ANNIVERSARI”E adesso, su ancora le maniche!”

20 GIUGNO: LA CONSOLATA
due centenari significativi nel santuario di Torino

Narra la tradizione: nell’anno 1104 un cieco parte da Briançon,
raggiunge la chiesa di S. Andrea di Torino, trova sotto le macerie di una cappella
l’immagine della Madonna Consolata e riacquista la vista…
Oggi il santuario della Consolata di Torino celebra il 9° centenario di quell’evento.
Il santuario celebra pure un altro centenario: quello del 1904,
allorché Giuseppe Allamano gli diede spazio, aria, vita. Anche in Africa.

Il centenario 1904 – 2004
Durante il Congresso mariano, svoltosi a Torino nel 1898, maturò in Giuseppe Allamano, già rettore del santuario della Consolata, l’idea di fondare una rivista per aggioare i fedeli su quanto si svolgeva al santuario (ndr: la rivista iniziò nel 1899 e si chiamò La Consolata, per divenire nel 1928 Missioni Consolata).
Un altro motivo suggeriva la nascita della rivista. Si era prossimi alle celebrazioni dell’8° centenario del ritrovamento dell’icona della Consolata (1104-1904). L’Allamano e il suo collaboratore, Giacomo Camisassa, intendevano giungervi con un santuario completamente rinnovato, ma soprattutto ampliato. La popolazione doveva essere coinvolta in questa grandiosa impresa, anche molto dispendiosa.
I lavori, iniziati nel 1889 e terminati nel 1904, erano necessari: non solo perché l’interno del santuario era in uno stato pietoso (pavimento dissestato, pareti affumicate e sgretolate), ma soprattutto perché risultava troppo piccolo. L’antifona che l’Allamano si sentiva continuamente ripetere era: «Occorre maggior spazio. La gente si pigia all’inverosimile…».
Il rettore fece scrivere che il santuario, così com’era, poteva andare bene nel 600, quando Torino contava una popolazione inferiore di un sesto dell’attuale. Diceva: «Bisogna trovarsi al santuario nei giorni di festa, o anche solo un sabato qualsiasi, per avvertire tutti gli inconvenienti di questa deficienza di spazio e la mancanza d’aria, insufficiente non solo nelle grandi circostanze, ma anche nelle funzioni ordinarie».
A dare prestigio ed interesse alla nuova rivista contribuì non poco la fondazione, nel 1901, dei missionari della Consolata per l’Africa. La gente avvertì subito che, in tal modo, il santuario apriva porte e finestre. In breve tempo gli abbonati a La Consolata raggiunsero il numero di 19 mila.
Anche gli aderenti alla Compagnia della Consolata (nata nel 1522), riformata in senso popolare dall’Allamano, raggiunse in poco tempo centinaia di migliaia di iscritti. Così le comunioni eucaristiche nel santuario: 97.820 nel 1881, salirono nel 1890 a 127.980.
Con queste iniziative avvenne che, attorno al santuario, ancora prima della fondazione dell’Istituto missionario, gravitasse già un «mare di gente», come scrisse nel 1990 don Dario Berruto, rettore del santuario. Anzi, è per l’esistenza di questo «mare di gente» che, accanto al santuario, poté nascere l’Istituto missionario.
Il tutto con calma, senza strafare, senza esorbitare nella richiesta di denaro. Però l’impronta era quella descritta in modo suggestivo da un cugino francescano dell’Allamano, il quale, in una visita al santuario, si sentì dire in piemontese dallo stesso rettore: «Noi di Castelnuovo siamo attivi, laboriosi, intraprendenti».
Così dicendo, l’Allamano aveva alzato le mani, agitandole, assumendo l’atteggiamento di chi si dà da fare e vuole lavorare. In tale modo il santuario da devoto o contemplativo divenne anche apostolico.
DUE AUREOLE DI DIAMANTI
Il santuario della Consolata, come è noto, è composto da due chiese: quella di S. Andrea, in forma ovale, e il santuario vero e proprio, in forma esagonale e con cupola, che si apre sul fianco interno della prima chiesa e contiene l’altare maggiore con l’icona della Consolata.
Le due chiese, prima dei restauri, comunicavano tra loro solo per una apertura di pochi metri, cosicché la maggioranza dei fedeli si ammassava nella navata di S. Andrea e nulla poteva scorgere. Di più: tra l’una e l’altra chiesa vi era un notevole dislivello, superato da una gradinata, che rendeva poco agevole la circolazione. I lavori d’ingrandimento, iniziati nel 1899, consistettero nel costruire ai due fianchi del santuario quattro nuove cappelle (due per lato e con cupola), capaci ciascuna di 500 persone, così da costituire quasi due nuove navate che, partendo dalla chiesa di S. Andrea, introducevano all’altare maggiore. Il santuario fu così ingrandito di 400 metri quadri, con la capacità di 2.000 persone in più. I finanziamenti giunsero sempre puntuali e sufficienti.
Se avesse potuto, l’Allamano avrebbe voluto incoronare la Vergine e il Bambino del quadro. Ma ciò era impossibile, perché l’immagine era già stata incoronata il 20 giugno 1829. Lanciò, allora, la proposta di porre attorno al capo della Madre e del Figlio due aureole con 12 stelle di brillanti.
Naturalmente i diamanti (in tale quantità!) non si potevano trovare tra i ciottoli del Po. L’invito ad offrire i giornielli fu rivolto a chi poteva. Aderirono le dame di Casa Reale, ma anche persone comuni. Le due aureole raccoglievano 759 brillanti, mentre ne erano stati preventivati solo 384…
Le celebrazioni centenarie dovevano aprirsi l’11 giugno 1904. Molti si attendevano che l’Allamano costituisse una commissione organizzativa. Ma così non fu: l’Allamano e il Camisassa assunsero su di loro tutto il peso del lavoro… Il 18 giugno il rappresentante del Papa, cardinale Vincenzo Vannutelli, procedette all’imposizione delle due aureole.
Le feste si conclusero con la solenne processione del giorno 19 (durata cinque ore), che terminò alle 21. Vi parteciparono 6 cardinali, 23 vescovi, 104 parroci… e una folla immensa. Fu una manifestazione religiosa imponente che non aveva precedenti «nella memoria dei torinesi di mezza età» (La Stampa, 20 giugno 1904).
In appendice, si può aggiungere che, nella notte tra il 7 e l’8 febbraio 1979, le due preziose aureole vennero rubate. Però l’Allamano, già al suo tempo, aveva provveduto a sostituire le due aureole, tanto appetibili ai ladri, con due finte. Quelle vere erano in cassaforte. Pertanto i ladri asportarono pietre false.
Ma che fine fecero i diamanti veri? Con l’autorizzazione della Santa Sede vennero alienati e venduti, dopo la seconda guerra mondiale, per ricostruire il santuario e il convitto ecclesiastico danneggiati dai bombardamenti del 13 agosto del 1943.
ATTIVI, LABORIOSI, INTRAPRENDENTI
Alle celebrazioni del 1904 parteciparono anche i missionari della Consolata, presenti a Torino: un piccolo gruppo, perché la maggior parte era in Kenya. La Consolata, giugno 1904, accenna al nuovo Istituto missionario e riporta una frase del cardinale Richelmy, che lo presenta come un’istituzione indipendente dal santuario, ma nello stesso tempo come un ingrandimento importantissimo del medesimo, nella lettera e nello spirito.
Nella lettera circolare del 6 gennaio 1905 ai suoi missionari in Africa l’Allamano, nell’apertura, accenna alle solenni celebrazioni: «Un sacrificio ben doloroso fu certo per voi l’essere così lontani… e non poter rimirare la santa Effige adoa delle nuove corone… Se i chierici, vostri confratelli, furono giustamente orgogliosi di assumersi in quei giorni la rappresentanza di voi ai piedi della Consolata, io me ne feci un dovere specialissimo. Lasciai in certo modo da parte le altre attribuzioni per non dimenticare la mia qualità di padre di questa nuova famiglia…».
Dopo le celebrazioni così ben riuscite, l’Allamano, che si era preso cura del programma da realizzare, «venne interpellato se non avrebbe accettato qualche distinzione onorifica. A questa proposta… rispose che egli personalmente nulla desiderava, ma che avrebbe volentieri accettato qualcosa che tornasse d’onore per il santuario. Chiese a Pio x che il santuario venisse eretto a basilica pontificia». Fu esaudito il 7 aprile 1906.
Ritorna alla mente la figura del rettore di fronte al cugino francescano, al quale dice: «Noi di Castelnuovo siamo attivi, laboriosi, intraprendenti». L’Allamano invita anche i suoi missionari a tirarsi su le maniche.
la Consolata e la «Consolatina»
Nel gennaio 1902 l’Istituto missionario aveva un anno di vita. Il mensile La Consolata ricorda anche il nuovo Istituto, del quale nel giugno 1901 era stata benedetta la cappella della prima Casa Madre in corso Duca di Genova (oggi corso Stati Uniti), denominata in modo allusivo «La Consolatina», con questo commento: «L’importanza di tale funzione sta a dimostrare come il culto della Consolata non sia solo contemplativo, ma attivo, né si restringa solo a Torino o all’Italia».
Il santuario era stato retto per secoli da monaci (Benedettini, Cistercensi, Minori osservanti) o da religiosi (Oblati di Maria, che contavano pure delle missioni). Certamente l’atmosfera che vi si respirava era monastica: una devozione alquanto centripeta, quasi fine a se stessa, come un focolare in pieno inverno… con la gestione di un pensionato per preti anziani. Dopo secoli, il santuario era invecchiato, senza che qualcuno pensasse a restauri.
Nel 1871 il santuario, per ragioni politiche, divenne diocesano, alle dipendenze del vescovo locale, gestito da sacerdoti. Il passaggio da un regime monastico ad uno diocesano si consolida, nel 1880, con l’Allamano. Questi nel 1883 inizia i restauri estei del santuario, per ricordare nel 1885 il 50° della cessazione del colera. Libera la cupola da un ballatornio esterno, che la cinge con poca eleganza; elimina gli speroni che sporgono dai tetti più bassi; riveste la cupola di piombo; rinforza con uno zoccolo in pietra il perimetro esterno del santuario… Poi, in occasione dell’8° centenario del ritrovamento dell’icona della Consolata (che cadeva nel 1904), iniziò nel 1889 i grandi restauri interni.
Intanto – come si è detto – intorno al santuario gravitava un mare di gente. Ed è per questo «mare» che poté sorgere l’Istituto missionario, immettendo aria nuova, aprendo porte e finestre, dando la certezza a tutti che il santuario, anche da un punto di vista finanziario, si era trasformato da «conca» a «canale». I fedeli compresero molto bene.
Oggi questa apertura deve, forse, essere in qualche misura ricuperata… sull’esempio di un prete diocesano, quale fu l’Allamano: senza strafare, seppe tirarsi su le maniche, insieme ai sacerdoti del santuario del suo tempo e, soprattutto, dei missionari (che restano pur sempre «i missionari della Consolata»), memori del detto profetico: «Guardate la roccia da cui siete stati tagliati» (Is 51, 1).

NON DI SOLO PANE

«La messa è finita: andate in pace!». Il coro esplode in un canto giornioso, ritmato dal rullio dei tamburi. I bambini guardano estasiati. Le donne conversano. Gli uomini sono già sul sagrato della piccola e pericolante chiesa di paglia e fango. Qualcuno discute animatamente con il missionario.
Io osservo tutto, distaccata. Nel mio pensiero non vedo le donne, né gli uomini, non risento i canti né il rullio del tamburo. Non vedo gli occhioni spalancati dei bambini. Non vedo nemmeno la loro povertà disegnata su abiti scoloriti, su piedi scalzi, su ventri gonfi. Sono assente.
Sono stupita di me stessa, oltre che dell’Africa e dei suoi cristiani.
Mi aspettavo richieste di aiuto: per la scuola senza banchi, per il dispensario senza siringhe, per la strada che non è una strada…
E invece no! Mi hanno chiesto di aiutarli a pregare. A pregare come si deve, in una chiesa decorosa, con finestre dalle quali entri la luce del sole, un pavimento sul quale possano sedersi i bambini accanto alle mamme, un tetto che non rischi di cadere loro in testa, un inginocchiatornio… mi hanno chiesto queste cose per pregare meglio. Perché «non di solo pane vive l’uomo…» (Mt 4,4).

Era l’agosto del 2003. Accompagnavo sette giovani di Torino per un campo di lavoro e conoscenza nella missione di Cuamba nella regione del Niassa, nel nord del Mozambico.
Qui opera e lavora con grande efficienza, ma soprattutto efficacia, padre Carlo Biella, missionario della Consolata, affiancato da padre Alberto De Jesus, diocesano aggregato, venezuelano.
Perché la nostra conoscenza fosse più ampia possibile, padre Alberto aveva organizzato, per le tre settimane del nostro soggiorno, incontri con la gente, che accorreva incuriosita per vedere i mucunha (i bianchi), dei quali però hanno paura. Sovente scappavano e i bambini si mettevano a piangere a pieni polmoni, quando uno di noi si avvicinava. Purtroppo gli sporadici contatti con l’uomo bianco, unica eccezione i missionari, si sono sempre rivelati «trappole»; hanno dovuto imparare a diffidae.
Gli ammalati, fiduciosi, attendevano la nostra visita, come se la nostra presenza potesse allontanare il male e insieme a loro pregavamo, per tutti.
Visitavamo le comunità con capanne sparse, anch’esse rigorosamente di fango e paglia, accompagnati dagli animatori che, durante il cammino, ci parlavano della guerra, ormai, fortunatamente, un lontano ricordo, dell’«esodo» di tanta gente che cercava rifugio altrove per sfuggire alla morte, di «un popolo in cammino». Nei loro racconti e nella semplice conversazione si ispiravano alla parola di Dio.
Rimanevo affascinata e meravigliata per la loro profonda conoscenza delle sacre scritture. Ho visto la loro fede!

L a cappella della comunità di Nakhapa, una delle circa 50 che fanno parte della missione di Cuamba, intitolata alla beata Vergine Consolata, era veramente messa male. I continui visibili rabberci erano ormai del tutto inutili; pezzi di fango si staccavano dalle pareti e il tetto sembrava che volesse crollare da un momento all’altro. La gente se ne vergognava; soprattutto temeva di dover rinunciare a incontrarsi nel giorno di festa, la festa vera, per pregare, vista la propria impossibilità di costruire una chiesa nuova perché troppo poveri.
Fu al termine della celebrazione che un animatore, alzatosi, disse qualcosa in macua, che il padre mi tradusse in portoghese: ora avrebbe avuto luogo l’offertorio ed era per noi.
Iniziò a sfilare una lunga processione di persone e ognuna portava il suo povero dono: un piatto di fagioli, una papaia, due patate di manioca, un po’ di riso, una manciata di fagioli. Probabilmente era il «pane quotidiano» dell’intera famiglia («l’obolo della vedova»).
In cambio mi chiedevano che, tornando in Italia, sensibilizzassimo la gente su questo problema al quale nessuno di noi dà più importanza. I fedeli africani ci chiedono di poter pregare in un ambiente dignitoso. Ci chiedono di aiutarli a ricostruire il loro «tempio», che considerano vitale quanto una casa, un dispensario, una scuola, una strada.

Non sono ancora riuscita a trovare il denaro necessario, sebbene la cifra non sia elevata. Questo mi fa vivere in sospeso, in una costante sensazione di incompiutezza. Ma quello che più mi rattrista è constatare che la generosità che distingue gli italiani si esaurisce… quando si chiede loro di costruire una chiesetta!

Gloriana Babbini

Igino Tubaldo