nuovi e gravi problemi
economici e sociali. I 17 missionari
della Consolata presenti nel paese
non si nascondono le difficoltà,
ma hanno intrapreso un cammino
di rinnovamento per fronteggiare
le nuove sfide. Ce ne parla uno
dei consiglieri generali dell’Istituto,
a conclusione della visita canonica.

L’ultima visita canonica avvenne
l’anno dopo in cui era stata
sconfitta l’apartheid: tutti i
sudafricani erano estasiati per i risultati
miracolosi e pacifici con cui i loro
leaders li avevano traghettati verso
il nuovo Sudafrica. Grandi erano
le aspettative di libertà, giustizia, lavoro,
benessere, scuola e salute uguali
per tutti. Il cielo aveva baciato
la terra sudafricana: il successo sembrava
possibile e a portata di mano.
A sette anni di distanza, il panorama
è oscurato da dense nubi: molte
promesse sono ancora nel cassetto e
nuovi problemi sono sopraggiunti a
complicare la vita della società sudafricana.

APARTHEID ECONOMICA
La situazione economica non potrebbe
essere più squallida. Un quarto
dei sudafricani sopravvivono con
meno di un euro al giorno; metà della
popolazione vive in case fatiscenti,
con un introito inferiore a 100 euro
al mese. Un quarto dei bambini
sotto i sei anni è affetto da insufficienza
alimentare, con gravi rischi
per il loro sviluppo cerebrale.
Dal 1990 al 2000 la disoccupazione
è aumentata del 20%: un lavoratore
su tre è senza lavoro. In alcune
parti del paese la disoccupazione
raggiunge il 50%.
Problema cruciale per l’occupazione
è sempre la questione della terra,
in buona parte ancora nelle mani
di pochi proprietari storici del tempo
dell’apartheid. La riforma agraria,
con la relativa ridistribuzione delle
terre, ha fatto passi da lumaca: il governo
non ha fondi per riscattarle.
Milioni di africani, agricoltori per
cultura e tradizione, ma senza proprietà
terriera, sono privi di ogni sicurezza
economica e devono accontentarsi
di lavori provvisori, banali e
poco retribuiti.
La distanza tra ricchi e poveri diventa
sempre più abissale. La povertà,
poi, ha effetti devastanti nei
comportamenti umani e sociali, che
sfociano nella criminalità, violenza,
prostituzione… e conseguente diffusione
dell’Aids.
L’epidemia dell’Hiv/Aids ha raggiunto
proporzioni spaventose: è responsabile
di una morte su quattro.
Nel 2000 il morbo ha provocato il
40% dei decessi di giovani e adulti
tra i 15 e i 49 anni ed è diventato la
prima e più grande causa di morte
nel paese. Le previsioni sono più terrificanti:
nel 2010 l’Aids avrà ucciso
dai 5 ai 7 milioni di sudafricani.
La mancanza di moralità e la scarsità
di provvedimenti seri a tale proposito
da parte del governo sono i
peggiori nemici degli sforzi che da
varie parti si stanno facendo per
combattere l’epidemia. L’autorità civile
cerca di nascondere la cruda
realtà: gli stanziamenti dei fondi per
la sanità vengono impiegati soprattutto
per combattere le malattie più
convenzionali, come la tubercolosi,
ma poco o niente per prevenire e curare
l’Aids.

SOCIETÀ VIOLENTA
Ad aggravare la situazione del Sudafrica
contribuiscono i mali comuni
al resto del mondo: disonestà economica
ed evasione fiscale nel settore
privato, corruzione e nepotismo
in quello pubblico.
Nonostante le leggi abbiano abolito
ogni residuo di razzismo, permangono
ancora atteggiamenti culturali
e pratici di discriminazione,
specialmente nei riguardi della donna
di colore, in particolare nel mondo
del lavoro.
La famiglia continua ad essere minacciata
nei suoi valori tradizionali
dal sistema di lavoro migratorio: centinaia
di migliaia di lavoratori sono
lontani da casa per quasi tutto l’anno,
oppure la distanza del posto di lavoro
assorbe buona parte della giornata
in viaggi.
Per la maggior parte dei sudafricani
la lotta per la sopravvivenza si
traduce spesso in disperazione, frustrazione,
criminalità, violenza familiare,
dipendenza da droghe e in altri
gravi problemi sociali che tormentano
il paese: il Sudafrica è uno
dei paesi più violenti del mondo; i
suicidi aumentano ogni anno.
La mancanza di sicurezza è spaventosa.
La gente vive nel terrore di
essere aggredita e derubata anche in
pieno giorno, sia in casa che fuori,
per mano di forsennati che non esitano
a uccidere.
Tale insicurezza non risparmia sacerdoti
e religiosi; anzi, sembrano diventati
bersagli facili e preferiti: recentemente
sono stati uccisi due preti
delle diocesi in cui lavorano i
missionari della Consolata.

BISOGNO DI CAMBIAMENTI
In tale situazione, le chiese cristiane
sembrano aver perduto quello
smalto profetico e autorità morale
che le caratterizzavano al tempo dell’apartheid.
Esse sono ancora in prima
linea nella lotta contro l’Aids; rimangono
sempre la voce dei poveri,
anche se non si fa sentire come prima;
partecipano allo sforzo nazionale
per iniettare nella società principi
e valori morali, promuovere sicurezza,
giustizia, armonia e unità di tutti
i sudafricani.
In una società che cambia tanto
velocemente, anche le chiese hanno
bisogno di rinnovare i metodi di apostolato
e testimonianza della fede.
L’atmosfera di materialismo ed edonismo
che si respira nel paese ha appiattito
alcuni aspetti della vita e lavoro
ecclesiale: la distanza tra i più
ricchi e i più poveri, i comportamenti
razzisti e classisti, persistenti
nella società e perfino nelle istituzioni
ecclesiali, non fanno più problema
come una volta.
I missionari della Consolata, da oltre
30 anni, vivono l’evoluzione del
Sudafrica e cercano di adattare la loro
presenza a tali sfide. Vari cambiamenti
sono avvenuti negli ultimi sette
anni; prima di tutto nel numero e
inteazionalità del gruppo: sono 17
missionari, appartenenti a 8 nazionalità
e 4 continenti, in maggioranza
giovani africani e sudamericani.
Tale composizione, non priva di
sfide a livello comunitario, costituisce
una ricchezza di idee, metodi ed
esperienze di lavoro: diversità e unità
sono a servizio della stessa missione,
e diventa modello e testimonianza di
convivenza e collaborazione per una
società pluriculturale e multirazziale
come quella sudafricana.
Con l’aumento del personale è avvenuto
anche un cambiamento di orizzonte:
dopo 20 anni di lavoro nelle
zone rurali, i missionari della Consolata
hanno scelto i poveri dei
grandi agglomerati africani alle periferie
delle grandi città: le townships,
create per le popolazioni nere in
tempo di apartheid.
Oltre a Madadeni, Blaauwbosch,
Osizweni, alla periferia di Newcastle,
i missionari della Consolata hanno
esteso la loro presenza nella città
di Pretoria, prendendo la responsabilità
di una parrocchia nella township
di Mamelodi; sono ritornati in
quella di Embalenhle (Evander);
hanno avviato l’esplorazione di un’apertura
a Soweto (Johannesburg).
Il passaggio dalle piccole e disperse
comunità rurali alle masse delle
zone industrializzate ha provocato
un cambiamento e arricchimento
dei metodi di lavoro. Per rispondere
alle complesse situazioni urbane
non è più sufficiente la buona volontà
di «navigatori solitari», ma occorre
il lavoro di «squadra».
Per questo in quasi tutti i centri vi
sono tre missionari e il lavoro pastorale
è fatto in gruppo: pianificazione
delle attività, divisione delle incombenze,
verifica e valutazione del lavoro
fatto, delle difficoltà e facilitazioni
incontrate.
In un mondo governato dall’individualismo,
che non risparmia neppure
i missionari, è forse questo il più
significativo cambiamento e si dimostra
utile ed efficiente. Ne è prova
l’elogio che il vescovo di Dundee
ha espresso nei riguardi della nostra
presenza a Madadeni, definita «la
migliore parrocchia della diocesi».

SFIDE E PRIORITÀ
Se molto è stato fatto in questi ultimi
anni, ancora molto rimane da fare
per superare le sfide crescenti della
società sudafricana. Oltre a esortare
i missionari al rinnovamento
della vita interiore, per guardare avanti
con speranza, i visitatori hanno
indicato la via e le priorità per il futuro.
«L’evangelizzazione deve precedere
la sacramentalizzazione; la
preparazione di leaders laici deve diventare
la vostra priorità; il lavoro
con la gioventù, già fiorente in tutte
le missioni, deve intensificarsi; l’assistenza
ai malati di Aids, che fa già
parte della vostra preoccupazione
giornaliera, deve crescere; l’inculturazione,
già visibile nella liturgia e
nelle celebrazioni, deve nascere anche
in altri ambiti della vita ecclesiale;
il dialogo ecumenico e interreligioso
deve diventare parte integrante
della vostra missione».
Una delle priorità che si impone ai
missionari della Consolata è l’incremento
dell’animazione missionaria e
vocazionale. Essa è sentita come una
responsabilità, non solo nei riguardi
delle comunità loro affidate, ma da
estendere a tutte le diocesi in cui sono
inseriti. La chiesa e il paese stesso
hanno bisogno di tale servizio, per
diventare più universali, più aperti agli
altri, più accoglienti delle differenze
di razza e nazionalità.
Per lungo tempo i missionari della
Consolata sono stati consigliati di
limitarsi a promuovere le vocazioni
diocesane, poiché la diocesi di Dundee
non aveva alcun prete diocesano.
Da una dozzina d’anni è stato loro
richiesto di avviare la promozione
vocazionale anche a favore
dell’Istituto. Alcuni tentativi sono
stati fatti, ma senza successo.
È arrivato il momento di aiutare la
chiesa sudafricana a fare questo passo
ulteriore: inviare missionari in altre
nazioni e continenti. «Vi chiediamo
di dare priorità a questo settore –
suggeriscono i visitatori – e di considerare
se sia giunto il tempo di avere
un animatore a tempo pieno, di fondare
gruppi vocazionali, costruire una
casa per questo scopo, organizzare
commissioni vocazionali diocesane,
lavorare con altre congregazioni,
fare qualsiasi altra cosa che possa implementare
un più robusto programma
di animazione missionaria e
vocazionale».

GIUSTIZIA E PACE
Anche questa è una priorità continua.
Quando il Sudafrica sconfisse
l’apartheid, gli africani ebbero l’impressione
che il paese sarebbe diventato
modello di società giusta per gli
altri stati africani confinanti. Ciò non
è avvenuto. Molte situazioni ingiuste
continuano con effetti deleteri per il
presente e il futuro del paese. I missionari
della Consolata sono esortati
a stare in prima linea nel servizio e
promozione di «giustizia e pace»,
dando il loro contributo agli sforzi
che la chiesa e altre istituzioni religiose
e civili stanno facendo. Sono convinti
che l’impegno per la giustizia e
la pace non è optional: il paese ne abbisogna,
la missione lo richiede,
l’evangelizzazione,
senza di esso, è sterile.

Norberto Ribeiro Louro




La testimonianza di Carlo Urbani

È morto un medico: Carlo Urbani.
Non l’ho conosciuto, ma ci univa un sottile filo. E,
quando ho appreso la notizia della sua morte, ho riconosciuto
quel leggero filo e l’ho riconosciuto nello stesso
momento in cui si è spezzato. Il tenue filo non è solo
la nostra professione di medico, ma il fatto di averla
svolta anche in paesi lontani, quelli che siamo
abituati a chiamare «terzo mondo».
La sua morte è avvenuta in un periodo di guerra, in
uno di quei periodi in cui ci si dimentica del terzo mondo,
allorché l’umanità viene distrutta e si perde il senso
della grandezza della persona umana. Le bombe cadono
su Baghdad, i marines attaccano l’Iraq dal cielo e
dalla terra, ed un medico muore lontano nell’Estremo
Oriente.
Poche settimane fa sono arrivati nel mio ospedale i
protocolli da seguire per quella anomala polmonite virale
che sta colpendo popolazioni tanto lontane, quella
polmonite che il medico Carlo Urbani stava combattendo
con passione, così come ha combattuto la tubercolosi,
l’AIDS ed altri temibili virus e batteri nei
paesi del terzo mondo. Inoltre Urbani scriveva per Missioni
Consolata, cercando di raccontare quei lontani
mondi, la loro sofferenza e la loro forza. Anche questo
filo ci univa.
La professione di medico è molto cambiata; in parte
è diventata come ogni altra professione, estremamente
tecnica, specializzata, e forse si è anche allontanata
dall’antico cammino che riusciva ad incrociare
la capacità professionale con la vicinanza alle sofferenze
umane.
Mi sono venuti subito alla mente tanti nomi di medici,
conosciuti nei miei quasi 20 anni di professione,
5 dei quali (i più belli) spesi in Perù; ho pensato al dottor
Iginio, che ho visto piangere per la rabbia di fronte
alla sofferenza; alla dottoressa Charo, che a volte si
portava i bambini a casa per dar loro anche un po’ di
affetto e cibo; al dottor Lucio, che spendeva parte del
suo stipendio in medicine per i suoi pazienti; a quel
cardiochirurgo che ha operato un bambino peruviano,
portato di nascosto in Italia, e che non ha voluto neanche
i miei ringraziamenti. Ho pensato a quei medici
che, in Perù, lavorano quotidianamente con la tubercolosi,
con l’AIDS, e che non sono neanche protetti da
un’assicurazione.
Ho pensato alla mia vita di
medico del primo mondo, con 38
ore lavorative e il cartellino da
timbrare, con il sindacato che mi
protegge, con strutture, finanziamenti,
apparecchiature e medicine
a disposizione. Ho pensato agli
scandali della nostra sanità, ai
mille interessi economici che
l’attraversano snaturandola, ai
congressi in giro per il mondo…
e mi sono sentito un piccolo medico
che vive di ricordi. E ho sentito
il tenue filo con Carlo Urbani
che si spezzava.
È morto un medico che credeva alla sua professione
e all’umanità. E si è spezzato un tenue filo anche in me.

No, il filo non si è spezzato. Come è noto ai lettori,
Guido Sattin cura la rubrica «COME STA FATOU?» (anche a
pagina 64 di questo numero), che illustra la sanità e non
sanità nel Sud del mondo. La rubrica fu iniziata nel gennaio
1999 proprio da Carlo Urbani, al quale M.C. dedicherà
un Premio.

Guido Sattin