I grandi missionari:Rosa Filippina Duchesne

A otto anni sognava di convertire gli Indiani d’America. Vi arrivò che di anni ne aveva 71. Nel frattempo ha vissuto una vita con tenacia, tra innumerevoli
contrattempi, sempre a servizio dei più poveri: è santa Rosa Filippina
Duchesne (1769-1852), beatificata da Pio XII nel 1940, canonizzata da
Giovanni Paolo II nel 1988.
Mescolando al francese nomi di
villaggi indiani: Kaskasia, Michigamea, Cahokia… padre Gian Battista
Aubert raccontava le peripezie apostoliche personali e dei confratelli
gesuiti in Luisiana. Più che da quei suoni strani, Filippina era
affascinata dalla vita missionaria: a 8 anni sognava di evangelizzare
gli indigeni d’America. Passarono più di 60 anni prima che quel sogno, coltivato con tenacia, si avverasse.

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CHE CARATTERINO!
Penultima di sei figli, Filippina Duchesne era nata il 29 agosto 1769 a Grenoble, ai piedi delle Alpi francesi. Suo padre, Pier Francesco, avvocato, uomo d’affari e prominente leader cittadino, era imbevuto di idee di Voltaire: aveva abbandonato ogni pratica religiosa, ma rispettava preti e religione. La madre, invece, Rosa Périer, era una tutta casa e chiesa.
Il nome «Duchesne» era sinonimo di carattere tenace. Filippina non faceva eccezione: colpita dal vaiolo, per farle trangugiare le medicine, madre e dottore dovevano aprirle la bocca, prendendola per il naso e per il mento. La malattia le lasciò sul volto qualche segno, ma nessun complesso; anzi, contribuì a sviluppare in lei un carattere virile. Sdegnava le bambole e giocava con i cugini Périer. Le piaceva leggere la storia di Roma, finché passò alle gesta dei martiri gesuiti in Nord America.
Al tempo stesso Filippina sviluppò un profondo senso di altruismo: aiutava poveri e malati, privandosi del denaro che i genitori le davano per scapricciarsi. A 12 anni Filippina fu affidata alle suore della Visitazione di Santa Maria dall’Alto, che gestivano un collegio.
Era confessore straordinario del convento quel padre Aubert che l’aveva fatta trasalire con i suoi racconti di vita missionaria. Dai colloqui con il gesuita nacque il desiderio di abbracciare la vita religiosa, per poi partire in cerca di indiani.
Quando il padre ne ebbe sentore, la riportò a casa. Filippina obbedì docilmente, aspettando tempi migliori. Per non dare nell’occhio, accettò di prendere lezioni di danza; ma s’intrufolava anche tra i cugini durante la scuola di latino, per conoscere meglio le scritture.
A diciassette anni i genitori gli trovarono un buon partito: Filippina dovette scoprire le carte e tirare fuori il suo carattere: disse chiaro e tondo che voleva farsi monaca. I genitori non insistettero, sperando nel fattore tempo. Invece, la signorina cominciò a evitare feste e incontri mondani, a rifiutare vestiti appariscenti e intensificare le pratiche religiose, finché non ne poté più.
Un giorno, nel 1787, si fece accompagnare dalla zia Périer al convento della Visitazione per parlare con la superiora; entrò nel monastero e vi restò, rimandando a casa la zia per avvisare i genitori del fatto compiuto.
Terminato il noviziato, il padre le proibì di pronunciare i voti religiosi prima di compiere 25 anni. Era preoccupato per il futuro della figlia. Egli stesso aveva appoggiato la protesta dei concittadini di Grenoble contro alcune leggi della monarchia (1788): protesta repressa nel sangue e preludio della rivoluzione francese (1789).

IN BARBA ALLA RIVOLUZIONE
Il ciclone rivoluzionario si abbatté sulla chiesa come una mannaia, abolendo il culto cattolico, imprigionando preti, abolendo le congregazioni religiose e confiscando i beni della chiesa. Il monastero di Santa Maria fu chiuso e Filippina fu costretta a rientrare in famiglia.
Depose l’abito monacale, ma non il ritmo di preghiera e meditazione. Al tempo stesso si immerse in una miriade di iniziative a favore dei poveri e perseguitati, preti soprattutto, costretti a darsi alla macchia per non giurare fedeltà alla rivoluzione.
Uno di essi si era fatto assumere dal padre come costruttore di mulini. Filippina fu entusiasta quando il prete le rivelò la sua identità. «È il Signore che ce lo manda» disse alla madre; poi convinse il padre a nasconderlo in casa. Di giorno il prete sovrintendeva le costruzioni, di notte celebrava la messa.
Poi, per essere più libera di servire i poveri e affamati, istruire una ventina di ragazzi di strada, Filippina lasciò la casa patea e andò a vivere in affitto con un’altra ex visitandina. Quando scoppiò il tifo, essa si dedicò totalmente all’assistenza dei malati e moribondi, procurando loro il conforto religioso, portando al loro capezzale i sacerdoti, dei quali solo lei conosceva il nascondiglio.
Con un gruppo di signore coraggiose, Filippina fondò l’associazione delle «Dame della misericordia», con lo scopo di visitare e portare soccorsi materiali e spirituali ai preti incarcerati e in attesa di salire sulla ghigliottina. Avrebbe voluto condividere il loro martirio, ma uno di essi le disse che c’erano tanti modi di dare la vita. Lei la spendeva sfidando le leggi della rivoluzione.
Ma un martirio lo viveva nel cuore ormai da 12 anni. «La mia croce si chiama attendere» disse un giorno, alludendo alla vita religiosa.

FINE DEL «NOVIZIATO»
Correva l’anno 1801. I furori rivoluzionari erano sbolliti sotto i tacchi di Napoleone. Filippina mosse mezzo mondo per avere il monastero di Santa Maria, ormai malandato e pericolante. Per tutti si trattava di un colpo di testa «alla Duchesne». Ma alla fine dell’anno la «novizia» era di nuovo nel convento; cercò le ex suore visitandine per ricostruire la comunità; si rimboccò le maniche e cominciò il restauro, improvvisandosi impresaria e manovale.
Le ex suore resistettero pochi mesi e Filippina restò sola e sconsolata. Ma all’inizio del 1803 si unirono a lei tre ragazze: si diedero una regola, chiamandosi «Figlie della propagazione della fede», e aprirono un educandato. Ma Filippina sognava più in grande. Un gesuita le suggerì di unirsi alla Società del Sacro Cuore, appena fondata da una donna carismatica, Maddalena Sofia Barat.
La giovane fondatrice (aveva appena 25 anni) arrivò a Santa Maria alla fine del 1804: tra le due donne sbocciò subito una devota amicizia, che durò per quasi 50 anni, nonostante la distanza di età.
Filippina mise tutto nelle mani di madre Barat: se stessa e le amiche, monastero e scuola. Cominciò il noviziato secondo le regole della Società del Sacro Cuore e, l’anno seguente, a 35 anni, emise la professione religiosa: finiva il suo lungo noviziato.

ATTENDERE E PAZIENTARE
Con la professione religiosa si fece più viva in Filippina la chiamata alla missione. In una lettera del 1806, confidava alla Barat l’esperienza spirituale vissuta il giovedì santo, per 12 ore in ginocchio davanti all’eucaristia: «Tutta la notte sono stata nel Nuovo Continente… portavo in ogni luogo il mio tesoro (l’eucaristia). Avevo anche molto da fare con tutti i miei sacrifici da offrire: madre, sorelle, parenti, una infinità. Mi trovavo sola con Gesù solo, o con dei fanciulli neri, e mi reputavo più beata nella mia piccola corte che in tutti i potentati del mondo. Quando mi direte “ecco, ti mando”, vi risponderò subito: “Parto!”».
Pur incoraggiando tale desiderio, madre Barat tenne Filippina in Francia per altri 12 anni, convinta che i suoi talenti fossero più necessari alla giovane congregazione in espansione.
Di fronte a quel carattere ostinato e impetuoso, bisognoso di essere rettamente indirizzato più che soffocato, la fondatrice non lesinava energici consigli per aiutarla a crescere in pazienza e dolcezza. Ma ne ammirava le doti, specialmente la profonda vita di preghiera, tanto da fae il suo braccio destro. Filippina diventò la prima segretaria generale dell’ordine; nel 1815 fu incaricata di aprire una nuova casa a Parigi.
Nel 1817, al convento parigino si presentò mons. Louis Dubourg, vescovo della Luisiana, in giro per l’Europa a rastrellare preti e religiose da portare nel suo immenso territorio di missione. Dopo frequenti colloqui, madre Barat non si sentiva di mandare le sue figlie in un’avventura tanto esigente e rischiosa. Cercava un segno dal cielo. Stava congedando il vescovo, quando Filippina si gettò ai suoi piedi, implorando: «Madre mia, il vostro consenso, per pietà!».
«Ebbene, mia cara Filippina, acconsento e corro a trovarvi le compagne» disse la madre, leggendo in quella supplica la volontà di Dio.
La data di partenza fu fissata per la primavera del 1818. Filippina aveva 49 anni; si sentiva in paradiso, se non fosse che madre Barat l’aveva nominata superiora delle quattro suore che con lei presero il largo.

LA TERRA PROMESSA
Il 19 marzo 1818, festa di san Giuseppe e giovedì santo (a 12 anni dalla famosa visione), Filippina e consorelle salirono a bordo della Rebecca, che due giorni dopo salpò dal porto di Bordeaux.
La traversata dell’Atlantico, durata più di 10 settimane, fu uno strazio. Il mare era frequentemente in tempesta; per cinque volte la nave attraversò la linea dei tropici in balia dei venti; i passeggeri tiravano a sorte chi fosse a portare scalogna; il capitano era di pessimo umore: gli avevano profetato che la presenza di monache e preti avrebbe attirato un sacco di sventure.
In balia del mal di mare e dei furori dell’oceano, le povere suore si facevano coraggio come potevano, cantando l’Ave maris Stella. E funzionava, tanto che il capitano disse loro: «Signore, cantateci quella bella canzone della sera, che fa tornare il buon vento».
Dopo 70 giorni di navigazione, la Rebecca attraccò al porto di Nuova Orléans: era il 29 maggio festa del Sacro Cuore. Le cinque suore si sentivano arrivate nella terra promessa; ma dovettero affrontare altri 42 giorni esasperanti di navigazione lungo il Mississippi, su un primitivo battello a vapore a ruote, con passeggeri alquanto rozzi, finché raggiunsero St. Louis, sede del vescovo Dubourg.
Monsignore le accolse cordialmente e espose i suoi progetti: stabilire scuole per i figli dei coloni a St. Charles e Florissant. Filippina ne fu delusa, si aspettava di lavorare tra i «selvaggi». «Non si rammarichi – le disse il vescovo -: le bambine di St. Charles sono tutte selvaggette».
A St. Charles, villaggio di 500 famiglie a 50 km da St. Louis, le suore furono sistemate in un capannone in legno, con uno stanzone al centro e sei stanzette ai lati. L’8 settembre il vescovo benedisse ufficialmente la fondazione della Società del Sacro Cuore in America; il 14 fu aperta la scuola: 22 «selvaggette» affollarono lo stanzone del «convento», che serviva anche da dormitorio e refettorio per 8 ragazze accolte come educande.

TEMPI EROICI
Senza la minima risorsa, il vescovo più povero di loro, le suore fecero l’impossibile per sopravvivere. «Facciamo nuovi mestieri – scriveva Filippina a madre Barat -: zappiamo la terra, mungiamo le vacche e le meniamo a bere, ripuliamo la stalla, trasportiamo il concime; spacchiamo la legna e cuociamo il pane». L’acqua era attinta da un brav’uomo nel melmoso Missouri e venduta a secchi a caro prezzo.
L’inverno era impietoso: i vestiti, stesi vicino alla stufa ad asciugare, diventavano ghiaccioli; le dita gonfie di geloni, eccetto quelle di Filippina: le sue mani erano già scarne e callose per i lavori fatti a Santa Maria. «Questa vita non mi dispiace… e mi adatterò con piacere agli umilissimi uffici della casa» scriveva ancora Filippina, che come sempre, riservava a sé i lavori più umili e faticosi.
Nonostante le ristrettezze, la scuola continuava e portava i primi frutti: 11 ragazze fecero la prima comunione. Anche tra gli abitanti di St. Charles, più avidi di whisky che di sermoni, le suore suscitavano ammirazione e ripensamenti.
Ma St. Charles era troppo fuori mano, difficile da raggiungere nei mesi piovosi. Il vescovo propose di migrare a Florissant, pochi chilometri da St. Charles. All’inizio di settembre del 1819 le suore fecero i bagagli e, insieme a polli, vacche e due educande, ripassarono il Missouri e raggiunsero la nuova casa. Si fa per dire: era un’angusta baracca di legno, tra le cui assi il vento spifferava a piacimento.
Quattro mesi dopo era pronto un convento a due piani e in muratura. Vi entrarono la vigilia di natale, sotto una bufera di neve. L’anno seguente le collegiali erano una ventina. Per sopravvivere, le suore continuavano a zappare l’orto, mungere vacche e allevare polli.

NUOVE FRONTIERE
Florissant cresceva a vista d’occhio. Dalla Francia arrivarono altre suore; varie educande chiesero di abbracciare la vita religiosa: Filippina aprì il noviziato, nonostante che il vescovo frenasse. Nel 1822 le prime due suore nate in America emettevano la professione religiosa nella Società del Sacro Cuore.
A 12 anni dall’arrivo, la Società conta 64 suore: 14 venute dalla Francia; 50 nate in America. Sotto la guida di Filippina furono aperte altri 5 conventi e relative scuole: Grand Coteau (1821) e St. Michael (1825) nella bassa Luisiana; a St. Louis e a Bayou-la-Fourche (1828) vicino a New Orléans; fu pure riaperto St. Charles (1828).
Benché fossero scuole di frontiera, offrivano un impressionante curricolo accademico e solide basi per la fede cristiana. I collegi per le ragazze più ricche servivano a sviluppare orfanotrofi e scuole gratuite per i più poveri.
Sotto la guida di madre Duchesne, la congregazione del Sacro Cuore aveva preso chiaramente radici sul suolo americano. Tutti l’ammiravano per lo zelo, l’instancabilità nel lavoro e la profonda vita di preghiera. Eppure, accecata dall’umiltà, Filippina aveva poco senso del successo dei suoi sforzi; anzi, si incolpava di ogni contrattempo, si considerava un fallimento, specialmente come superiora, incapace di dirigere le anime e scriveva a madre Barat di essere sollevata dall’ufficio.
«Gli inglesi non mi capiscono e i creoli tengono molto a certe maniere esteriori: è meglio che io mi limiti a fare scuola o l’infermiera», scriveva nel 1831 alla Barat, dando le dimissioni da superiora. I primi avevano da ridire perché Filippina masticava male l’inglese; gli altri si lamentavano che le loro figlie non erano preparate per la vita mondana. Arrivarono pure le calunnie: «Tutto è stato detto contro di noi, eccetto che avveleniamo le nostre bambine», si sfogava Filippina.
Di fronte a tali insistenze, madre Barat tergiversava, dicendo in cuor suo che l’inettitudine dei santi era più feconda della sapienza e abilità degli altri. Ma era preoccupata. Stava per accettare le dimissioni, ma prima volle sentire il parere del vescovo, il quale rispose perentorio che madre Duchesne doveva continuare nel suo incarico.
E per altri 10 anni Filippina continuò, per fede e obbedienza, a sobbarcarsi a viaggi estenuanti, nonostante gli acciacchi dell’età, per visitare le varie opere e sostenere le sue figlie nell’impegno missionario, alcune delle quali venivano falciate da stenti e malattie.
Nel 1840 arrivò a Florissant madre Galitzin, come visitatrice delle missioni in America. Filippina le chiese in ginocchio di esonerarla dall’ufficio e fu bruscamente esaudita e invitata a ritirarsi a St. Charles.

SPOSE DEL GRANDE SPIRITO
Nei 22 anni di presenza in America, Filippina non aveva mai abbandonato il sogno di lavorare tra gli indiani. Per quelli ancora presenti attorno a Florissant aveva aperto una scuola nel 1825, ma durò poco. Anch’essi furono costretti a migrare spinti in lontane riserve.
Nel 1841 il gesuita Pierre Jean De Smet chiese alle suore di avviare una scuola tra i potawatomi, un gruppo in gran parte convertito alla fede cattolica. Filippina sentì che era arrivato il suo momento e scrisse alla madre Barat: «Ho avuto, una dopo l’altra, tre malattie gravi in America e credevo di essere già nell’altro mondo… Ora mi pare di comprendere il mistero di questa specie di risurrezione… Dio mi ha mantenuta solo per questo».
Madre Barat scrisse a madre Galitzin perché includesse Filippina nella nuova avventura missionaria: «Ricordati che, partendo per l’America, la buona madre Duchesne aveva solo questo lavoro in vista. Era per amore degli indiani che si sentì ispirata a stabilire l’ordine in America. Credo che ciò entri nei disegni di Dio e che dovremmo approfittae dell’opportunità offertaci».
Per le consorelle era una pazzia: aveva 71 anni, la sua salute deperiva. Ma Pierre Jean Verhaegen, un altro gesuita, insistette: «Verrà con noi, anche se dovessimo portarla a spalla per tutto il viaggio. Non potrà fare molto lavoro, ma assicurerà il successo alla missione pregando per noi».
Dopo una settimana di navigazione lungo il Missouri e un giorno di carovana nella prateria, Filippina e tre compagne arrivarono a Sugar Creek (Kansas), la riserva dei potawatomi: 500 guerrieri pellirossa, su cavalli bianchi, con i vestiti di gala, diedero il benvenuto alla «spose del Grande Spirito».
Gli inizi della fondazione furono più duri di quanto si credesse: per abitazione una misera capanna, per cibo erbaggi e latticini. Ma Filippina si sentiva ringiovanire e sognava di convertire tutti i pellirossa che abitavano l’immensa prateria, fino alle Montagne Rocciose. Ma doveva fare i conti con l’età e con la lingua. «È difficile e barbara – scriveva -; ha parole interminabili, fino a 8-10 sillabe; non c’è dizionario, né grammatica. Non potrò mai impararla».
Non potendo insegnare, si prodigava nel visitare gli ammalati e portare conforto ai moribondi. Soprattutto faceva ciò che le riusciva meglio: pregare. Passava lunghe ore in ginocchio davanti al tabeacolo nella cappella di tronchi. Molti indiani venivano a guardarla; si avvicinavano senza far rumore, s’inginocchiavano e baciavano l’orlo del suo abito consunto o le frange dello scialle.
Uomini e donne le chiedevano di pregare per loro e la soprannominarono Quah-kah-ka-num-ad, donna che prega sempre.
Come padre Verhaegen aveva predetto, grazie su grazie piovevano sulla missione. Scriveva una delle suore: «Tutti riconoscono che un gran numero di battesimi sono frutto della sua preghiera. Quasi ogni domenica tre o quattro famiglie vengono battezzate e madre Duchesne scrive i loro nomi nel registro».

IL GRANDE SACRIFICIO
La gioia di Filippina durò appena un anno. Visto il suo stato di salute, il vescovo di St. Louis scrisse alla Barat che era imprudente lasciarla a Sugar Creek. La madre si affrettò a scrivere alla «sorella maggiore» di fare il «grande sacrificio» e ritornare nel Missouri.
Il 29 giugno 1842 Filippina era di nuovo a St. Charles. Così descriveva la sua obbedienza: «Non posso cancellare dalla mia mente il pensiero degli indigeni; la mia ambizione mi porta fino alle Montagne Rocciose. Posso solo adorare i disegni di Dio, che mi strappa da ciò che ho così a lungo desiderato».
Passò altri 10 anni a St. Charles, interessandosi delle nuove fondazioni, riempiendo le giornate con la preghiera e piccoli servizi alla sua portata: insegnare il francese ad alcuni studenti francofoni, rattoppare i vestiti della comunità e cucie di nuovi per i suoi amici missionari. Finché fu raggiunta dalla morte, il 18 novembre 1852, a 83 anni.
Nell’Albo d’oro dei pionieri dello stato del Missouri il nome di madre Duchesne è in cima alla lista delle donne. L’iscrizione nella placca recita: «Alcuni nomi non devono appassire». I potawatomi ricordano ancora con grande amore e riverenza Quah-kah-ka-num-ad.</b

Benedetto Bellesi