DOSSIER TRANSIBERIANA (2):”Quando si stava peggio”

10 mila km di rimpianti e umori contrastanti

Vecchi e nuovi poveri, delusioni del presente e nostalgie del passato, camaleonti e profittatori di tuo, fobie e degrado ambientale… corrono lungo i binari della Transiberiana.

Afferma Evgenij Evtusenko che «per quanto brutto possa essere il presente, un ritorno al passato sarebbe peggiore». Forse non tutto è così logico in Russia. Durante il tragitto abbiamo incontrato molta più gente che rimpiangeva il kasermensozialismus (socialismo da caserma), come Karl Kautsky aveva definito l’Unione Sovietica, rispetto alla dikayasizn (vita selvaggia), cioè il capitalismo, che pure apprezzava.
E la demokratija? Una parola che viene associata a der’mokratija, dove der’mo in russo significa merda.

TRADIMENTO E RIMPIANTI
Solo a Mosca abbiamo trovato una certa disponibilità per il nuovo corso politico; ma le ferite, impresse da una liberalizzazione senza briglie, sono tuttora aperte e sanguinanti, testimoniate dalle numerose persone che tendono la mano in cerca di qualche copeco. Non solo disoccupati, barboni, ma anche lavoratori che non riescono ad arrivare a fine mese, pensionati che hanno visto i loro introiti volatilizzarsi nel giro di poche settimane.
Ciò che i russi oggi rimpiangono, non è tanto l’ideologia comunista, quanto il sistema sociale da essa creato, che permetteva a tutti di sopravvivere in un «secondo mondo» in cui non esistevano i lussi sfrenati del primo, ma neppure le miserie del terzo.
L’Unione Sovietica dissoltasi nel 1991 era oramai solo l’ombra di quella creata il 30 dicembre 1922 come figlia legittima della rivoluzione d’ottobre. I funzionari del Pcus, trasformatisi da rivoluzionari in burocrati, erano ben lontani dall’idea di incarnare l’esempio di purezza, dedizione e sobrietà lanciato da Lenin e da Trockij. Al contrario, entrare a far parte del Partito comunista era divenuto per molti l’unico modo per emergere dalla vita spartana condotta dai comuni cittadini.
È anche per questo tradimento che molti russi, rimpiangendo l’idea incarnata da Lenin, continuano a far la fila per visitare la salma mummificata nella Krasnaja Ploscad, il cui nome non rispecchia un colore politico, bensì l’antica etimologia slava, per cui krasnaja significa al tempo stesso «bello» e «rosso», perché il rosso era considerato il colore più bello.
A Perm’, 1.300 chilometri da Mosca e prima tappa del nostro viaggio, troviamo parecchie coppie di sposi che, dopo essersi scambiata fedeltà reciproca, vengono ai giardini pubblici Komsomolsky a deporre mazzi di fiori ai piedi della statua di Lenin. Un omaggio che vedremo ripetersi costantemente in tutte le soste successive.
Il pope della cattedrale Petropavlovsky, il primo edificio in mattoni della città, allarga le braccia: «Settant’anni di comunismo pesano ancora sui russi. Ci vorranno ancora due o tre generazioni affinché rinasca la fede».
Girovaghiamo per i quartieri cittadini, che ci mostrano come gli effetti della liberalizzazione, sommati al torpore economico e sociale dell’era brezneviana, abbiano sconvolto la vita dei russi. Attraverso le stradine fangose, ci inoltriamo in questo spaccato di inferno dickensiano, formato da casupole di legno i cui interni, illuminati dalla fioca luce di lampadine a bassa intensità, nascondono drammi umani e storie di emarginazione, testimoniati dalle numerose bottiglie vuote di vodka e birra abbandonate per le vie.
Per molti russi, l’alcolismo è l’unica via di fuga da una società che, nel giro di pochi mesi, ha sostituito le esaltazioni delle conquiste socialiste con i McBurger, le cucine Berloni, la Coca Cola.
Chi si è adattato più facilmente a questa nuova società, sono gli adolescenti. Ne incontriamo alcuni sulla Mockba 69, la motonave che, durante il periodo estivo, compie crociere risalendo il fiume Kama per qualche chilometro. Sono studenti delle secondarie, quasi tutti appartenenti a famiglie benestanti: «Altrimenti come farebbero a pagare libri, rette, gite, mensa e tutti gli altri servizi che prima erano gratuiti?» sentenzia una professoressa. Anziché interessarsi al paesaggio, si dimenano sul ponte dell’imbarcazione al ritmo di musiche rock.
«Che ne è dei canti patriottici e rivoluzionari?» chiedo alla stessa insegnante.
«Quasi scomparsi. Dopo l’indigestione, ci si disintossica con i nuovi gruppi rockettari russi, ma anche con i vostri Eros Ramazzotti, Adriano Celentano, Al Bano e Romina Power, che qui sono un’istituzione».
Il nuovo è meglio del vecchio? In campo musicale lascio trasparire chiaramente i miei dubbi all’educatrice, che si limita a ridere divertita.

RITORNO ALLA FALCE E MARTELLO
Ci congediamo da Perm’ dopo aver fatto provviste di cibarie al mercatino rionale situato in periferia. Qui, ogni giorno, arrivano dalle campagne circostanti decine di contadini con i loro prodotti: frutti di bosco, verdure, mele, pere, carne.
Daigo, mio figlio, ne approfitta per fare incetta di lamponi, fragole, more, mirtilli. Una babuska cerca di intrattenere una conversazione con le poche parole di inglese che conosce, incoraggiata dalle altre compagne. La vita, a quanto ci dice, non è affatto migliorata dopo il dissolvimento di molti kolchoz e sovchoz.
In parte questo peggioramento è dovuto alle rivalità personali tra le varie famiglie, ma è da attribuirsi anche, anzi soprattutto, alla mancanza di iniziativa individuale, ammazzata da decenni di decisioni calate immancabilmente dall’alto, e per la riluttanza dello stato a concedere incentivi e sussidi economici.
Così la falce, scomparsa assieme al martello dagli emblemi nazionali, è tornata nei campi al posto delle mietitrebbiatrici, dei trattori e della meccanizzazione.
È un paradosso, ma i contadini, considerati da tutti i rivoluzionari bolscevichi una classe nemica e per questo i più colpiti da carestie e purghe, si sono rivelati i più ferventi sostenitori dell’economia socialista.

CITTÀ DELLA BACCHETTA MAGICA
A Novosibirsk, che significa Nuova Siberia e della Siberia ne è la capitale, incontriamo padre Corrado Trabucchi, un francescano che nel 1991 è stato tra i primi sacerdoti stranieri a ottenere un visto per la Russia. Con lui abbandoniamo la bella e ricca parte centrale della città, per immergerci nella zona povera, che sorge «al di là» del fiume Ob.
All’improvviso è come essere catapultati in un altro mondo: casermoni fatiscenti, accanto a tuguri costruiti alla bell’e meglio; persino i giochi dei parchi pubblici sono abbandonati; il comune preferisce spendere i pochi soldi a disposizione per rispolverare le parti del centro visitate dai turisti e delegazioni commerciali che intendono investire i loro capitali nella regione.
Insomma, una copertina patinata di rivista che, sfogliandola, rivela le brutture di un sistema andato a catafascio ancora prima di nascere.
«Prima del 1991 i servizi funzionavano, a singhiozzo, ma funzionavano per tutti» dice padre Corrado; poi continua: «Ora, se non ci fossero le organizzazioni di assistenza socio-umanitaria, queste persone sarebbero totalmente abbandonate a se stesse». I francescani, assieme alle suore di Madre Teresa, hanno fondato una scuola per sopperire alle necessità educative delle famiglie più povere del quartiere.
Nell’era sovietica la città era additata come modello culturale e formativo non solo nell’Urss, ma in tutto il mondo. La celeberrima Akademgorogod, la cittadella universitaria, fucina del mondo scientifico e umanistico del paese, ora è solo l’ombra di quella che era 20-30 anni fa.
Ci aggiriamo tra le erbacce e gli edifici abbandonati, ricordando che, proprio tra queste mura, sono state ideate e progettate la perestroijka e la glasnost. Sembrava che Abel Aganbegjian e Tat’iana Zaslavskaja, i teorici del nuovo corso varato da Gorbacev, avessero trovato la zelionaja palochka, la bacchetta magica, che Lev Tolstoj cercava da bambino per donare felicità agli uomini.
Così non è stato, almeno per la stragrande maggioranza dei russi, ma per pochissimi di loro il mondo del bengodi è oggi divenuto una realtà.
Ce ne accorgiamo a Krasnojarsk, all’apparenza città anonima e poco attraente, ma che troviamo invasa da turisti giapponesi, statunitensi e russi, che dal porto fluviale si imbarcano sulle navi che risalgono lo Jeniseij fino a Dudinka, ai limiti del Circolo polare artico russo. Durante le crociere, tra un giro di valzer e l’altro, sgranocchiando tartine ricolme di caviale: i nuovi ricchi russi concludono affari da milioni di euro proprio nei luoghi dove, qualche decennio prima, Lenin e la Krupskaja, esiliati dal regime zarista, pianificavano il futuro di una Russia socialista, che sembrava ancora lontanissima da realizzare.
Assieme a Maxim Popov, primo siberiano «doc» ordinato prete dopo la rivoluzione d’ottobre, visitiamo la città. Dall’alto della collina che la sovrasta, Maxim ci indica alcuni quartieri storici: gli ultimi rimasti dopo che l’amministrazione ha svenduto intere aree, per far posto a lussuosi rioni residenziali.
Oggi anche questa ultima fetta di passato rischia di scomparire, nonostante gli abitanti delle case si siano riuniti e abbiano formato un’associazione per sensibilizzare la città di ciò che sta accadendo. «La crisi economica ha creato ben altri problemi – mi dice sconsolato Maxim -. Centinaia di famiglie rischiano di perdere il loro unico introito, dopo che il partner americano ha ritirato i propri capitali dalla joint-venture con i russi, e ora molti operai verranno licenziati dal kombinat di alluminio, l’industria più importante della zona».
La litania dei licenziamenti continua anche a Irkutsk, dove alloggiamo in un bell’appartamento che appartiene a una coppia di anziani, Valentina e Aleksandr Croitskyi: 4 ampie stanze, zeppe di ricordi e fotografie. Aleksandr era un dirigente delle ferrovie e ha viaggiato per anni per tutta l’Unione Sovietica, continuando a farlo anche dopo il pensionamento, fino a quando la rendita statale si è talmente assottigliata da «imprigionarlo» a Irkutsk.
Lo sgretolamento del sistema socialista e dell’Urss, gli ha rubato quegli unici valori su cui aveva basato la sua esistenza e da allora passa le giornate disteso sul letto, sentendo la radio e aspettando pazientemente che la morte ponga fine alle sue delusioni.

SENZA REGOLE
Da Irkutsk a Listvianka, sul lago Baikal. Lontani migliaia di chilometri dal mare, questo immenso bacino naturale, lungo 630 km, che si inabissa per 1.800 metri nel ventre della terra (il lago più profondo al mondo), è il luogo di villeggiatura preferito dai russi della regione. Peccato che è praticamente impossibile bagnarsi nelle sue acque, che non superano mai i 10 gradi, neppure nei periodi più caldi della breve estate siberiana.
Fatichiamo non poco a trattenere Daigo, che vorrebbe tuffarsi comunque, seguendo l’esempio di pochissimi temerari i quali, dopo essersi imbottiti di vodka, sfidano il gelido lago, nella speranza che si avveri la leggenda, secondo cui, chi si tuffa completamente guadagnerà 25 anni di vita. Noi preferiamo trascorrere la nostra esistenza con qualche raffreddore in meno.
Non ci fidiamo neppure di imitare Nikolai, il capitano del peschereccio che, dopo aver accettato di accompagnarci nel minuscolo villaggio di Bolshoi Koti, preleva direttamente dal Baikal un bicchiere di acqua, trangugiandolo d’un fiato.
Il lago è rinomato per la purezza delle sue acque, tra le meno inquinate al mondo, ma Marina Soboleva, ricercatrice presso la Stazione biomarina locale, non è troppo ottimista sul suo futuro: «Il Baikal ha un tasso di inquinamento inferiore alla media nazionale, ma in alcuni punti abbiamo registrato livelli in forte aumento, nonostante numerose industrie lungo le sue sponde siano state chiuse per improduttività. La Russia è un paese privo di leggi, quindi, ognuno può fare ciò che vuole senza alcun controllo. Solo lo scorso mese abbiamo scoperto una fabbrica che scaricava liquami chimici direttamente nel lago. Il proprietario ci ha assicurato che si è trattato di un errore, ma non ci facciamo illusioni: una volta terminata l’ispezione in corso riprenderà a far defluire i suoi rifiuti».
La mancanza di regole ecologiche è una grande attrazione per chiunque voglia produrre a basso costo e la regione di Irkutsk ha beneficiato di queste «leggerezze». Sergei Kuklin, capo dell’Ufficio stampa per la Russia Centrale, mi sviolina una serie di successi ottenuti dal nuovo governatore della provincia: con la produzione industriale in forte aumento e la disoccupazione in calo, il benessere sociale è in aumento.
Rispondendo alla mia obiezione sul crescente numero di persone che vorrebbero un ritorno al passato, Sergei dice: «Sono solo due tipi di persone che ricordano con nostalgia il passato regime: vecchi e poveri».
Il problema è che il miglioramento della vita per i pochi noviye bogatiye, nuovi ricchi, viene realizzato a scapito dell’ambiente. Le infrastrutture industriali ereditate dall’Urss, già poco rispettose dell’ecosistema, sono oggi una fonte di inquinamento per le foreste siberiane.
Sul treno che da Irkutsk ci porta a Khabarovsk, notiamo che almeno il 10-20% degli alberi presentano evidenti segni di bruciature da piogge acide e la deforestazione avanza a ritmo preoccupante, anche perché nelle campagne la legna è il solo combustibile disponibile per scaldare le isbe nei lunghi e freddi mesi invernali.

OCCHIO AI CINESI!
È Svetlana, ragazza di 22 anni, che ci ospita nella sua casa, a svelarci un’incredibile «verità», in base alla quale tutti i problemi che attanagliano oggi la Russia hanno una sola origine: la Cina. L’influenza cinese è chiaramente presente in questa città posta a soli 25 km dal confine. Numerosi immigrati («per la maggior parte illegali» aggiunge Svetlana), soggioano in città.
In tutti i paesi del mondo c’è una componente xenofoba e razzista, che tende a incolpare un certo gruppo etnico per qualunque cosa accada: in Italia ne fanno le spese i «marocchini», in Giappone i coreani, in Cambogia i vietnamiti. In Russia vengono generalmente presi di mira gli ebrei. A Khabarovsk, in mancanza di ebrei, si preferiscono i cinesi.
La droga? Importata dai cinesi. L’inquinamento dell’Amur? Colpa delle industrie cinesi. Le dispute territoriali ancora in atto? Provocazioni cinesi. L’alcornolismo? Se non ci fossero i cinesi a fabbricare vodka scadente rivendendola a basso prezzo…
Yuri Gubkin, 67 anni, una vita spesa nel Pcus a cercare di far carriera, oggi si è rifatto la fedina politica entrando a far parte dell’amministrazione locale: «Occorre essere chiari: dobbiamo impedire la sinizzazione dell’Estremo Oriente russo. Secondo le statistiche, fra una o due generazioni i russi saranno un’infima minoranza e la Cina pretenderà di inglobare il territorio, come ha già fatto nel 1968. Non vogliamo né essere comandati da Pechino, né ritornare sotto l’ideologia comunista».
Gubkin è la stessa persona che una quindicina di anni fa, durante la fase di distensione tra Urss e Cina, parlava di legami di amicizia indissolubili tra i due popoli.
Ha ragione Evgenij Evtusenko quando scrive che in Russia «non vinceranno né i boia imperialisti, né i conigli liberali; ma i camaleonti».
Nella stupenda e, a prima vista, cosmopolita Vladivostok la fobia dei cinesi sale al parossismo. Yulia, la responsabile del piano dell’hotel in cui alloggio, mi dice: «Qui a Vladivostok tutti odiano i cinesi; ma sappiamo troppo bene che sono loro a portare i soldi. Li odiamo, ma non possiamo fare a meno di loro, per questo può sembrarti che la città abbia un volto cosmopolita che in realtà non ha».
Da parte loro i turisti cinesi non amano i russi: «Troppo villani, maleducati, arroganti. Si capisce fin troppo bene che l’unica cosa a cui sono interessati sono i nostri soldi», afferma Nina, una guida turistica di Pechino, che sta accompagnando un gruppo di 25 connazionali.
Ma li capisco, questi russi. Dopo 7 decenni di propaganda, in cui si metteva in risalto i successi sociali ed economici raggiunti, all’improvviso si sono visti dire che erano stati raggirati e che la vera ricchezza si poteva raggiungere solo seguendo la via capitalista. E loro, da buoni sudditi, si sono riconvertiti, per ritrovarsi, però, invasi da cinesi comunisti, armati di videocamere digitali, vestiti alla moda italiana, alloggiati in alberghi di lusso da 100 dollari a notte.
«Eppure, quando eravamo comunisti anche noi, i cinesi erano i nostri fratelli poveri – commenta sconsolato Sasa, studente in medicina, che sta cercando disperatamente di avviare uno studio privato -. Li vedevo arrivare, comprare tutto ciò che potevano razziare, per poi rivenderlo al di là del confine. Mi facevano pena. Oggi quando vedo un cinese mi vergogno. Penso che siano loro a provar pena per noi. In cosa sbagliamo?».

PANTANO ECONOMICO
Non so cosa rispondere, ma mi viene in mente una frase che mi ha detto padre Myron Effings, primo prete cattolico straniero che nel 1991 ha messo piede nell’Estremo Oriente russo: «Per i russi democrazia significa far ciò che si vuole».
La dimostrazione è la forzata privatizzazione di numerose industrie adibite a servire la popolazione: anzichè migliorare i servizi, è servita a far accumulare profitti. Poco importa se l’industria del gas, svenduta dalla regione a una cordata di neoindustriali russi, abbia improvvisamente interrotto l’erogazione all’intera cittadinanza, perché il comune di Vladivostok non riusciva a pagare gli arretrati. Così in pieno inverno con temperature vicine ai trenta gradi sotto zero, due milioni di persone si sono trovati senza riscaldamento.
«La caduta del comunismo si è portata con sé anche gli ultimi residui di solidarietà umana esistenti nella società» riflette il sudcoreano Lee Jung-hoon, capitano della sezione locale dell’Esercito della Salvezza.
Ed è in questo pantano economico, di cui l’Occidente e gli Stati Uniti in particolare hanno la loro buona parte di colpe, per aver spinto una transizione troppo accelerata, senza preparare le basi su cui poggiare le fondamenta della nuova società, che la Russia sta cercando di non affondare.

Piergiorgio Pescali




DOSSIER TRANSIBERIANA (1):”Transiberiana”

La ferrovia più lunga del mondo

TRANSIBERIANA

Pensata fin dal 1857, iniziata nel 1881, terminata dopo una ventina di anni,
essa congiunge l’Europa all’Asia. La sua costruzione è costata lacrime e sangue, segnando profondamente la storia della «Grande Madre Russia».

Cosa sarebbe la Russia, la Grande Madre Russia, senza la Siberia? Nessuno, oggi, potrebbe immaginarsi un paese così monco quanto una Russia privata della sua parte orientale. Tutti i territori meridionali del Caucaso e del Centro Asia si sono staccati da Mosca, senza che questa ne abbia avuto a soffrire culturalmente; la cicatrice generata dalla secessione di Ucraina, Bielorussia, repubbliche baltiche si è oramai rimarginata, ma per la Siberia è un altro discorso.
La Siberia rappresenta per la Russia (e quindi anche per l’Europa), oltre che un forziere economico di inesauribile ricchezza, l’unico collegamento diretto con l’Asia.
Nel 1918 il poeta Alexandr Bloch, riconoscendo il carattere asiatico della rivoluzione d’ottobre per la spontaneità con cui questa si era compiuta, anticipava il movimento scitista, che nel 1921 definiva la cultura russa «non soltanto occidentale, ma anche orientale; non soltanto europea, ma anche asiatica e addirittura non europea, ma eurasiatica».

LA CONQUISTA DELL’EST
Per secoli gli zar hanno cercato il modo per annettersi l’immenso territorio a est degli Urali, ma le steppe desolate, gli acquitrini infestati dalle zanzare, il clima estremo e le numerose tribù ostili a ogni forma di assoggettamento, rappresentavano ostacoli pressoché insormontabili.
Per evitare disastrose e costosissime campagne militari, la casa regnante di San Pietroburgo escogitò un espediente: i servi della gleba che volevano liberarsi dal giogo della servitù, avrebbero potuto farlo trasferendosi nelle terre orientali coltivando tanta terra quanta ne riuscivano a bonificare.
A questi contadini ben presto si aggiunsero prigionieri politici e comuni. Lentamente, chilometro dopo chilometro, la massa umana si spostò sempre più a oriente, seguita a debita distanza dall’amministrazione zarista, che fondava città e centri di posta nelle zone già colonizzate, allargando i confini dell’impero sino a lambire i territori settentrionali della Cina.
Perché il controllo russo fosse efficace e sufficientemente protettivo verso i cittadini che accettavano di trasferirsi a est, c’era bisogno di collettività autosufficienti e militarmente forti. Vennero quindi incoraggiate le comunità di cosacchi, a cui vennero date in concessione terre per invogliarli a emigrare stabilmente sempre più a oriente.
In questo modo il potere centrale otteneva diversi obiettivi, tutti a lui funzionali: diminuendo la pressione demografica a occidente, si permetteva la coltivazione di appezzamenti di terreno sempre più vasti, liberandosi nel contempo della fastidiosa presenza di cosacchi, allergici a ogni forma di potere che fosse troppo presente nella loro vita.
Inoltre, la colonizzazione di terre fino ad allora abitate da popolazioni considerate rozze e incivili, arginava ogni eventuale straripamento cinese verso settentrione e, soprattutto, permetteva di sfruttare le immense ricchezze del sottosuolo siberiano per rimpinguare i forzieri imperiali.

CORSA A OSTACOLI
Ma per omogeneizzare questa immensa fetta di territorio, occorreva che tutti gli avamposti fossero collegati con la capitale: nel 1857 venne commissionato un primo progetto per la costruzione di una ferrovia. I costi proibitivi, le difficoltà naturali da superare, l’alto impiego di mezzi e uomini e, non ultimo, la riottosità dei cosacchi nel temere (a ragione) un controllo dell’amministrazione centrale sui loro villaggi e la conseguente perdita di potere autonomista, accantonarono temporaneamente ogni piano di sviluppo.
Solo nel 1873, con l’inaugurazione della Compagnia ferroviaria degli Urali, che collegava il confine europeo della Russia con Mosca, il progetto di una linea ferrata che continuasse ininterrottamente fino al Pacifico, dove nel 1860 era stata fondata Vladivostok, divenne sempre più pressante e concreto.
Per otto anni si studiò attentamente quale percorso seguire, ostacoli naturali da superare e in quali città la ferrovia avrebbe dovuto passare. Gli invei gelidi delle regioni poste troppo a nord avrebbero sbriciolato l’acciaio dei binari, rendendo la via impraticabile per la maggior parte dell’anno; passare attraverso le foreste siberiane, dove il clima era più mite, era altrettanto impossibile: sarebbero occorsi decenni solo per aprire una strettornia lungo la quale posare le traversine. Alla fine si decise che il treno sarebbe corso lungo la tradizionale via invernale percorsa dalle slitte, lungo i confini meridionali della Siberia.
Il percorso transitava a pochi chilometri dalla frontiera cinese ed era quindi vulnerabile, ma aveva il pregio di essere praticamente già tracciato e percorribile tutto l’anno.
I lavori iniziarono contemporaneamente da Vladivostok e da Mosca nel 1881, sotto il regno di Alessandro iii, salito al trono dopo l’assassinio del padre, lo stesso anno, da parte del movimento liberal-anarchico Narodnaija Volia (volontà popolare).
Il finanziamento concesso agli ingegneri era talmente ridotto che, nonostante il traffico fosse ancora estremamente limitato, i binari non sopportarono a lungo il peso dei convogli e diversi ponti, costruiti interamente in legno per risparmiare, crollarono durante il primo inverno.
Scoraggiato dalle continue interruzioni e dalla voragine finanziaria che si stava creando nel bilancio statale, Alessandro iii decise di fermare i lavori, mantenendo in vita solo quei tratti più facilmente agibili. La via verso il Pacifico era comunque aperta, seppur non nella sua totalità.
Fu lo zar Nicola ii che, volendo creare una Russia forte e egemonica, capì l’importanza nevralgica che le ferrovie stavano assumendo nel mondo economico e politico del tempo. Il Giappone già incombeva minacciando i possedimenti orientali zaristi e una probabile guerra poteva essere vinta solo accelerando la mobilitazione di migliaia di soldati verso il fronte orientale. Dando fondo alle casse della nazione, nel 1904 i vari segmenti della Transiberiana vennero finalmente uniti.
Sebbene il completamento della ferrovia non servì a Nicola ii per vincere la guerra scoppiata nel 1905 contro l’impero giapponese, l’opera fu celebrata come la definitiva vittoria della scienza dell’uomo sulla natura, dei positivisti sui romantici.

RIVOLUZIONE SUI BINARI
La Transiberiana fu anche la chiave di volta per la nascita del movimento marxista russo. La sua progettazione e realizzazione, con il contributo di urbanizzazione e industrializzazione che ne sarebbe seguito, servì nel 1883 a Georgij Plehanov, fondatore, con Vera Zasulic, Lev Dejc e Pavel Aksel’rod, del gruppo marxista Liberazione del Lavoro, a preconizzare la trasformazione socialista della Russia attraverso il capitalismo.
Forti di questa alterazione sociale, i marxisti entrarono nell’arena politica russa negando ai contadini l’esclusività di una possibile rivoluzione, conferita loro dal movimento social-anarchico Narodnaija Volia.
Plehanov, infatti, come del resto i futuri rivoluzionari bolscevichi, non credeva che le campagne potessero rivoltarsi contro il potere zarista a causa del profondo tradizionalismo che caratterizzava lo spirito rurale russo. Il pregiudizio non era infondato: già nel 1874 i narodniki, che avevano molto seguito tra gli studenti, pensando che i tempi fossero maturi, spedirono migliaia di universitari nelle campagne per aizzare i contadini contro lo zar. La rivolta terminò ancor prima di iniziare, perché gli stessi coltivatori non solo ignorarono l’appello rivoltoso, ma denunciarono e consegnarono gli studenti all’Ohrana, la polizia segreta.
A distanza di tanti anni, abbiamo voluto ripercorrere, per tutti i suoi 10 mila chilometri di lunghezza, la Transiberiana per vedere cosa è mutato nella Russia di oggi. Lo zar è stato spodestato, ma anche il comunismo che a lui si era sostituito, ora non c’è più e al suo posto c’è un governo che cerca faticosamente di ristabilire regole infrante dopo il crollo del vecchio regime e un nuovo modello di mercato e di società che non ha certo dato i risultati promessi e attesi dalla popolazione.

Piergiorgio Pescali




SRI LANKA – Triste isola splendente

Nonostante miti e leggende
di un passato felice, l’isola «più bella»
è, ormai da un ventennio, dilaniata da una lotta,
che oppone tra loro due etnie, diverse per lingua e religione.
I tentativi di riconciliazione non mancano, ma la pace
è davvero dura da conquistare.

L’isola radiosa. Pensavo di arrivare in un paradiso di natura incontaminata e gente felice; invece, mi sono trovata in un paese devastato da una guerra civile lunga 20 anni, divisioni intee, corruzione politica e grave crisi economica. La vita per la popolazione è molto dura. L’isola, che Marco Polo descrisse come la più bella, detiene il più alto tasso di suicidi al mondo.
ora, la povertà
Dai tempi di Polo, molte cose sono cambiate. I primi occidentali a prendere possesso dell’isola furono i portoghesi; poi arrivarono gli olandesi, che non furono meno oppressori dei primi. Nel 1800, gli inglesi riuscirono ad assoggettare il regno di Kandy, la bella capitale nel cuore dell’isola. Da allora, il territorio ha subìto pesanti modifiche: le foreste di essenze pregiate hanno fatto posto a estese piantagioni di tè; una ripida e lenta ferrovia si arrampica fino a 1.900 metri, tra le cime arrotondate dei colli, coperti da file ordinate di arbusti verdi.
Le raccoglitrici sono donne minute, con la cesta sul dorso, legata da una fascia appoggiata sulla fronte. Sono discendenti dai lavoratori che giunsero dal Tamil Nadu, con gli inglesi. Tuttora abitano misere casupole, senza servizi e in condizioni disumane.
Le condizioni delle lavoratrici cingalesi sono comunque sempre dure. Il 90% della forza lavoro nelle fabbriche è composta da donne.
Una polemica sui giornali riguardava l’apertura di una residenza, creata dallo stato, per dare una sistemazione alle operaie di una multinazionale dell’abbigliamento: 300 posti, suddivisi in camerate a sei letti a castello, per un totale di 30 mila operaie, ospitate nei villaggi vicini in condizioni spaventose. Ebbene, solo 11 donne hanno accettato la nuova «decente» sistemazione: l’affitto è troppo caro per la paga che ricevono (equivalente a 5 euro al mese), che deve servire pure per i familiari a casa e un futuro incerto.
Anche per gli uomini la vita non è facile, sia nelle campagne, in parte abbandonate, sia nella capitale Colombo. Il treno dei pendolari la mattina è stracolmo, con grappoli di passeggeri appesi alle porte e finestrini. Il traffico è caotico e pericoloso ovunque.
Tra un villaggio e l’altro non vi è soluzione di continuità: file di casupole e botteghe misere, fogne a cielo aperto. Il caldo e l’alto tasso di umidità rendono tutto più faticoso. Qualche villino nuovo c’è, perché chi emigra ritorna per costruirsi la casa e lo fa in stile moderno, dimenticando la tradizione.
La pesca potrebbe essere fonte di ricchezza, ma è sfruttata dai soliti giapponesi, mentre la maggior parte dei cingalesi dispone solo di una barca e usa metodi antiquati.
anche a palermo…
È domenica e nel tardo pomeriggio cerco una chiesa cattolica. Mi trovo ad Habarana, un villaggio di case sparse e strutture alberghiere nascoste dalla foresta. Il centro è un incrocio di strade, con piccole botteghe allineate e qualche officina. Un crocifisso in legno, piantato su una collinetta, mi indica il luogo: un piccolo complesso, con la scuola di catechismo e le abitazioni delle suore e del parroco.
Padre Eric Feando è giovane, alto e magro. Sorride quando mi presento: «Il mio è un nome portoghese, molto comune nel paese». La lunga tonaca bianca ha collo e polsini logori, ma puliti. Peccato, la messa è appena terminata, ma c’è tempo per parlare e si unisce a noi un suo amico, Neel Wijesinghe.
Neel appartiene alla polizia militare e subito mi spiega che nel suo paese non vi è leva obbligatoria, ma molti giovani entrano nell’esercito per avere un’istruzione e una paga. «C’è molta povertà – aggiunge – e la gente è spinta a emigrare nei paesi del Golfo e in Europa».
Molte donne lavorano nei paesi arabi del Golfo come domestiche e bambinaie e, sovente, vengono maltrattate dai padroni. Vi sono casi penosi, che rimbalzano sui quotidiani. Come quella donna suicida, a Dubai, che si era gettata dalla finestra dell’ultimo piano; o quel marito disperato, rimasto solo ad Habarana con 5 figli: la moglie, emigrata, è scomparsa dopo un’unica telefonata, fatta mesi dopo la partenza. Poi, più nulla. L’indirizzo dato dall’agenzia che le aveva procurato il lavoro era falso, il telefono pure.
Nonostante ciò, continuano a partire con ogni mezzo, sulle carrette del mare, rischiando la vita in mano a trafficanti di uomini senza scrupoli, a cui versano somme ingenti. Vogliono sfuggire le guerre e la miseria dell’isola splendente.
Neel mi dà una notizia sorprendente: «Come in molti altri paesi, anche in Italia, e precisamente a Palermo, esiste una base tamil. La mafia siciliana aiuta i nostri concittadini e poi li arruola. Ci sono molti modi per far arrivare le armi dall’estero».
Il cessate il fuoco tra i governativi e le «Tigri tamil» (Ltte) è durato solo un anno. Poco tempo fa, una nave senza insegne fu intercettata dalla marina militare: non ottenendo risposta, fu affondata. Poi fu scoperto che apparteneva alle Ltte e trasportava armi dall’Indonesia.
Il rischio di una crisi è vivo. I territori del nord e nord-est sono stati rovinati da 20 anni di guerra e, nonostante la lunga e attenta mediazione dei norvegesi, le cose stanno per prendere di nuovo una brutta piega. Il mosaico etnico culturale dello Sri Lanka è certo un problema, ma solo dopo l’indipendenza sono incominciate le violenze.
La divisione è data dalla lingua e dalla religione. Infatti, molti cingalesi hanno anche sangue tamil. Per noi, è difficile distinguere un tamil da un cingalese sulla base dei tratti somatici. I primi arrivarono dal sud dell’India, mentre i secondi discendono dai primitivi abitanti che, pare, ebbero origine dal nord dell’India. I cingalesi sono il 74% e sono buddisti, mentre i tamil sono circa il 20%. I discendenti di commercianti arabi sono musulmani, vivono sulla costa e in alcuni villaggi dell’interno.
nei «giardini delle spezie»
Da molti anni il turismo ha scoperto le bellezze dell’isola. Nonostante i lunghi anni di guerra civile e le bombe scoppiate anche nel centro di Colombo, gli arrivi sono continuati. La maggior parte degli stranieri viene a godersi il sole delle belle spiagge sulla costa, ma sono molti anche quelli che visitano siti storici e archeologici. Le antiche capitali, che guerre e invasioni hanno raso al suolo, conservano imponenti ruderi di pagode e statue del Budda.
L’isola splendente è luogo di miti e leggende. Il poema epico indiano Ramayana racconta del viaggio del principe Rama alla ricerca della sposa Sita, nel regno del demone Ravana, re di Lanka, che l’aveva rapita. Aiutato da Hanuman, dio delle scimmie, attraversò lo stretto che separa l’isola dal sud dell’India, punteggiato da una serie di isole.
Le invasioni dal continente continuarono nel corso dei secoli e spinsero gli abitanti a spostare le loro capitali sempre più a sud, all’interno dell’isola. Dall’India arrivò anche il buddismo, che caratterizza e identifica la maggior parte della popolazione, ispirandone la cultura.
Ashoka, il grande imperatore maurya, inviò suo figlio come missionario, nel iii secolo a. C. e, da qui, la nuova dottrina si diffuse in tutto l’Oriente. Anuradhapura fu capitale per mille anni. Qui, in un recinto sacro, si protegge e si venera l’albero più antico del mondo, nato da un virgulto di quello di Bodhgaya, India, sotto cui il Budda ebbe l’illuminazione. Fu portato qui dalla principessa Sangamitta, figlia di Ashoka.
I turisti ripartono felici dopo visite e soggiorni, ospiti di splendidi alberghi, al riparo da brutte notizie e cattivi incontri. Arrivano e ripartono in comodi pullman, che si fermano solo nei luoghi del turismo classico: negozi di falso artigianato, dove i batik sono teli stampati chissà dove. Nei «giardini delle spezie» vengono smerciati prodotti industriali e gli spettacoli folkloristici sono stati adattati al gusto di noi occidentali.
una dolorosa divisione
Lo Sri Lanka ottenne l’indipendenza nel 1948 e, fino allora, non vi erano mai stati problemi tra la maggioranza cingalese e il 10% di minoranza tamil. Tra questi ultimi bisogna distinguere i «tamil dello Sri Lanka», abitanti il nord del paese, giunti in epoca antica e i «tamil indiani» , discendenti dagli immigrati del Tamil Nadu, giunti nel 1800 dal sud dell’India per lavorare nelle piantagioni di tè, situate nel cuore dell’isola.
Questi vivevano in condizioni di pesante sfruttamento e povertà; per evitare che si potessero alleare con le classi povere urbane, nelle loro rivendicazioni, l’élite locale (che aveva ricevuto il potere dagli inglesi) si fece premura di emanare una legge sulla cittadinanza. Per la prima volta si introdusse il concetto di appartenenza etnica, che portò alla negazione dei diritti per la maggior parte dei tamil indiani. Oltre mezzo milione di tamil avrebbero dovuto trasferirsi in India, ma molti rimasero, senza le garanzie che solo la cittadinanza poteva dare.
Alla comunità era negato il voto, l’educazione superiore, la possibilità di acquistare proprietà statali, accedere a programmi di sviluppo rurale, ottenere il passaporto. L’opportunità di mobilità sociale era nulla: i tamil erano costretti al duro lavoro nelle piantagioni, con un salario minimo. Con l’etnicizzazione della forza lavoro, si spezzava la solidarietà delle classi povere.
La comunità dei tamil srilankiani venne invece coinvolta da tensioni negli anni successivi, a causa della questione linguistica. Mentre dal ’51 si pensava di introdurre sia il cingalese che il tamil nelle scuole, per riconoscere poi entrambe come lingue ufficiali, due anni dopo si sviluppò una corrente nazionalista cingalese-buddista, ispirata dall’influente clero. Ignorando così l’esistenza storica di buddisti e studiosi del buddismo di lingua tamil. Per la prima volta, i tamil srilankiani venivano considerati «altri», nemici in grado di minacciare i valori culturali.
Il movimento, nato intorno allo slogan Sinhala only, si rafforzò durante la fase di declino economico. Alle associazioni dei monaci si unirono insegnanti, medici e studenti di lingua cingalese disoccupati, che spingevano per ottenere il solo riconoscimento del cingalese. Nel 1956, il governo di Solomon Bandaranaike, padre dell’attuale presidente, approvò la legge che riconosceva il cingalese unica lingua ufficiale. Tentativi di fare alcune concessioni sull’uso della lingua tamil vennero violentemente osteggiati dal clero buddista militante.
Nel ’58 esplose la prima grave manifestazione di violenza etnica, con oltre mille morti. A Colombo, 12 mila tamil si rifugiarono in campi profughi, per poi essere trasferiti a Jaffna. L’accesso al pubblico impiego veniva così limitato e, dal ’69, anche l’ammissione all’università veniva stabilito in base a quote su base etnica. Chi sosteneva esami in lingua tamil doveva ottenere voti più alti rispetto a quelli sufficienti per i compagni di lingua cingalese. Nacque così frustrazione e malcontento, difficoltà di occupazione e mobilità, da cui scaturirà l’opzione del ricorso alle armi.
Nel 1972, la nuova costituzione negava lo status costituzionale alla lingua tamil, introducendo disposizioni a favore del buddismo. L’ideologia cingalese-buddista aveva vinto e si era estesa a tutti gli strati sociali, compresi i partiti di sinistra.
l’astuzia delle «tigri»
Quasi 20 anni di guerra civile, dal 1983 al 2001, quando si è firmato un armistizio che non pare definitivo. Le Tigri tamil hanno combattuto per ottenere uno stato indipendente, con costi enormi per il paese: molte vittime tra i civili, difficoltà economiche create da impegno di risorse a fini bellici, violazioni continue dei diritti umani. La spesa per la difesa, negli scorsi anni, assorbiva circa un terzo delle entrate dello stato, sottraendo risorse preziose allo sviluppo del paese. Il conflitto ha alimentato, negli anni, una serie di attività economiche: l’industria bellica ha impiegato sempre più persone, oltre 400 mila nuovi posti su 18 milioni di abitanti.
La gente è stanca della guerra e non solo i civili. L’esercito, in 20 anni, è decuplicato nelle sue dimensioni, ma molti si arruolavano per sostenere le famiglie povere. Ora vi sono molte diserzioni. Il governo ha sempre ostacolato la presenza di giornalisti, privando la popolazione del diritto di sapere e sottraendo il governo al dovere di rispondere del proprio operato.
Le Tigri hanno dimostrato di essere agguerrite, ben rifoite di armamenti, capaci di contrastare gli interventi governativi per il controllo del nord del paese. I tamil, fuggiti all’estero dalle regioni orientali, inviano rimesse pari a circa 500 milioni di dollari l’anno, che alimentano l’economia sommersa.
Entrambe le parti combattenti hanno regolarmente violato i diritti umani nelle regioni del conflitto. L’arruolamento viene fatto nelle zone più povere, da ambe le parti. I tamil arruolano anche i bambini, che rapiscono dai villaggi. La popolazione ha sofferto moltissimo per bombardamenti e combattimenti. Hanno perso la casa, sofferto la fame e subìto stupri da militari e poliziotti.
I governativi pare abbiano detenuto, torturato e ucciso persone sospettate di essere legate alle Ltte. A volte imprigionavano tamil solo sulla base della loro appartenenza etnica, per cui la presidente Kumaratunga è intervenuta a nominare uno speciale comitato per evitare arbìtri.
Con numerosi attentati, specie a Colombo, le Tigri hanno causato molte vittime. Nelle zone di guerra, chi si rifiutava di cornoperare con i tamil veniva torturato e ucciso. Inoltre, le Tigri hanno sempre attuato la pratica dell’omicidio politico, per affermare il controllo sul territorio.
Quando, nel 1998, si indissero le elezioni a Jaffna, ex roccaforte della Ltte riportata sotto il controllo governativo due anni prima, vi fu un’affluenza scarsissima: 17%. Vinse una donna, Sarojini Yogeswaran, del Tulf (Tamil United Liberation Front). Poco dopo, veniva uccisa dalle Tigri e stessa sorte toccava al sindaco della città. Le campagne elettorali sono sempre state accompagnate da violenze, malcostume, incidenti.
Intanto, il governo ha proseguito la politica di privatizzazione, cedendo agli stranieri anche la Telekom e le linee aeree Airlanka, nonostante le opposizioni della sinistra.
Oggi va segnalato l’impegno di mediazione del governo norvegese, che dal 2000 si è dichiarato disponibile a facilitare le trattative coi tamil.
una donna per la pace
Chandrika Bandaranaike Kumaratunga, presidente dello Sri Lanka, appartiene a una famiglia che ha segnato la vita politica del suo paese. La madre si è ritirata dopo le elezioni del ’99, a 84 anni, dalla carica di capo del governo.
Alla guida del Pa (People Alliance), fu eletta per la prima volta nel 1994, riconfermata nel ’99, con l’obiettivo di impegnarsi per pacificare il paese, da molti anni dilaniato dalla guerra civile. Il progetto di dare autonomia alle 9 province doveva alleggerire la tensione delle regioni del nord, abitate da tamil e teatro della guerra civile; ma non poté essere realizzato per l’ostilità sia del partito di opposizione Unp (United National Party), che dell’influente clero buddista. Il governo stava per indire un referendum popolare per ottenere la modifica costituzionale, quando la Ltte, partito dei ribelli tamil, fece esplodere un’autobomba a Kandy.
L’attentato ebbe luogo nel tempio più sacro del buddismo, che racchiude una preziosa reliquia del Budda. L’oltraggio portò tensione nel paese, irrigidimento del governo e stallo nel processo che doveva condurre alla pace…

Claudia Caramanti




ETIOPIA – Un pozzo di speranza

Oltre 1.500 kmq di superficie (pari alla provincia
di Savona), quasi 400 mila persone, zero strutture stradali, sanitarie e scolastiche, tanta fame e malattie endemiche… sono le sfide della nuova parrocchia
di Ropi-Kachachullo, figlia di Shashemane.

«Sono stato io il primo a mettere piede in quella zona, 25 anni fa» afferma sorridendo padre Silvio Sordella, rivendicando la pateità della nuova missione che padre Paolo Marré e fratel Domenico Brusa stanno costruendo a Ropi e Kachachullo, la zona più periferica della parrocchia di Shashemane, in cui padre Silvio svolse le sue prime esperienze missionarie e dove è ritornato come parroco.
Oggi Shashemane conta una scuola per più di 2 mila alunni e un’altra per 120 ciechi, un grande dispensario, un asilo per 600 bambini, un villaggio per ex lebbrosi, una casa per ragazzi di strada, varie attività di promozione umana e della donna, oltre a quattro comunità ben sviluppate, tra cui Alaba che ha un asilo con un centinaio di frequenze e che farà parte della nuova missione. I tre missionari sono coadiuvati dalla presenza di tre famiglie religiose.
Date le urgenze degli inizi, i missionari della Consolata hanno concentrato i loro sforzi in città e d’intorni, senza dimenticare quella parte periferica, con visite sporadiche, costruzione di una cappella a Kachachullo, attività di evangelizzazione mediante i catechisti. Ma per uno sviluppo più intenso si attendevano tempi migliori. E sono arrivati, insieme a padre Paolo.
Veramente, l’avvio della nuova missione è stato provocato da «tempi peggiori». Due anni di siccità hanno messo a rischio l’esistenza della popolazione della zona e i missionari non hanno potuto più procrastinare la loro presenza.

SOTTO LA CROSTA
Il territorio della nuova missione si estende per 100 km di lunghezza e 60 di larghezza nella Rift Valley, su un altopiano tra i 1.600-1.800 metri di altitudine. È una zona vulcanica: uno strato di terreno sabbioso sopra una distesa di pietra pomice, la cui fertilità dipende dal ritmo delle piogge. Prima della carestia c’erano 400 mila persone, ora sono scese a 300 mila: molti sono morti, altri hanno cercato futuro altrove.
Nel maggio 2003, quando visitai Kachachullo, la pioggia era appena caduta; sembrava un paradiso: prati verdi, granturco appena spuntato, due laghetti che parevano pezzi di cielo incastonati in terra come perle.
Ma poi, guardando da vicino, si scopriva una tragica realtà: strade divorate dell’erosione; donne e asini carichi di taniche per attingere acqua chi sa dove, scheletri di animali abbandonati lungo i sentirneri, fame stampata sul viso dei bambini.
La scena si fa ancora più penosa quando arriviamo a Kachachullo: la cappella è pericolante; un migliaio di uomini, donne e bambini attendono il missionario per la celebrazione della messa e per discutere sulla situazione. I vari capifamiglia ripetono la stessa litania: gli animali sono morti; le mucche ancora vive non danno latte o sono tubercolose; il governo ha fatto tante promesse, ma non le ha mantenute.
Padre Paolo assicura che a metà settimana inizierà la distribuzione degli aiuti alimentari in vari centri, con la presenza di due suore di Madre Teresa.
«La carestia ha già fatto migliaia di vittime – spiega padre Paolo -; almeno 100 mila sono a rischio. Il governo ha promesso foiture di granturco, ma ne è arrivato pochissimo, sia perché i camion non si azzardano in queste strade, sia perché questa gente al governo non interessa».
La zona di Kachachullo si trova alla periferia della regione amministrativa dell’Oromia, la popolazione è in prevalenza formata da adia, kambatta, wollaita e altri gruppi etnici, emarginati dalla maggioranza oromo che governa la regione.
La zona di Kachachullo è nella provincia di Siraro; ma il capoluogo, Agge, è distante anni luce da questa gente. «Si prevede la creazione di una nuova provincia, con Ropi capoluogo; ma la divisione non è ancora fattibile, perché non esiste un numero sufficiente di persone che sappiano leggere e scrivere, capaci di ricoprire le cariche amministrative» spiega ancora padre Paolo.

ZERO PIÙ ZERO
«La stagione è promettente, ma l’emergenza durerà almeno altri quattro o cinque mesi, quando saranno mature le prime pannocchie di granturco. Passerà la fame, ma rimangono altri problemi» continua padre Paolo.
Il conto dei problemi è presto fatto. Elettricità zero: la linea elettrica più vicina passa a 40 km di distanza. Strade asfaltate o in terra battuta zero: a ogni temporale, le piste diventano torrenti, scavando buche ad altezza d’uomo. Sanità quasi zero: un medico e 4 infermiere non specializzate per tutta la provincia, con un poliambulatorio ad Agge e tre piccoli dispensari serviti saltuariamente. Ci sono 19 scuole, delle quali 10 arrivano alla terza elementare, 9 all’ottava classe, quando la scuola dell’obbligo in Etiopia ne prevede dieci. Nessuna meraviglia (si fa per dire) se il tasso di analfabetismo della parrocchia è del 90%.
«Ma il problema più grave è l’approvvigionamento idrico» spiega padre Paolo, mentre mi porta a vedere il fiume Billate. L’acqua è abbondante, ma così melmosa che perfino gli animali sembrano schifarla. «Eppure tanta gente fa 8 ore di cammino per attingere questa porcheria e altrettante per tornare a casa – continua il missionario -. In tutta la zona esiste un solo pozzo in funzione, a Ropi, e fornisce una media di 2 litri al giorno per persona ai quasi 30 mila abitanti; mentre sulla zona ne gravitano 100 mila. C’era un pozzo a Sambaté, ma la pompa è bruciata per il sovraccarico».
E quelle due perle di laghetti? «Sono belli da fotografare – spiega padre Paolo -. Dalle analisi risulta che l’acqua ha un elevato tasso di alcalinità (pH 10.1), di fluoro, zolfo e altre sostanze che la rendono dannosa persino per gli animali».
Un rudimentale sistema di approvvigionamento è quello di scavare grandi buche ai bordi della strada, per convogliarvi l’acqua durante la stagione delle piogge. Dove rimane più a lungo, l’acqua imputridisce in fretta, essendo utilizzata da uomini e bestiame, e diventa fonte di malaria, poiché favorisce la proliferazione di zanzare e relative epidemie di malaria.

CASSETTO… APERTO
L’emergenza del 2003 ha messo a nudo le necessità della nuova missione, soprattutto l’impossibilità di una gestione «a distanza». Padre Paolo e fratel Domenico, infatti, risiedono a Shashemane e impiegano 3 ore di andata e altrettante di ritorno per raggiungere Kachachullo.
Le suore di Madre Teresa, che hanno curato la distribuzione degli aiuti alimentari, si sono sistemate nella chiesa di Ropi, facendo tui di 15 giorni: sono tornate a casa regolarmente malate. Il medico che lavorava con le suore è morto di malaria cerebrale.
I missionari hanno cominciato a stilare programmi concreti, secondo priorità immediate, progetti a breve e lungo termine. La costruzione di una casa per i missionari è una priorità assoluta, per vivere tra la gente, capire i veri problemi, rispondere alle loro esigenze, seguire da vicino i programmi di sviluppo e di eventuali emergenze, che si ripeteranno.
Il primo sogno è già fuori del cassetto: come sede della missione è stata scelta Ropi, sia perché è al centro del territorio, sia perché dovrebbe diventare il capoluogo della nuova provincia. Sul terreno, acquistato un paio di anni fa, sta sorgendo la nuova abitazione.
Kachachullo, invece, rimarrà come il luogo «storico» della missione: avrà la chiesa più grande, dal momento che su di essa gravitano quasi 3 mila persone. Un grande mucchio di pietre, accatastate attorno alla cappella sgangherata, aspetta solo il via per diventare casa di Dio e della comunità.
Tra le priorità c’è pure la perforazione di due pozzi, uno a Ropi, dove si prevede di trovare acqua a oltre 270 metri di profondità; l’altro a Kachachullo, vicino al fiume Billate, nella speranza che le falde acquifere non siano troppo profonde. Da qui, l’acqua sarà pompata, per 3 km, vicino alla chiesa, scuole e dispensario.
Tra i progetti a breve termine di Kachachullo, infatti, figura la costruzione di un dispensario e una scuola per 2 mila alunni e relative case per i maestri. È questa la zona più periferica e ufficialmente trascurata, infestata da malaria, tifo, tubercolosi, tracoma e altri malanni tropicali. La chiesa cattolica vi ha aperto una scuoletta e un ambulatorio, ma è poco più di zero: delle tre aule scolastiche, una è crollata, insieme al piccolo dispensario.
Anche nelle varie comunità sono in cantiere la costruzione di strutture più solide, per ora nella forma tradizionale: legno ricoperto di fango e paglia. In quasi tutti questi centri è stato comperato il terreno per la cappella, scuola, servizi igienici e cimitero. Quest’ultimo fa parte essenziale dell’identità di una comunità che si rispetti.
E poi ci sono progetti a lungo termine: un asilo a Ropi, pozzi ad Alemtena e Basa, grondaie e cistee in tutti i centri, per raccogliere l’acqua piovana, quando il ciel la manda. «Pensiamo di intervenire in campo agricolo – continua padre Paolo -, con la creazione di cornoperative agricole, piccoli sistemi di irrigazione, diversificazione delle colture, costruzione di silos per conservare il granturco, sia per fare fronte ai periodi di vacche magre, sia per venderlo quando il prezzo è più conveniente e avee una riserva per il momento della semina, quando i prezzi salgono alle stelle».

LA MESSE È MOLTA…
Nonostante il cumulo di sfide ed emergenze, prosegue il lavoro specificatamente religioso. La nuova missione comprende una decina di piccole comunità di base, che continuano a crescere, nonostante la carenza di strutture adeguate. La cappella di Kachachullo è in rovina; Sinta, Shirko, Damine hanno cappelle di legno e fango; Alemtena e Sambaté case in affitto; altre comunità si radunano sotto gli alberi o, quando piove, in case private. Solo la chiesetta di Ropi sembra in forma: i muri di legno e fango sono ricoperti da intonaco in cemento.
Le comunità più consistenti hanno la messa ogni 15 giorni, le altre ogni due o tre mesi. Tutte, però, si radunano ogni settimana, sotto la guida di catechisti (5 a tempo pieno e una trentina volontari) per pregare, ascoltare la parola di Dio, istruzione catechetica, preparazione dei catecumeni, sensibilizzazione sociale.
Nei giorni feriali le cappelle diventano aule scolastiche, dove una quindicina di maestri a tempo pieno e altrettanti part-time insegnano ai più piccoli a leggere e scrivere.
«Una quindicina di altri posti hanno chiesto la nostra presenza – racconta padre Paolo -. Abbiamo ricevuto petizioni firmate da 100 capifamiglia. Calcolando che ogni nucleo familiare è composto da una decina di persone… fai tu il conto. Ci dispiace non poter rispondere a tali richieste. In alcuni luoghi mandiamo i catechisti, almeno una volta al mese, per preparare il terreno e avviare il catecumenato. Appena ci saremo stabiliti a Ropi e avremo più personale potremo dissodare anche quei campi».
La gente nutre profonda simpatia per la chiesa cattolica. Adia, kambatta e altre etnie minori non vogliono avere nulla da spartire con l’islam, simbolo di oppressione ed emarginazione secolari, protratte fino ai nostri giorni. Per questo tali gruppi etnici vedono nel cristianesimo un’occasione di liberazione e distinzione dagli oromo, in maggioranza musulmani, e di affermazione della propria identità.
«Nella spinta alla conversione giocano anche motivi razziali – spiega padre Paolo -. Da parte nostra insistiamo sulla convivenza pacifica e solidale con tutti. “Come facciamo a considerarli fratelli, quando ci hanno ammazzato fino a ieri?”, ci dicono. Anche alcuni musulmani vogliono diventare cristiani; ma facciamo un discorso molto chiaro: se volete entrare nella chiesa per ricevere più aiuti, lasciate perdere, perché noi aiutiamo tutti, cristiani e musulmani».
Anche se tutti vorrebbero ricevere il battesimo, il cammino è lungo e la selezione rigorosa: il catecumenato dura 4 anni e i candidati devono dare segni evidenti di sincerità, inserendosi concretamente nelle varie attività sociali delle rispettive comunità.
«Ogni anno abbiamo centinaia di nuovi battezzati – conclude padre Paolo -. La mietitura si prospetta abbondante e preghiamo il Padrone della messe di mandare più operai».

Benedetto Bellesi




“Il futuro che ci sfida”

Un osservatorio socio-pastorale per leggere
i segni dei tempi in America Latina.
Intervista a Rodrigo Guerra López,
cornordinatore di questa nuova realtà del CELAM (Consiglio episcopale latinoamericano).

Dal 13 al 15 febbraio scorso, si è tenuta nella città di Puebla la riunione dei direttivi e presidenti delle Conferenze episcopali dell’America Latina. Durante l’incontro, ricordando il 25° anniversario di Puebla, sono cominciati i preparativi per la realizzazione di una riunione straordinaria dei vescovi dell’America Latina e del Caribe.
Ecco, allora, un’intervista a Rodrigo Guerra López, cornordinatore dell’appena nato «Osservatorio» socio-pastorale del Celam.

Che significa il documento di Puebla, a 25 anni dalla pubblicazione?
Più che un documento, Puebla è stato un kairós, ossia un momento nella storia, in cui la Provvidenza divina si è manifestata e segna la comunità ecclesiale. Certo, Puebla è un testo. Ma la realtà da cui nasce e alla quale esso si riferisce è la vita concreta della chiesa, di fine anni settanta. Puebla esprime il modo con cui il popolo di Dio cammina nella storia e affronta sfide non sempre facili nel momento di testimoniare che Gesù Cristo è vivo.

Com’è cambiato il contesto della chiesa in America Latina in questi 25 anni?

Da una parte, un insieme di sfide fondamentali si sono acutizzate: povertà, indifferenza, attività di vari gruppi religiosi distinti dalla chiesa cattolica, mancanza di solidità delle nostre democrazie, ecc. Dall’altra parte, esiste un cambiamento culturale sottile, ma profondo: la modeità illuminata abbandona la sua antica egemonia per lasciar posto a una certa postmodeità latinoamericana. Entro queste cornordinate, la chiesa cattolica deve ritornare a leggere i «segni dei tempi», per poter scoprire quanto Dio chiede in questo nuovo scenario di massima pluralità, ibridazione e frammentarietà.

Questa potrebbe essere la «scusa» per pensare a un nuovo evento ecclesiale, come quello di Puebla?

Sì e no. Certamente un nuovo contesto esige uno sforzo di attualizzare la comprensione. Tuttavia, al di là di un certo aggioamento, è la vita della stessa chiesa che esige momenti forti di riflessione e preghiera per riproporre l’essenziale e rinnovare la conversione, comunione e solidarietà. Orbene, il cardinale Errázuriz, arcivescovo di Santiago del Cile e presidente del Celam (cfr. box: ndr) è stato molto chiaro nell’insistere sul fatto che il processo iniziato è appena un primo passo verso il momento formale in cui il papa possa eventualmente convocare, come in altre occasioni, una quinta assemblea generale, un sinodo o qualche altra forma di riunione.

Quali sono stati gli interventi più importanti, durante questi giorni di lavoro?

Da un punto di vista personale, mi hanno molto interessato gli interventi di mons. Jorge Jiménez e del card. Claudio Hummes, nel primo giorno. Ciascuno, con il proprio linguaggio, ha presentato gli elementi che configurano l’attuale momento della chiesa e dell’America Latina. Da una parte, dobbiamo proseguire un cammino. Medellín, Puebla e Santo Domingo non devono restarci indifferenti. Dall’altra, la globalizzazione esige oggi una nuova maniera di comunicare, che renda più evidente l’apporto specifico dei cristiani. L’identità cristiana deve rafforzarsi, tramite un rinnovato processo educativo. Nel momento accademico di commemorazione dei 25 anni di Puebla, la conferenza tenuta dal card. Darío Castrillón Hoyos è stata sommamente chiarificatrice: la dignità umana è una dimensione costitutiva della persona. Questo ingrediente è anche un elemento del vangelo. In tal modo, noi cristiani non possiamo che metterci al servizio della dignità umana perché, di fatto, la gloria di Dio è che l’uomo viva e viva in condizioni che siano all’altezza del suo valore intrinseco.

Non c’è rischio di prestare troppa attenzione al nuovo contesto, alla dignità umana e suoi diritti, ai progetti di azione sociale e perdere di vista la dimensione trascendente del cristianesimo?

In effetti, uno dei pericoli che attraversa la fede, oggi, è quello di perdere la sua specificità in una proposta di azione volontaristica, che pretenda di costruire il regno tramite un semplice programma di azione sociale (di destra o di sinistra). Tale approssimazione risponde essenzialmente all’antica eresia pelagiana.
Ma, nello stesso tempo, esiste anche un altro pericolo: la posizione di quanti ritengono la fede quale convinzione spiritualistica e al margine di una adeguata incidenza storico-sociale. Tale idea si avvicina molto all’eresia docetista: credere che la condizione incarnata del Verbo sia una finzione, una mera metafora. Il mistero dell’incarnazione, nucleo della nostra fede, si propone esattamente come qualcosa di diverso: Dio si è fatto uomo. Tutto ciò che è umano dev’essere assunto e redento in Cristo. Quando non si perde la dimensione d’incarnazione della fede, si vive in una continua tensione tra natura e grazia, in cui, come sottolinea il card. Errázuriz, il primato spetta sempre alla grazia. L’analisi dei contesti, la valorizzazione della dignità umana e dei diritti, l’azione fanno parte dell’itinerario che la chiesa deve compiere, conscia che la proposta del vangelo non si esaurisce certo in essi, ma che li supera senza negarli.

Toerà ad acquistare vigore nella chiesa latinoamericana l’opzione preferenziale per i poveri?

L’opzione preferenziale per i poveri è una dimensione costitutiva della nostra fede. Non ha mai cessato di esistere. Recentemente, Giovanni Paolo ii, nella Novo millennio ineunte, ci ha ribadito che le pagine del vangelo dove Gesù mostra il suo amore preferenziale ai poveri non sono un semplice richiamo alla carità, bensì un aspetto fondamentale della cristologia. Ancora di più: il papa afferma che, nel vivere il contenuto di queste pagine, la chiesa dimostra la sua fedeltà non meno che a livello di ortodossia.

Il nuovo «Osservatorio» del Celam avrà di mira lo studio della povertà nel continente?

Le nuove povertà in America Latina sono talmente estese che sarebbe irresponsabile e antievangelico restare indifferenti, come se non significassero nulla alla luce della fede. L’«Osservatorio» cercherà di offrire ai vescovi del materiale, che permetta loro di ampliare la visione della povertà e di molti altri fenomeni sociali, caratteristici della realtà che stiamo vivendo.

Cosa ha spinto i vescovi a creare un «Osservatorio» in seno al Celam?

Potrebbe sembrare che i vescovi stiano semplicemente costruendo un think tank. Tuttavia, mons. Carlos Aguiar, primo vicepresidente del Celam e vescovo responsabile dell’«Osservatorio», ha posto al centro della prospettiva di tale istituzione di essere un servizio anzitutto ecclesiale, cioè, con piena coscienza della natura della chiesa e delle sue preoccupazioni propriamente pastorali.
In certa qual misura l’«Osservatorio» nasce dalla vita ordinaria del Celam, specialmente dai processi già in atto nel Dipartimento di giustizia e solidarietà, diretto dal card. Oscar Rodríguez Maradiaga. Da tempo, egli ha cercato di conoscere con grande competenza la realtà sociale del continente e del mondo e, con il suo esempio, ci ha indicato l’importanza di riprendere a guardare e servire Cristo in mezzo alle sfide concrete della storia dei nostri popoli.
Zenit

Agenzia Zenit




Storie tristi a lieto fine

In my Father’s House (Nella casa del Padre mio) è una città dei ragazzi di Abor (Ghana). Nata per iniziativa del comboniano padre Peppino Rabbiosi, ospita 83 orfani dai 4 ai 17 anni, di ambo i sessi.

Nei due mesi di permanenza ad Abor, nel sud-est del Ghana, ai confini col Togo, sono stato obbligato dalle necessità a farmi carico dell’aspetto sanitario, pur non essendo medico: somministrazione di medicinali, medicazioni di ferite più o meno infette, fasciature, ecc., fra malati veri o… immaginari, desiderosi solo di un poco di attenzione. Così ho potuto entrare maggiormente in contatto con i ragazzi accolti In my Father’s House e guadagnae la fiducia.

FRANCIS E IL MOSTRO INSAZIABILE
– Pensi che dopo potrò giocare a pallone?
– Perché no?
Cosa si può rispondere a una domanda, così diretta, di un ragazzo che ti stringe come una morsa e si appiattisce sul tuo torace quasi voglia penetrarvi? Un ragazzo che sta entrando in sala operatoria, per un intervento dall’esito non scontato. La sua gamba sinistra è a forte rischio. Per tutti era e resta da amputare. Ma un chirurgo tedesco, in Ghana da una vita, forse può fare il miracolo. Forse riesce a salvarla.
Francis ha 16 anni; ma ne dimostra una dozzina scarsa. Il suo corpo è deformato e dilaniato da osternomielite spongiforme. Malnutrizione e carenze igieniche hanno ulteriormente aggravato la situazione.
Due occhi dolcissimi da gazzella, in cui si legge il terrore per ciò che potrebbe succedere oltre quella porta. Il terrore di essere di nuovo abbandonato, perché non utile alla comunità. Perché impossibilitato a lavorare come tutti gli altri. Il terrore che possa essere scaricato anche da quel padre che una «Mano» guidò un giorno nel suo villaggio e lo raccolse. Raccolse un povero mucchietto di ossa, corrose da un mostro insaziabile, ma alimentate da una forte volontà di vivere. Nonostante tutto e tutti.
Facendo leva su questa forza l’ho convinto a provarci. Ha fiducia in me. Quella «Mano» che un giorno guidò il missionario, forse ha aiutato anche me a trovare le parole giuste. Gli prometto di restare qui. Di aspettarlo e stargli vicino, anche se lui sarà addormentato. E quando, dopo alcune ore, la porta si apre e spunta il lettino, i miei occhi cercano immediatamente i piedi: «Grazie!».
Un pensiero al Grande Artefice, mentre gli occhi, velati di lacrime, sono fissi sui due piedi: sì, ci sono tutti e due.
Esce l’assistente, una dottoressa tedesca dalla imponente stazza, con un sorriso a tutta bocca. Mi conferma il buon risultato. Il chirurgo ha potuto fare un buon lavoro di ricostruzione dell’arto.
Dopo una ventina di giorni lo riporto a casa, In my Father’s House.
E l’ultimo, interminabile abbraccio prima di partire è per lui. Come gli avevo promesso.
Daniel, il giovane poeta
«Perché mi avete messo al mondo se poi mi dovevate abbandonare così presto? È dura la vita per un bambino se nessuno l’aiuta, se nessuno gli dice come fare…».
Questo atto d’accusa nei confronti dei genitori, colpevoli di averlo lasciato solo nei primi anni di vita (morti entrambi per malattia) è la sintesi di una lunga poesia, scritta da Daniel, quando aveva 12 anni. Recitata con l’angoscia nel cuore, gli è valsa un importante riconoscimento in un concorso di poesia tra gli studenti del Ghana.
Sì, Daniel, che ha appena compiuto 14 anni, scrive poesie. In ewe, la lingua della sua etnia. A una di queste la stampa locale ha dato importante spazio: esorta i giovani a essere fieri della propria africanità; a non fuggire in America o in Europa; a non ripudiare le loro radici e tradizioni per inseguie altre che non saranno mai assimilate. Cose sconvolgenti se dette da un ragazzino che ha sempre vissuto in poveri villaggi sulle rive del fiume Volta.
A 10 anni Daniel non sapeva ancora scrivere. Non era mai entrato in una scuola, benché lo volesse con tutte le sue forze. Per il parente (ammesso che lo fosse) a cui era stato ceduto, era un lusso che non si poteva permettere. Un’inutile perdita di tempo. Non era per gente come lui.
Solo lavorando duro poteva sperare in qualcosa da mangiare. Il lavoro era davvero duro: già a 7-8 anni Daniel s’immergeva, prima che facesse chiaro, nelle acque del fiume e poi andava nei mercati, con una cesta sulla testa, a rivendere il pescato. Sovente, se i frutti non erano soddisfacenti, severe punizioni condivano o sostituivano il poco cibo.
Ma curiosità e fame di sapere (non inferiore a quella del suo stomaco) non potevano passare inosservati. Le voci che riguardavano questo ragazzino, dai modi così educati, arrivarono anche al villaggio della vecchia nonna, a una trentina di chilometri. Nonostante gli acciacchi che le impedivano di muoversi normalmente, non esitò ad andarselo a riprendere, una volta appurato che si trattava del nipote.
Il direttore della locale scuola si interessò personalmente della sua istruzione. «Era sempre pronto a ricevere più di quanto gli riuscissi a dare. E le garantisco che non era poco» mi confidò quando lo andai a trovare.
Un giorno, quasi per caso, si accorse delle poesie che Daniel cominciava a scrivere. Lo incoraggiò. Lo designò come rappresentante della scuola alle varie selezioni, che Daniel superò senza problemi, di quel concorso per giovani poeti e musicisti. Nella giornata finale, 64 distretti scolastici erano rappresentati. Centinaia di persone lo hanno applaudito… e pianto con lui.
Ora, con 82 bambini che hanno alle spalle storie tristi come la sua, è In my Father’s House. Ha la fortuna di poter frequentare regolarmente la scuola e ha recuperato il tempo perduto. Daniel vuole diventare dottore. È conscio che sarà dura, ma promette di mettercela tutta:
«Anche se l’università mi porterà lontano, toerò nel mio villaggio. Troppi bambini hanno bisogno di cure e non se le possono permettere…».
Lo guardo; non riesco a credere che, dietro quegli occhi sinceri, ci sia solo un ragazzino di 14 anni, compiuti da pochi giorni.

SELASI E L’ATAVICA RASSEGNAZIONE
«Thank you» (grazie). Che dolce suono. È solo una parola pronunciata quasi sottovoce, ma ha lo stesso impatto di un concerto di campane.
«Thank you». È la prima parola che gli sento pronunciare da quando sono arrivato In my Father’s House. Una decina di giorni. E ne ho passate di ore accanto al suo letto.
«Thank you». Quasi non ci credo, mentre lo guardo negli occhi e vi scorgo finalmente un poco di luce.
L’ho aiutato a sedere nel letto e sto iniziando a imboccarlo. La febbre è calata; se si riesce ad alimentare normalmente, eliminiamo alcune flebo.
Selasi si sta riprendendo piano piano da un bruttissimo attacco malarico, con febbre sempre molto alta. Una sorta di foruncolosi, diffusa su tutto il corpo e diagnosticata inizialmente come varicella, ha ulteriormente aggravato la situazione.
Ha 12 anni Selasi; ma nel letto che gli abbiamo approntato accanto alla nostra camera per tenerlo maggiormente sotto controllo e per non correre rischi di contagio, sembra ancora più minuto di quanto sia in realtà.
«Ma allora non sei muto. Ce l’hai la voce» gli dico sorridendo.
Quante volte l’avevo esortato, anche in modo brusco, per farlo reagire: «Non pretendo che tu sorrida. Non ne avresti motivo. Ma fai qualcosa. Rispondimi anche male, se credi, ma parla. Dì qualcosa».
Il suo volto non cambiava espressione: una maschera senza vita. I suoi occhi, pur aperti, erano un monitor spento: non trasmettevano alcunché. Accettava passivamente ogni sorta di tortura, flebo o iniezioni che fossero. Come un automa ingurgitava decine di compresse. Inerte come un manichino, mentre lo imbiancavo da capo a piedi con un ributtante liquido dermatologico. Senza alcun gesto d’insofferenza si lasciava lavare prima di questa operazione.
Questa accettazione passiva di una grave malattia e la rassegnazione di fronte alle conseguenze più tragiche mi sconvolgeva. Quante volte è stata descritta l’atavica rassegnazione dei meno fortunati, quando aleggia minaccioso lo spettro di chi li vuole traghettare in un’altra vita. È capitato anche a me di vederla in India e in Mali. Pur essendo pugni nello stomaco, si trattava di persone che non conoscevo, con cui non avevo contatti diretti. Ma non riuscivo ad accettarla in questo dodicenne; descritto come pieno di vita e fanatico del pallone.
«Thank you». È solo una parola, ma intuisco che è l’inizio del suo risveglio, della sua riscossa. E infatti scompare la febbre e scompaiono… i biscotti che continuamente gli lascio sul tavolino.
«Thank you». Mentre sfebbrato, ma ancora debole, guarda il mare, dove i suoi compagni si stanno spruzzando e spintonando.
«Thank you». Mentre sudato e visibilmente soddisfatto, prende dalle mie mani il pallone che era uscito nei pressi.
«Thank you». Mentre una sera mi si viene a sedere vicino, sui gradini della chiesetta, dove stavo meditando sulla straordinaria esperienza che stavo vivendo: appoggia la testa sulle mie gambe e si addormenta.

L’ERNIA DI EMMANUEL
«Questo bimbo deve essere operato. Se si fa ora, a questa età, la cosa si risolve facilmente». G., il medico trentino che mi ha accompagnato nei primi giorni ad Abor, guarda l’eia ombelicale di Emmanuel, un bimbo di 4 anni, con occhi sempre luminosi come fari da stadio.
No problem. Le uniche obiezioni potrebbero forse venire dall’interessato, ma nessuno chiede il suo parere. L’intervento riesce perfettamente. Il chirurgo è soddisfatto. Molto meno Emmanuel quando, diminuiti gli effetti anestetici, comincia ad avvertire dolori che prima non sentiva. Quando vede sul suo ventre grossi cerotti che prima non aveva.
Odierà il nostro gruppetto, dottor G. compreso, per alcuni giorni. Odierà anche me, per le visite di controllo che lo porto successivamente a fare e per le medicazioni che gli devo praticare.
Ma una volta spariti i cerotti, sarà molto attivo nel contendere le mie ginocchia (sedile privilegiato) ai suoi coetanei Daniel e Cristopher.
Accanto alla macchina che mi conduce in aeroporto, mi prende un braccio, si scopre l’ombelico alzando la maglietta e, in un misto di inglese/ewe che risulta ben comprensibile: «Se non vai via, puoi mettere ancora medicine qui. Ti prometto che non piango più».
Ora possono SOGNARE
Quante storie. Tutte diverse, ma con denominatori comuni: tristezza, sofferenza, abbandono.
Bambini abbandonati perché orfani; perché la madre, con compagni spesso diversi, non poteva prendersi cura di loro. Trascurati perché, a causa di malformazioni, non erano in grado di garantire aiuto, perché mostri insaziabili divoravano loro le ossa o perché, a causa della malnutrizione, il loro ventre era gonfio come un pallone.
Bambini in tenerissima età, coetanei di quelli che da noi vengono accompagnati fino al portone della scuola, costretti ogni giorno a inventarsi come fare per sopravvivere. Il che non significa solo procurarsi qualcosa per tacitare i tormentosi morsi della fame.
Bambini che, tuttavia, hanno avuto il colpo di fortuna (mi sia consentita questa grottesca espressione, date le tragedie che li hanno visti protagonisti). Sì, ripeto, bambini fortunati, perché, fra migliaia e migliaia di altri come loro, sono stati sorteggiati. Hanno vinto una lotteria ben più importante di quelle che imperversano nel mondo, creando illusioni fra la povera gente. Hanno trovato qualcuno sulla loro strada che li ha raccolti e accompagnati In my Father’s House, dove ora possono mangiare regolarmente, dormire al coperto, lavarsi con acqua corrente, frequentare la scuola.
Possono sognare di diventare missionari, agronomi, dottori, informatici, chimici, autisti, meccanici, infermieri. Gioo dopo giorno imparano che in questo mondo c’è posto anche per loro e possono giocarvi un ruolo da protagonista.
Bambini e Generosità
Tra le tante cose che amo dell’Africa, c’è che nessuno fa caso alle… padelle che hai su maglietta e pantaloni. Se poi vivi fra bambini, diventano come i marchi inevitabili.
Entri nel refettorio con maglietta e pantaloncini freschi di bucato (cioè lavati alla benemeglio) e decine di mani unte di fufu (polentina tipica ghanese) sono pronte a lasciare affettuosamente le loro indelebili impronte.
Quelle mani ti sfiorano, ti accarezzano, reclamano attenzione; si alzano per offrirti un pesciolino, un pezzetto di carne, un morso di banana, togliendoli da razioni mai sufficienti per la fame arretrata: sono tutti abbondantemente sottopeso per la carente e inadeguata alimentazione prima di entrare In my Father’s House.
E tutto ciò ti commuove perché t’accorgi che non è solo un gesto di cortesia. Devi sfoderare tutta la diplomazia di cui disponi per rifiutare. Se lo accetti da uno, lo devi accettare da tutti. E sono 83. Allora sorridi, accarezzi la testa, baci una fronte e, quando non è sufficiente, ti inventi un mal di pancia.
Quando poi, prima di coricarti, ti sfili la maglietta, la guardi con simpatia, quasi fosse un’opera d’arte modea, realizzata appositamente per te.
Bambini e devozione
Alzi la mano chi, da bambino, ha sempre partecipato con entusiasmo al rosario che, almeno ai miei tempi, quotidianamente veniva recitato in famiglia o in chiesa. Chi non posava spesso gli occhi su quei grani che sembravano scorrere così lenti?
Nella Casa del Padre mio è adottato un sistema simpatico per tenere sempre attiva la partecipazione, soprattutto fra i più piccoli: un’Ave Maria a testa. Chi non ha la coroncina conta le teste di chi lo precede per capire se a lui capiterà un’Ave o il Gloria. Ma, ad onor del vero, va detto che anche le risposte dimostrano che è una pratica sentita, senza insofferenza.
La partecipazione è ancora più sentita quando si intonano i canti; quando le percussioni segnano il ritmo e a decine si può uscire dai banchi e, danzando, dare libero sfogo alla innata musicalità. I ritoelli sono continuamente alimentati e riproposti, rendendo i canti interminabili.
Si può pregare in tanti modi, anche cantando e danzando. Guardando loro, capisci che, al di là delle parole, questo è il loro modo più bello per rivolgersi all’Altissimo.

Mario Beltrani




ANNIVERSARI”E adesso, su ancora le maniche!”

20 GIUGNO: LA CONSOLATA
due centenari significativi nel santuario di Torino

Narra la tradizione: nell’anno 1104 un cieco parte da Briançon,
raggiunge la chiesa di S. Andrea di Torino, trova sotto le macerie di una cappella
l’immagine della Madonna Consolata e riacquista la vista…
Oggi il santuario della Consolata di Torino celebra il 9° centenario di quell’evento.
Il santuario celebra pure un altro centenario: quello del 1904,
allorché Giuseppe Allamano gli diede spazio, aria, vita. Anche in Africa.

Il centenario 1904 – 2004
Durante il Congresso mariano, svoltosi a Torino nel 1898, maturò in Giuseppe Allamano, già rettore del santuario della Consolata, l’idea di fondare una rivista per aggioare i fedeli su quanto si svolgeva al santuario (ndr: la rivista iniziò nel 1899 e si chiamò La Consolata, per divenire nel 1928 Missioni Consolata).
Un altro motivo suggeriva la nascita della rivista. Si era prossimi alle celebrazioni dell’8° centenario del ritrovamento dell’icona della Consolata (1104-1904). L’Allamano e il suo collaboratore, Giacomo Camisassa, intendevano giungervi con un santuario completamente rinnovato, ma soprattutto ampliato. La popolazione doveva essere coinvolta in questa grandiosa impresa, anche molto dispendiosa.
I lavori, iniziati nel 1889 e terminati nel 1904, erano necessari: non solo perché l’interno del santuario era in uno stato pietoso (pavimento dissestato, pareti affumicate e sgretolate), ma soprattutto perché risultava troppo piccolo. L’antifona che l’Allamano si sentiva continuamente ripetere era: «Occorre maggior spazio. La gente si pigia all’inverosimile…».
Il rettore fece scrivere che il santuario, così com’era, poteva andare bene nel 600, quando Torino contava una popolazione inferiore di un sesto dell’attuale. Diceva: «Bisogna trovarsi al santuario nei giorni di festa, o anche solo un sabato qualsiasi, per avvertire tutti gli inconvenienti di questa deficienza di spazio e la mancanza d’aria, insufficiente non solo nelle grandi circostanze, ma anche nelle funzioni ordinarie».
A dare prestigio ed interesse alla nuova rivista contribuì non poco la fondazione, nel 1901, dei missionari della Consolata per l’Africa. La gente avvertì subito che, in tal modo, il santuario apriva porte e finestre. In breve tempo gli abbonati a La Consolata raggiunsero il numero di 19 mila.
Anche gli aderenti alla Compagnia della Consolata (nata nel 1522), riformata in senso popolare dall’Allamano, raggiunse in poco tempo centinaia di migliaia di iscritti. Così le comunioni eucaristiche nel santuario: 97.820 nel 1881, salirono nel 1890 a 127.980.
Con queste iniziative avvenne che, attorno al santuario, ancora prima della fondazione dell’Istituto missionario, gravitasse già un «mare di gente», come scrisse nel 1990 don Dario Berruto, rettore del santuario. Anzi, è per l’esistenza di questo «mare di gente» che, accanto al santuario, poté nascere l’Istituto missionario.
Il tutto con calma, senza strafare, senza esorbitare nella richiesta di denaro. Però l’impronta era quella descritta in modo suggestivo da un cugino francescano dell’Allamano, il quale, in una visita al santuario, si sentì dire in piemontese dallo stesso rettore: «Noi di Castelnuovo siamo attivi, laboriosi, intraprendenti».
Così dicendo, l’Allamano aveva alzato le mani, agitandole, assumendo l’atteggiamento di chi si dà da fare e vuole lavorare. In tale modo il santuario da devoto o contemplativo divenne anche apostolico.
DUE AUREOLE DI DIAMANTI
Il santuario della Consolata, come è noto, è composto da due chiese: quella di S. Andrea, in forma ovale, e il santuario vero e proprio, in forma esagonale e con cupola, che si apre sul fianco interno della prima chiesa e contiene l’altare maggiore con l’icona della Consolata.
Le due chiese, prima dei restauri, comunicavano tra loro solo per una apertura di pochi metri, cosicché la maggioranza dei fedeli si ammassava nella navata di S. Andrea e nulla poteva scorgere. Di più: tra l’una e l’altra chiesa vi era un notevole dislivello, superato da una gradinata, che rendeva poco agevole la circolazione. I lavori d’ingrandimento, iniziati nel 1899, consistettero nel costruire ai due fianchi del santuario quattro nuove cappelle (due per lato e con cupola), capaci ciascuna di 500 persone, così da costituire quasi due nuove navate che, partendo dalla chiesa di S. Andrea, introducevano all’altare maggiore. Il santuario fu così ingrandito di 400 metri quadri, con la capacità di 2.000 persone in più. I finanziamenti giunsero sempre puntuali e sufficienti.
Se avesse potuto, l’Allamano avrebbe voluto incoronare la Vergine e il Bambino del quadro. Ma ciò era impossibile, perché l’immagine era già stata incoronata il 20 giugno 1829. Lanciò, allora, la proposta di porre attorno al capo della Madre e del Figlio due aureole con 12 stelle di brillanti.
Naturalmente i diamanti (in tale quantità!) non si potevano trovare tra i ciottoli del Po. L’invito ad offrire i giornielli fu rivolto a chi poteva. Aderirono le dame di Casa Reale, ma anche persone comuni. Le due aureole raccoglievano 759 brillanti, mentre ne erano stati preventivati solo 384…
Le celebrazioni centenarie dovevano aprirsi l’11 giugno 1904. Molti si attendevano che l’Allamano costituisse una commissione organizzativa. Ma così non fu: l’Allamano e il Camisassa assunsero su di loro tutto il peso del lavoro… Il 18 giugno il rappresentante del Papa, cardinale Vincenzo Vannutelli, procedette all’imposizione delle due aureole.
Le feste si conclusero con la solenne processione del giorno 19 (durata cinque ore), che terminò alle 21. Vi parteciparono 6 cardinali, 23 vescovi, 104 parroci… e una folla immensa. Fu una manifestazione religiosa imponente che non aveva precedenti «nella memoria dei torinesi di mezza età» (La Stampa, 20 giugno 1904).
In appendice, si può aggiungere che, nella notte tra il 7 e l’8 febbraio 1979, le due preziose aureole vennero rubate. Però l’Allamano, già al suo tempo, aveva provveduto a sostituire le due aureole, tanto appetibili ai ladri, con due finte. Quelle vere erano in cassaforte. Pertanto i ladri asportarono pietre false.
Ma che fine fecero i diamanti veri? Con l’autorizzazione della Santa Sede vennero alienati e venduti, dopo la seconda guerra mondiale, per ricostruire il santuario e il convitto ecclesiastico danneggiati dai bombardamenti del 13 agosto del 1943.
ATTIVI, LABORIOSI, INTRAPRENDENTI
Alle celebrazioni del 1904 parteciparono anche i missionari della Consolata, presenti a Torino: un piccolo gruppo, perché la maggior parte era in Kenya. La Consolata, giugno 1904, accenna al nuovo Istituto missionario e riporta una frase del cardinale Richelmy, che lo presenta come un’istituzione indipendente dal santuario, ma nello stesso tempo come un ingrandimento importantissimo del medesimo, nella lettera e nello spirito.
Nella lettera circolare del 6 gennaio 1905 ai suoi missionari in Africa l’Allamano, nell’apertura, accenna alle solenni celebrazioni: «Un sacrificio ben doloroso fu certo per voi l’essere così lontani… e non poter rimirare la santa Effige adoa delle nuove corone… Se i chierici, vostri confratelli, furono giustamente orgogliosi di assumersi in quei giorni la rappresentanza di voi ai piedi della Consolata, io me ne feci un dovere specialissimo. Lasciai in certo modo da parte le altre attribuzioni per non dimenticare la mia qualità di padre di questa nuova famiglia…».
Dopo le celebrazioni così ben riuscite, l’Allamano, che si era preso cura del programma da realizzare, «venne interpellato se non avrebbe accettato qualche distinzione onorifica. A questa proposta… rispose che egli personalmente nulla desiderava, ma che avrebbe volentieri accettato qualcosa che tornasse d’onore per il santuario. Chiese a Pio x che il santuario venisse eretto a basilica pontificia». Fu esaudito il 7 aprile 1906.
Ritorna alla mente la figura del rettore di fronte al cugino francescano, al quale dice: «Noi di Castelnuovo siamo attivi, laboriosi, intraprendenti». L’Allamano invita anche i suoi missionari a tirarsi su le maniche.
la Consolata e la «Consolatina»
Nel gennaio 1902 l’Istituto missionario aveva un anno di vita. Il mensile La Consolata ricorda anche il nuovo Istituto, del quale nel giugno 1901 era stata benedetta la cappella della prima Casa Madre in corso Duca di Genova (oggi corso Stati Uniti), denominata in modo allusivo «La Consolatina», con questo commento: «L’importanza di tale funzione sta a dimostrare come il culto della Consolata non sia solo contemplativo, ma attivo, né si restringa solo a Torino o all’Italia».
Il santuario era stato retto per secoli da monaci (Benedettini, Cistercensi, Minori osservanti) o da religiosi (Oblati di Maria, che contavano pure delle missioni). Certamente l’atmosfera che vi si respirava era monastica: una devozione alquanto centripeta, quasi fine a se stessa, come un focolare in pieno inverno… con la gestione di un pensionato per preti anziani. Dopo secoli, il santuario era invecchiato, senza che qualcuno pensasse a restauri.
Nel 1871 il santuario, per ragioni politiche, divenne diocesano, alle dipendenze del vescovo locale, gestito da sacerdoti. Il passaggio da un regime monastico ad uno diocesano si consolida, nel 1880, con l’Allamano. Questi nel 1883 inizia i restauri estei del santuario, per ricordare nel 1885 il 50° della cessazione del colera. Libera la cupola da un ballatornio esterno, che la cinge con poca eleganza; elimina gli speroni che sporgono dai tetti più bassi; riveste la cupola di piombo; rinforza con uno zoccolo in pietra il perimetro esterno del santuario… Poi, in occasione dell’8° centenario del ritrovamento dell’icona della Consolata (che cadeva nel 1904), iniziò nel 1889 i grandi restauri interni.
Intanto – come si è detto – intorno al santuario gravitava un mare di gente. Ed è per questo «mare» che poté sorgere l’Istituto missionario, immettendo aria nuova, aprendo porte e finestre, dando la certezza a tutti che il santuario, anche da un punto di vista finanziario, si era trasformato da «conca» a «canale». I fedeli compresero molto bene.
Oggi questa apertura deve, forse, essere in qualche misura ricuperata… sull’esempio di un prete diocesano, quale fu l’Allamano: senza strafare, seppe tirarsi su le maniche, insieme ai sacerdoti del santuario del suo tempo e, soprattutto, dei missionari (che restano pur sempre «i missionari della Consolata»), memori del detto profetico: «Guardate la roccia da cui siete stati tagliati» (Is 51, 1).

NON DI SOLO PANE

«La messa è finita: andate in pace!». Il coro esplode in un canto giornioso, ritmato dal rullio dei tamburi. I bambini guardano estasiati. Le donne conversano. Gli uomini sono già sul sagrato della piccola e pericolante chiesa di paglia e fango. Qualcuno discute animatamente con il missionario.
Io osservo tutto, distaccata. Nel mio pensiero non vedo le donne, né gli uomini, non risento i canti né il rullio del tamburo. Non vedo gli occhioni spalancati dei bambini. Non vedo nemmeno la loro povertà disegnata su abiti scoloriti, su piedi scalzi, su ventri gonfi. Sono assente.
Sono stupita di me stessa, oltre che dell’Africa e dei suoi cristiani.
Mi aspettavo richieste di aiuto: per la scuola senza banchi, per il dispensario senza siringhe, per la strada che non è una strada…
E invece no! Mi hanno chiesto di aiutarli a pregare. A pregare come si deve, in una chiesa decorosa, con finestre dalle quali entri la luce del sole, un pavimento sul quale possano sedersi i bambini accanto alle mamme, un tetto che non rischi di cadere loro in testa, un inginocchiatornio… mi hanno chiesto queste cose per pregare meglio. Perché «non di solo pane vive l’uomo…» (Mt 4,4).

Era l’agosto del 2003. Accompagnavo sette giovani di Torino per un campo di lavoro e conoscenza nella missione di Cuamba nella regione del Niassa, nel nord del Mozambico.
Qui opera e lavora con grande efficienza, ma soprattutto efficacia, padre Carlo Biella, missionario della Consolata, affiancato da padre Alberto De Jesus, diocesano aggregato, venezuelano.
Perché la nostra conoscenza fosse più ampia possibile, padre Alberto aveva organizzato, per le tre settimane del nostro soggiorno, incontri con la gente, che accorreva incuriosita per vedere i mucunha (i bianchi), dei quali però hanno paura. Sovente scappavano e i bambini si mettevano a piangere a pieni polmoni, quando uno di noi si avvicinava. Purtroppo gli sporadici contatti con l’uomo bianco, unica eccezione i missionari, si sono sempre rivelati «trappole»; hanno dovuto imparare a diffidae.
Gli ammalati, fiduciosi, attendevano la nostra visita, come se la nostra presenza potesse allontanare il male e insieme a loro pregavamo, per tutti.
Visitavamo le comunità con capanne sparse, anch’esse rigorosamente di fango e paglia, accompagnati dagli animatori che, durante il cammino, ci parlavano della guerra, ormai, fortunatamente, un lontano ricordo, dell’«esodo» di tanta gente che cercava rifugio altrove per sfuggire alla morte, di «un popolo in cammino». Nei loro racconti e nella semplice conversazione si ispiravano alla parola di Dio.
Rimanevo affascinata e meravigliata per la loro profonda conoscenza delle sacre scritture. Ho visto la loro fede!

L a cappella della comunità di Nakhapa, una delle circa 50 che fanno parte della missione di Cuamba, intitolata alla beata Vergine Consolata, era veramente messa male. I continui visibili rabberci erano ormai del tutto inutili; pezzi di fango si staccavano dalle pareti e il tetto sembrava che volesse crollare da un momento all’altro. La gente se ne vergognava; soprattutto temeva di dover rinunciare a incontrarsi nel giorno di festa, la festa vera, per pregare, vista la propria impossibilità di costruire una chiesa nuova perché troppo poveri.
Fu al termine della celebrazione che un animatore, alzatosi, disse qualcosa in macua, che il padre mi tradusse in portoghese: ora avrebbe avuto luogo l’offertorio ed era per noi.
Iniziò a sfilare una lunga processione di persone e ognuna portava il suo povero dono: un piatto di fagioli, una papaia, due patate di manioca, un po’ di riso, una manciata di fagioli. Probabilmente era il «pane quotidiano» dell’intera famiglia («l’obolo della vedova»).
In cambio mi chiedevano che, tornando in Italia, sensibilizzassimo la gente su questo problema al quale nessuno di noi dà più importanza. I fedeli africani ci chiedono di poter pregare in un ambiente dignitoso. Ci chiedono di aiutarli a ricostruire il loro «tempio», che considerano vitale quanto una casa, un dispensario, una scuola, una strada.

Non sono ancora riuscita a trovare il denaro necessario, sebbene la cifra non sia elevata. Questo mi fa vivere in sospeso, in una costante sensazione di incompiutezza. Ma quello che più mi rattrista è constatare che la generosità che distingue gli italiani si esaurisce… quando si chiede loro di costruire una chiesetta!

Gloriana Babbini

Igino Tubaldo




La guerra in Aceh e noi

L a guerra civile insanguina la provincia di Aceh, nell’isola di Sumatra, Indonesia, (cfr. Missioni Consolata, 10 2003). C’è, inoltre, un altro motivo di preoccupazione: la sciagurata gestione del patrimonio forestale.
Se «Aceh» non fa rima con «pace», è perché, oltre alla Mobil, vi sono vari colossi del mondo imprenditoriale e finanziario, i quali, approfittando dell’instabilità politica e degrado sociale, privano l’Indonesia e il mondo di un tesoro ecologico ed economico di primissimo ordine.
Rispetto alle guerre tradizionali, i «conflitti a bassa intensità» (come quello nell’Aceh da 28 anni), oltre a provocare tante vittime civili, sono l’ideale per chi vuole rubare alla natura il massimo rischiando il minimo.
Con la guerra propriamente detta, la foresta equatoriale fa paura, perché qui si concentra il nemico. Invece nei conflitti a bassa intensità la foresta è solo una ricca torta da spartire. Qui la linea di demarcazione tra amici e nemici, terroristi e soldati, patrioti e invasori, bracconieri e ministri dell’ambiente è molto labile.

L’esistenza del grande parco nazionale Gunung Leuser non deve trarre in inganno, né deve illudere che la regione dell’«Ecosistema del Leuser» goda dello speciale patrocinio delle Nazioni Unite (l’Unesco l’ha inclusa nel programma «L’uomo e la biosfera»).
In realtà il Leuser è solo «parco di carta». Autorevoli studiosi temono che la copertura naturale possa sparire entro il 2005. Il disboscamento, messo in atto dalle compagnie del legname pregiato, dalle società cartarie e da coloro che hanno interesse a trasformare il territorio in un’immensa piantagione di tabacco e marijuana, provoca un danno incalcolabile alla biodiversità.
Il Leuser conta circa 25 mila specie di piante e animali: molte rischiano l’estinzione, come orangutan, rinoceronte, elefante e tigre (che, finora, ha tratto scarsissimo giovamento dalla riproduzione artificiale). Sconvolti sono l’assetto idrogeologico e il clima.
Contrariamente a ciò che la geografia può farci pensare (l’Aceh è all’Equatore), oggi a Sumatra periodi di siccità prolungata, capaci di asciugare fiumi di grande portata, si alternano ad alluvioni disastrose, come quella del novembre 2003, che costò la vita a più di 170 persone (tra cui diversi turisti).

A nche contro questo tipo di guerra occorre una seria mobilitazione. Si tratta di una guerra che miete vittime pure sulle isole limitrofe: gli indigeni dell’arcipelago Mentawai rischiano la cancellazione dalla faccia della terra, perché le loro foreste fanno gola a multinazionali e grossi calibri del mondo politico e militare.
Il nostro «sì» alla guerra lo diciamo pure quando fumiamo sigarette o lasciamo fumare (per una malintesa tolleranza). Lo diciamo quando sprechiamo quintali di fazzoletti e tovaglioli di carta. Possiamo accontentarci dell’assicurazione, da parte di certe aziende, che il 30% di tale carta non proviene dall’abbattimento di foreste naturali? E il restante 70%?
Inoltre beviamo caffè.

T empo fa il Wildlife Conservation Society dell’Indonesia denunciò il mercato irregolare del caffè come un motivo di fondo del degrado ecologico e della crisi sociale a Sumatra. Infatti, mentre nella maggioranza dei paesi consumatori il prezzo della tazzina aumenta, i lavoratori nelle piantagioni e i piccoli proprietari ricevono salari sempre più bassi. All’economia Usa il mercato del caffè frutta ogni anno 70 miliardi di dollari, ai paesi produttori solo 5,5.
A Sumatra guadagni miseri spingono i coltivatori a espandere le piantagioni per aumentare la produzione di bacche. Risultato: tra il 1996 e il 2001 la superficie coltivata è cresciuta del 28% e la maggior parte di questa espansione è avvenuta a spese delle foreste naturali, anche «protette»; oltre il Leuser, in grave difficoltà sono i parchi di Barisan Selatan, Berbak, Kerinci Seblat, Way Kambas.
Se vogliamo ridare pace e ambienti vivibili agli abitanti di Sumatra, se abbiamo a cuore la natura e gli animali, cerchiamo di eliminare il superfluo dalla nostra vita. Trasformiamo il tempo e il denaro risparmiati in qualcosa di valido: un libro, una rivista, una lettera di sensibilizzazione. Senza dimenticare LA PREGHIERA!
Chiara Barbadoro
Fano (PS)

Chiara Barbadoro




Il compito in classe di Federico

Ho letto «Il compito in classe di Federico», terza media (Missioni Consolata, marzo 2004). Avete fatto bene a pubblicarlo. Così ci si rende conto del complesso quadro culturale entro cui un ragazzo è costretto a navigare.
Se le cose scritte da Federico le ha imparate a scuola, è un dramma. Spero di no. È più probabile che abbia assimilato ciò che ha sentito in televisione o al bar. Niente di nuovo: l’America cattiva, Berlusconi mafioso (non sono un elettore del centrodestra)… La sintesi, cioè, delle prediche dei Caruso, Agnoletto, Pecoraro Scanio, Bertinotti, ecc. Anche il nome di Giulio Cesare non vorrei che l’avesse sentito in televisione, anziché averlo letto in qualche pagina di storia.
Fossi il genitore di Federico, me ne preoccuperei.
Angelino Deriu – Bussero (MI)

I genitori di Federico sono preoccupati anche e soprattutto dei contenuti della scuola e del giudizio di qualche insegnante.

Q uando sono nata (nel 1925) mia mamma, devota alla Vergine, mi aveva consacrata alla Consolata.
Nella mia vita sono sempre stata anch’io molto devota alla Consolata. Ogni volta che vado a Torino non manco di confessarmi e comunicarmi al Suo santuario e cerco di contribuire al sostegno delle missioni.
Da quando so leggere seguo le vostre pubblicazioni, che da modesto bollettino sono divenute lussuose riviste. Stavo leggendo il numero di marzo, quando sono sobbalzata sulla sedia: avevo letto le prime righe di «Il compito in classe di Federico».
Ho sfogliato indietro la rivista sino alla prima pagina, credendo di aver preso, per sbaglio, il Manifesto. No, era proprio Missioni Consolata! Ma è possibile – mi son detta – che la redazione di una rivista, che dovrebbe occuparsi di missioni cattoliche, possa cadere nella trappola di un povero studente di terza media?… Ma la rivista era tanto conscia di ciò che stava per pubblicare che ha dato al pezzo adeguata visibilità tipografica.
Ho finito di leggere il bel compitino, con i giudizi (tutto considerato) positivi sia dell’insegnante che della redazione. Ho poi letto la lettera sottostante, di un sedicente dott. Torre, su quel sant’uomo di Fidel Castro. E non mi occorre altro per capire tutto…
Certo: voi siete liberi di pubblicare quello che vi pare ed io sono libera di sospendere il mio contributo alle missioni… Ma il mio pensiero va ai tanti vostri missionari che, nel mondo, diffondono la parola di Dio. Mentre alcuni (pochi) confratelli, nel comodo rifugio di Torino, diffondono la parola di Agnoletto e Cesarini.
Nella mia preghiera d’ogni sera pregherò la Madonna Consolata di illuminare le menti di questi poveretti, che usano il Suo nome per scopi molto terreni e che, con le missioni, non hanno molto a che fare.
Pace e bene.
Mirella Carle – Genova

Signora Mirella, grazie delle preghiere. Abbiamo bisogno estremo dell’illuminazione dello Spirito Santo per intellegere, ossia «leggere dentro», superare i pregiudizi, andare al di là dei luoghi comuni.
Missioni Consolata pubblica tutte le lettere, alle quali risponde con «sì», «no», «distinguo», invitando al dialogo, alla moderazione e riproponendo il quesito evangelico «che ve ne pare?» (cfr. Mt 21, 28). Così per il «compito» di Federico e l’intervento del dottor Giuseppe Torre. La rivista ha pubblicato anche lettere anonime, velenose e ricattatorie, che ci fanno il processo alle intenzioni appellandosi alla… Consolata.
Ci viene in mente un certo Vittorio De Beardi, che nel marzo 1990 scrisse: «La rivista mi interessa quasi unicamente per verificare la profonda degenerazione di tante istituzioni della chiesa, gestite da incoscienti o da perversi come voi».

Angelino Deriu, Mirella Carle




Padre Pio e mondo militare…

Quando la vita ecclesiale scade a certi livelli (denunciati dai preziosi articoli di Missioni Consolata «Quelle pesantissime stellette» e «Comandi, don Mariano»), la colpa è anche della scarsa vigilanza dei cristiani comuni, non solo della gerarchia.
Sono convinto che, se negli Usa, in Italia, Argentina, Brasile, El Salvador… i cappellani militari han combinato ciò che han combinato, è anche perché molti cristiani NON sapevano neppure che esistessero; o, se lo sapevano, NON controllavano la compatibilità delle loro teologie (l’Ordinariato militare è una diocesi a sé con seminari propri) con il vangelo di Cristo e la tradizione della chiesa.
Come devoto di Padre Pio, sono rimasto disgustato quando, leggendo Il Cursore (periodico religioso dei militari italiani), mi sono imbattuto nell’articolo «Soldato Forgione». Qui il santo di Pietrelcina è proposto come grande amico del mondo militare, legato a un concetto di patria che, sostanzialmente, coincide con quello dei Mani, Bagnasco, Ruini, Baget Bozzo…
Il vero Padre Pio, invece, servì l’Italia non quando indossò l’uniforme, ma quando la depose e quando, dopo 16 mesi di massacrante andirivieni tra caserma, convento e ospedale militare (le autorità militari volevano che diventasse soldato), poté finalmente annunciare: «Sono superlativamente lieto della grazia divina che Gesù mi ha accordato col liberarmi della milizia completamente. Fra giorni mi si firmerà il foglio di via, e così potrò lasciare, con animo soddisfatissimo, Napoli, facendo voto di non ritornarci mai più».
A chi dubitasse su quanto ho detto, suggerisco di leggere Padre Pio, Un Santo in mezzo a noi (supplemento di Famiglia Cristiana, 37/1999); in particolare le pagine 38-48.
Francesco Rondina
Fano (PS)
P. S. «Qualche ora dopo il suo arrivo – scrive Gennaro Preziuso, riferendosi al traumatico impatto avuto dal Santo con l’ambiente della caserma Sales – con le lacrime agli occhi, fece la triste esperienza di sostituire il saio tanto amato con una goffa divisa militare. Nel deporre “l’abito di San Francesco”, lo baciò con trasporto…
Si guardò ed ebbe la sensazione di essere capitato in un “manicomio”. Tutti avevano fretta. Gli ordini dei superiori erano preceduti e seguiti da parolacce, che ferivano la sua sensibilità e il suo pudore.
I rimproveri determinavano ilarità e degradavano la dignità degli uomini che li ricevevano. Il turpiloquio, i discorsi spesso licenziosi erano intercalati da orribili bestemmie.
La carità pareva che nessuno sapesse cosa fosse. Imperava solo l’egoismo. La riservatezza aveva ceduto il posto alla volgarità e alle oscenità.
Padre Pio provò nausea e disgusto…».

Francesco Rondina