110 anni di missione, fedeli cambiando / Asia

Asia

Fino agli estremi confini (orientali) del mondo

Profetizzata dal beato Allamano: «Io non lo vedrò, ma forse andrete nel Giappone, nella Cina, nel Tibet», l’apertura ufficiale di una missione della Consolata in Asia dovette essere attesa per qualche decennio. Fu il VII Capitolo Generale (1981) ad iniziare a coltivare il sogno asiatico dell’Istituto che vide l’approvazione definitiva sei anni più tardi, nel Capitolo del 1987. La destinazione non fu il Giappone, né tanto meno la Cina o il Tibet, ma la Corea del Sud, alla volta della quale i primi quattro missionari, tutti giovanissimi (il più “anziano” aveva solo 35 anni) e provenienti da aree culturali diverse, partirono il 18 gennaio 1988. Inutile dire che dietro l’apertura in Corea aleggiava il sogno missionario della Cina, un desiderio destinato a rimanere tale fino ad oggi a causa degli insormontabili problemi di ordine politico e burocratico.
L’avventura asiatica rappresentava per l’Istituto una nuova frontiera missionaria dopo quella africana (a partire dal 1902, in Kenya) e, dal dopoguerra, latinoamericana. Come le due precedenti esperienze anche questa in Estremo Oriente era caratterizzata da alcuni tratti distintivi che individuavano l’originalità della nuova missione. Innanzitutto la dimensione di dialogo e di incontro. Avvicinarsi al mondo culturale asiatico significava farsi prossimi di tradizioni religiose molto più antiche della nostra e, quindi, da trattare con assoluto rispetto e con profondo atteggiamento di ascolto. In Corea si è voluto seguire questo stile di missione, dedicando anni di studio alla difficile (per noi) lingua e alla cultura del posto, un periodo di ambientamento che ha messo a dura prova la pazienza e la resistenza di molti missionari che hanno seguito negli anni le orme dei primi quattro pionieri.
A partire dal 2003, la nostra presenza in Asia si è impreziosita e completata con l’apertura della missione in Mongolia, pensata e concretizzata in collaborazione con le missionarie della Consolata. L’opzione di andare in un paese grande cinque volte l’Italia e con una popolazione complessiva di circa tre milioni di abitanti (di cui poco meno di un terzo vivono nella capitale Ulaan Baatar), a grande maggioranza buddista, va esattamente nella stessa direzione della precedente esperienza coreana.
Ciò che l’Asia grida a gran voce oggi all’Istituto è un qualcosa che appartiene al nostro Dna, ma che sovente tendiamo a dimenticare: noi siamo per i non cristiani. Così ci ha voluti il fondatore, ma così deve essere in ogni caso chiunque si professa missionario ad gentes. Attraverso la loro esperienza quotidiana, fatta spesso di testimonianza isolata e silenziosa, i nostri missionari ci richiamano all’essenza della nostra vocazione.
Vivere la novità
Ciò ha fatto sì che oggi in Asia si punti a proporre uno stile differente di missione, che non sia centrata soprattutto sulle opere, quanto sull’incontro con le persone. È la gente, soprattutto i poveri, con la sua quotidianità e le sue esigenze, a dare il passo e il tempo della nostra presenza là. Più che le strutture vengono favoriti i momenti di incontro, accoglienza e scambio vicendevole di doni culturali. L’ospitalità e l’ascolto diventano allora le parole chiave di una missione che vuole essere nuova.
Inutile dire che questo stile di evangelizzazione fondato su ciò che è piccolo e fragile, come può esserlo il nostro esporci al dialogo con l’altro, richiama anche un altro punto fondante del nostro carisma: la santità di vita. La missione in Asia passa oggi attraverso la scelta di una spiritualità forte come via preferenziale della missione, nell’essere, in altri termini, dei veri contemplativi in azione.
Dietro l’angolo il sogno cinese continua a fare capolino. Sono i nostri stessi confratelli impegnati in Asia a invitare con fermezza l’Istituto a fare una scelta radicale per il continente dove più numerosi sono i non-cristiani. La Cina, col suo miliardo e mezzo di abitanti rappresenta una frontiera che non può non essere presa in considerazione. Il Capitolo dovrà quindi avere tanto coraggio e anche molto equilibrio nel valutare le possibilità che il nostro Istituto ha di lanciarsi in una nuova missione di questo calibro. A prima vista, in un’analisi della realtà basata rigidamente su calcoli di natura umana, molto consiglierebbe di lasciare perdere. Bisogna però lasciare che lo Spirito soffi, è lui che da sempre spinge i missionari ad andare a dissotterrare tesori che lui stesso ha precedentemente seminato nel cuore delle culture. E allora, con la preghiera si vedrà!

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli

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