EGITTO – Glorie antiche e nuove miserie

Scorci di vita, arte e fede nella modea,
caotica e problematica città del Cairo.
È risorta l’antica biblioteca di Alessandria.

Incomincia alle quattro il canto del muezzin. È ancora buio e la voce è fonda, inquietante. Poi, canta il gallo. Dopo un’ora, il richiamo si ripete, più vicino, forte e insistente. Il suono vibra nell’aria: è tutto un richiamo, da moschea a moschea. Forse sono centinaia le moschee del Cairo e le più belle e antiche non sono lontane dal quartiere dove mi trovo.
Ieri ho percorso le strade tortuose, brulicanti di vita e traffico, che scendono dalla cittadella e si ricongiungono sotto le mura, a Bab Zuweila.
dall’alto di un minareto
Case e minareti dall’architettura preziosa, ma bisognose di restauri e pulizia, compongono un insieme di grande fascino, unico al mondo. Passano ancora i carretti con l’asino e i taxi sgangherati, ma audaci nell’evitare gli intoppi. Gli uomini per lo più fumano il narghilè o giocano a domino. Chi ha un commercio è grasso, seduto comodo, conta i soldi e fa lavorare qualche disgraziato, come servo. La vita pare quella del tempo dei mamelucchi, ha qualcosa di crudele. Le ingiustizie continuano e la sopravvivenza è dura.
Sono salita in cima al minareto di una delle tante moschee: una scala buia e stretta, piena di polvere e calcinacci, mi ha portato su un balconcino diroccato e polveroso. La vista al tramonto era commovente.
Il guardiano ha chiesto la mancia e mi ha lavato le mani con la sua bottiglia. La sporcizia è indescrivibile, copre ogni cosa. I tetti delle case sono terrazze colme di pattume e rifiuti. Le folate di vento sollevano la polvere e la spostano sulla città. Dicono che vivere e respirare, al Cairo, è come fumare un pacchetto di sigarette al giorno.
Ma la città mi affascina. Stamattina il cielo è limpido, dopo il vento della notte. Sono scesa in strada a cercare un luogo dove bere un tè. Nel quartiere non ci sono locali, tolto qualche fumeria per soli uomini. Ho chiesto informazioni e subito un signore mi ha portato una sedia e ha chiesto a un vecchietto magro, col turbante, di andare a farmi il tè. Il bottegaio vicino ha voluto pagare e mi ha pure dato da sgranocchiare una cialda di gelato.
Un drappello di curiosi si è fermato a darmi il benvenuto. Nel quartiere, la gente è accogliente. Molti sono cristiani e parlano francese. Chiese e scuole sono una accanto alle altre, con le moschee. Ci sono maroniti e greci ortodossi, cattolici di rito copto e armeni, melchiti, caldei e tanti altri, ma la grande maggioranza dei cristiani d’Egitto è copta. Le chiese sono numerose e i riti antichi durano ore e ore.
I francescani sono presenti in Egitto da 500 anni e hanno un santuario in città, Sant’Antonio, dove incontro il superiore provinciale, padre Samuele. Ai tempi delle crociate, san Francesco arrivò fin quaggiù, in Egitto, che è terra santa. A Damietta fu ricevuto dal sultano, che lo prese a benvolere. Ma prima, era stato imprigionato e picchiato.
«secolari», ovvero Laici

Ci sono anche egiziani che in moschea non ci vanno proprio. «Siamo secolari» mi dicono tre amici che incontro in un caffè di Zamalek, il bel quartiere residenziale nella grande isola sul Nilo, cuore della città. «Volete dire che siete laici?» domando. Non avevo mai sentito un’affermazione simile dai musulmani.
Gamal, Nabil e Ahmad sono giornalisti e ammettono di non andare mai a pregare. Lavorano per il più importante settimanale arabo, diffuso in tutto il mondo, Al Ahram. Ciascuno di loro è specializzato in un settore: economia, studi politici e strategici, politica internazionale.
Stiamo bevendo un cappuccino all’italiana: ho la sensazione di essere in una città europea. La loro mente è aperta, hanno viaggiato e conoscono il mondo. Non hanno evidentemente problemi economici e si confrontano spesso con persone di altre culture.
Cerco di sapere qualcosa di più sui problemi del paese, specialmente per quanto riguarda l’integralismo islamico. Ma non ottengo molto, solo notizie generiche. Più tardi, sfogliando il loro giornale, noto che anche le notizie pubblicate mancano di critica, sono elusive. Un articolo parla della carità pubblica durante l’epoca mamelucca, ma potrebbe andare bene anche nella situazione odiea: pochi eletti, che hanno grandi ricchezze, qualche volta si compiacciono di aprire un’istituzione di beneficenza per i molti diseredati.
La madonna «Sospesa»
Le carrozze del nuovissimo metrò sono stipate di studentesse che ritornano a casa dopo le lezioni. Quasi tutte hanno il velo sul capo. In pochi minuti, da piazza Ramses raggiungo il nucleo più antico del Cairo, la Babilonia di fondazione romana, del secondo secolo, di cui rimangono parte delle mura.
Un tempo ricca di chiese, è sempre stata la roccaforte del cristianesimo copto. Sono in corso lavori di restauro (era ora!) nelle cinque chiese cristiane rimaste, collegate tra loro da strette vie acciottolate. Ne trovo aperta solo una, quella dedicata alla Madonna, detta «la sospesa», perché costruita sopra i bastioni della porta romana.
Bishoy è uno studente universitario, che desidera fare conversazione in francese e in inglese. Originario di Wadi Natrun, è figlio di un avvocato e studia per diventare guida turistica. Insiste per accompagnarmi nella visita, parla anche un po’ di italiano e mi fa notare tutti i simbolismi nelle decorazioni della chiesa. L’iconostasi è in legno intarsiato, di cedro, ebano e avorio; il pulpito in marmo, con le tredici colonnine che simboleggiano gli apostoli e Gesù.
«I miei antenati hanno sempre pagato le tasse» afferma Bishoy, quando gli chiedo come è stato possibile mantenere la fede cristiana in tanti secoli di egemonia islamica. Per molti secoli, dopo l’invasione araba, pagare era l’unico modo per poter conservare la propria fede. Chi non poteva farlo, doveva convertirsi.
I copti, cristiani d’Egitto, sono molto forti e mantengono ottimi rapporti con i musulmani. Pare non si sentano assolutamente una minoranza, anche se sono solo 3 milioni. Due ministri dell’attuale governo sono copti, il nipote di Boutros B. Ghali (ex segretario generale dell’Onu) e una donna, anche lei di famiglia molto facoltosa.
Non ci resta che pregare!
Noha è orgogliosa di essere egiziana, ma ha passaporto canadese e lavora tra Dubai e Usa. Le vacanze le ha passate al Cairo, in famiglia, e ora ci troviamo in partenza insieme, all’aeroporto. Le ho appena confidato le mie perplessità su quello che ho visto e sentito in due settimane. Un islam forte, seguito e praticato come non avevo mai visto in altri paesi, moschee piene di uomini in preghiera, cinque volte al giorno, anche i bambini, che imparano dal papà a fare abluzioni e genuflessioni.
«Dove va il denaro del petrolio, del turismo, del canale di Suez? Questo presidente lo fa sparire, all’estero – spiega Noha -. Il suo entourage e la famiglia si sono arricchiti scandalosamente e continuano a sfruttare la situazione. La gente comune è disperata, paga le tasse e riceve paghe da fame».
Pare che l’Egitto stia passando una grave crisi economica. Persino le banche si rifiutano di soddisfare richieste di prelevamenti consistenti. «Quando si vive nella miseria più disperata – insiste Noha – non resta altro che pregare».
Coloro che vengono in gruppo per ammirare le ricche testimonianze di un’antica civiltà non si rendono conto della situazione reale del paese. Il nuovo aeroporto è ora collegato alla capitale da un viale fiorito, circondato da ville e alberghi di lusso; ma le guardie che vi fanno servizio, afferma l’amica egiziana, non ricevono più di 150 lire egiziane al mese (equivalente di 45 euro), gli spazzini circa 30.
Nel quartiere di Heliopolis vive anche Mubarak, in un palazzo fiabesco. «La verità non la trovi certamente sui giornali – aggiunge Noha, che collabora con alcune reti televisive americane -; il paese è tenuto sotto controllo col pugno di ferro. Ma la corruzione è a tutti i livelli. Esercito, polizia turistica e polizia segreta sono ovunque, specialmente nei luoghi frequentati dagli occidentali. Ma qui si può comprare chiunque, tutti sono corruttibili».
Altri dati me li fornisce Aldo, un tecnico di origine friulana che lavora in Egitto da sette anni. La sua vita l’ha trascorsa in cantieri di tutto il mondo. L’impresa francese per cui lavora ha costruito il metrò, ponti e sottopassi in città, e tra poco aprirà un cantiere di una diga sul Nilo, in alto Egitto. Dopo aver dato lavoro a migliaia di egiziani, ora ha incominciato a licenziare.
Aldo mi spiega: «Le imprese con più di 100 operai devono avere una moschea e lasciare il tempo ai dipendenti per partecipare alle cinque preghiere giornaliere. Nei primi tempi, i miei tecnici non andavano a pregare, ora ci vanno tutti!».
Un ingegnere riceve 300 euro al mese, ma se vuole far studiare i figli deve pagare una scuola privata: quelle buone costano molto care, fino a 1.500 euro al semestre. Gli operai ne prendono 75-100.
Gli italiani come Aldo sono numerosi in Egitto. «Avevo chiesto un appartamento piccolo, perché la mia famiglia non ha voluto seguirmi questa volta. Ma qui le case per gli stranieri, nei quartieri eleganti e pieni di verde, sono tutte molto ampie. Non ci sono mezze misure, come non esiste la classe media. Pochissimi hanno i soldi, gli altri sono poveri, ma pagano le tasse».
La situazione per il futuro si presenta tutt’altro che rosea.

DAI PAPIRI A INTERNET

F ondata da Alessandro Magno nel 332 a.C., Alessandria fu scelta da Tolomeo i (325-285), luogotenente del conquistatore macedone, come capitale dell’Egitto. Grande cultore del sapere, il monarca volle fae anche la capitale della cultura, con la raccolta sistematica di testi su tutto lo scibile del tempo, per preservarli e metterli a disposizione del pubblico. Con la collaborazione del letterato greco Demetrio Falerio, nel 292 a.C., diede vita a due istituzioni: la biblioteca e il museo. Nella prima venivano raccolti i testi; nel museo (casa delle muse) erano fatte le edizioni critiche dei testi e ricerche di carattere scientifico.
Museo e biblioteca furono una vera fucina di cultura. Di lì passarono i più grandi cervelli dell’epoca, tra i quali il matematico Euclide, il pittore Apelle, Erofilo di Calcedonia, fondatore dell’anatomia scientifica, il poeta Callimaco, Eratostene (244 a.C.), che calcolò la circonferenza terrestre, con uno scarto di appena 70 km.
Qui fu tradotta in greco la bibbia ebraica (la famosa traduzione dei Settanta), vennero scritte opere come il libro biblico della Sapienza e Filone cercò di armonizzare la teologia dell’Antico Testamento con la filosofia greca.
L’ambiente alessandrino ebbe un notevole influsso anche sul cristianesimo primitivo, soprattutto nel campo teologico e missionario.

S i dice che, ai tempi di Cleopatra, la biblioteca contenesse 700 mila opere, tra papiri e pergamene. Ma proprio durante il suo regno, 40 mila rotoli andarono in fumo, quando Giulio Cesare, nel 48 a.C., appiccò il fuoco alla flotta egiziana e le fiamme si propagarono anche alla biblioteca.
Più gravi furono gli incendi dei secoli seguenti, tra cui quello provocato da Zenobia, regina di Palmira, nel 269 d.C., dell’imperatore romano Diocleziano, nel 295, e di Teofilo o Cirillo, vescovi di Alessandria, nel 391.
Gli storici si sbizzarriscono per sviscerare le leggende e spiegare i motivi di tante distruzioni. La classe sacerdotale egiziana avversava gli scritti esoterici di altre religioni, con relativi segreti e formule di alta magia; i romani, cominciando da Cesare (si dubita che il rogo sia stato accidentale), temevano i testi di alchimia, con i quali l’Egitto avrebbe potuto cambiare il ferro in oro (così si credeva), mettendo a rischio la supremazia dell’impero romano; c’erano invidie campanilistiche tra Alessandria e Pergamo, altro centro culturale di quel tempo, dalla cui biblioteca Pompeo sottrasse 100 volumi per regalarli a Cleopatra. Infine, con lo sviluppo del cristianesimo, la biblioteca era l’ultima roccaforte del paganesimo.
Ma il colpo di grazia venne dalla conquista araba. Nel 642 Alessandria fu presa e saccheggiata dalle truppe del generale Amr Ibn-el-as. Un cristiano studioso di Aristotele, Giovanni Filopono, cercò di persuaderlo a risparmiare la grande biblioteca. Il generale chiese consiglio al suo sovrano, Omar i, califfo di Baghdad, che gli rispose: «Se i libri contengono cose difformi dal Corano, vanno distrutti perché non dicono il vero; se il loro contenuto si accorda col Corano, vanno distrutti ugualmente perché inutili».
Si dice che i rotoli furono usati come combustibile dei bagni termali della città, che erano circa 4 mila; ci vollero sei mesi per bruciarli tutti, incenerendo così il patrimonio culturale pazientemente raccolto per quasi un millennio.

A 14 secoli di distanza, un nuovo tentativo di raccogliere in un unico luogo il sapere umano. Sotto la direzione dell’Unesco e con i contributi inteazionali (1 milione di euro dall’Italia) è stata ricostruita, più o meno sui resti dell’antica, la nuova Bibliotheca Alexandrina, inaugurata ufficialmente il 16 ottobre 2002, destinata a diventare la più grande biblioteca del mondo: può contenere 8 milioni di volumi.
Per la struttura, il nuovo edificio non ha molto a che fare con l’antico. Si sviluppa in altezza per 11 piani: 4 nel sottosuolo e 7 in superficie; ha la forma di un disco solare (simbolo di Ra, il dio del sole) di 160 metri di diametro: un lato è rivolto verso il Mediterraneo, l’altro verso il cielo; il tetto assomiglia a un microchip, emblema di modeità.
I testi delle tradizioni religiose sono nei piani inferiori; in quelli superiori le scienze modee; nei piani più alti l’high tech. Anche la disposizione simboleggia l’incontro tra passato e presente, storia antica e modea.
La biblioteca è infatti dotata di modei supporti informatici, strumenti multimediali, audiovisivi, sofisticati strumenti ottici per analizzare nel dettaglio gli antichi papiri.
Sulla facciata del corpo principale sono incisi 4 mila caratteri, espressione di tutte le lingue del pianeta.
È dotata pure di un ottimo sistema antincendio. Eppure, all’inizio di marzo 2003, il fuoco sviluppatosi al quarto piano, ha distrutto molti uffici e intossicando lievemente una quarantina di persone, ma senza danni per le opere.
C’è ancora qualcuno che non vuole questa biblioteca?

B.B.

Claudia Caramanti




TANZANIA – Piedone l’africano

Una sconosciuta località africana ha conservato,
per milioni d’anni, i «segni» di una presenza umana.
Quasi un piccolo miracolo, che lascia ammirati e pensosi.

Laetoli è una piccola località del Tanzania, a 45 km da Olduvai, sul confine con il Kenya. Fra tutti i luoghi di interesse di ricerca fossile nella Rift Valley, che ormai sono moltissimi, Laetoli è davvero un luogo molto strano, diverso da tutti gli altri.
Il comune denominatore degli altri siti fossili è il deserto, o un luogo assai caldo, disidratato, inabitabile, anche se in un’epoca remotissima era forse rigoglioso, magari lacustre o, almeno, servito da tortuosi torrenti. Laetoli, invece, ha conservato la caratteristica di un tempo, circondato da diversi piccoli laghi. Non è certo il paradiso dei fossili, dato che non compaiono a fior di terra come nel triangolo di Afar (Etiopia) o nei canyon dell’Omo.
Louis Leakey, padre dell’attuale paleontologo Richard Leakey, sin dal 1935 aveva fatto un sopralluogo a Laetoli, in cerca di fossili ominidi. Aveva trovato qualcosa, ma aveva definito la sua scoperta «un canino di babbuino» e, con questa etichetta, ne aveva fatto omaggio al British Museum di Londra.
Quel dentino restò nascosto in mezzo ai tanti altri finché, nel 1979, un giovane studioso di nome Tim White non lo notò e lo studiò a fondo e finì per essere «riscoperto» come il più antico reperto fossile di ominide esistente. Se Leakey l’avesse saputo, avrebbe fatto salti di gioia, nonostante i suoi proverbiali dolori artritici.
Leakey abbandonò Laetoli, lasciando il posto a un tedesco, Kohn Larsen, che scoprì un pezzo di mascella con un paio di premolari. Anche questo studioso si accontentò di classificare il reperto con l’etichetta di «scimmia antropomorfa». A quel tempo, oltre 60 anni fa, era inconcepibile per gli antropologi pensare a un fossile del genere homo o ominide, vecchio di milioni di anni.

La fortuna… in tasca

Ma fortuna e gloria stavano per tornare a bussare in casa Leakey, grazie a sua moglie, anch’essa assai patita come lui di roba fossile. Mary, nel 1976, decise di fare un ennesimo tentativo di ricerca a Laetoli.
Aveva un aiutante kenyano da lei bene addestrato, Kaymoya Kimeu, che in poco tempo scoprì un fossile di ominide. Mary Leakey si precipitò sul luogo con una nutrita squadra e mise insieme 42 reperti. Uno ebbe l’onore di essere classificato «assai interessante»: una mandibola con infissi 9 denti. Il mondo paleoantropologico lo conosce come il fossile ominide lh-4. Ma a rendere ancor più interessante è il fatto che in quel luogo gli ominidi hanno lasciato le loro impronte: orme di piedi umani! Una caratteristica esclusiva di Laetoli per molti anni; oggi condivisa da altri quattro luoghi in Siria, Ungheria, Francia e Italia.
Come è stato possibile che queste orme si siano conservate per oltre 3 milioni di anni?

All’inizio… un’eruzione

Lontano da ogni fantasticheria, uno studioso è riuscito a ricostruire la scena, avvenuta 3,5 milioni di anni fa, quando il vulcano Sadiman si spense per sempre. Sul terreno rimase un sottile strato di carbonatite, simile a finissima sabbia di spiaggia. Poi piovve. Impregnata di acqua, la cenere formò una pasta, come cemento fresco, sulla quale le creature di quel luogo lasciarono le loro impronte: elefanti, giraffe, antilopi, maiali, lepri… e persino struzzi, galline e piccoli insetti.
Ben presto, lo strato di cenere si indurì al sole e, prima che piovesse una seconda volta, il vulcano riprese a eruttare, coprendo le orme con uno strato di cenere di una ventina di centimetri.
La scoperta avvenne in modo fortuito: il gruppo di ricercatori di Mary si divertiva alla… guerra, usando come proiettili l’abbondante sterco di elefante, disseminato in quell’area. A un tratto, un giovanotto di nome Andrew Hill, mentre tentava di sfuggire al lancio di un proiettile e cercava altre munizioni per rispondere, notò strani incavi nel letto asciutto di un torrentello; si fermò a contemplare quelle impronte, che definì subito di animali; ma non diede importanza alla scoperta: erano solo impronte di animali del passato.
Trascorre un anno. Nel 1977 il figlio di Mary, Philip, toò a Laetoli con un collaboratore e scoprì altre orme e tracce; sospettò che alcune di esse fossero di piede umano… o ominide. Mary Leakey diede la notizia della scoperta in una conferenza negli Usa, lavorando anche un po’ troppo di fantasia: parlò anche di un pozzo d’acqua, attorno al quale animali e uccelli dovevano essersi radunati, del panico che dovevano avere provato, fuggendo spaventati per la pioggia di polvere vulcanica.
Alcuni paleoantropologi risero sotto i baffi; altri rimasero elettrizzati dalla descrizione. Un’esperta americana di orme, Louise Robbins, accettò di unirsi alla squadra di ricercatori per l’anno seguente, seguita da altri tre studiosi, seri e critici. La conclusione della campagna di scavi e ricerche mise tutti in subbuglio e in disaccordo.
Paul Abell, uno dei tre studiosi, un giorno scoprì una speciale orma, molto più chiara delle altre e la fotografò. Ma Robbins la definì subito e senza pensarci troppo: impronta simile a quella di una mucca. Abell non ne era convinto, ma dovette ubbidire anche lui agli ordini di Mary Leakey che, esasperata, fece sospendere tutti gli scavi.
Ma Jones, un altro dei tre studiosi aggregati, era sempre più convinto dell’interpretazione di Abell e riuscì a strappare a Mary il permesso di fare ancora un «piccolo» scavo.
«Ma piccolo piccolo!» insisteva Mary. E, per mostrare la sua sfiducia, incaricò degli scavi Ndibo, un uomo addetto alla manutenzione del campo. Questi, pacioccone, si mise all’opera, imitando i suoi «professori» e il giorno dopo toò tutto giulivo.
– Vieni a vedere, mama: ho trovato non una, ma due orme. Una piccola e una molto grande, di 30 cm!
– Ndibo! Sei davvero uno spaccone. Non contare frottole!
– Ndibo non conta frottole!
Mary andò a vedere; rimase con gli occhi spalancati, incapace di credere a se stessa: le orme si dirigevano a nord, verso un intrico di vegetazione, protette da una zona erbosa.
Gli studiosi tornarono all’opera con entusiasmo ed esasperante lentezza. Orma dopo orma, liberarono un lungo pezzo di terreno: alla fine, più di 50 orme appaiate, una piccola e una molto più grande, procedevano in linea retta per circa 23 metri: 3 milioni 700 mila anni or sono, ominidi in posizione eretta avevano camminato su della cenere caduta da poco, a Laetoli, lasciando ai posteri il ricordo del loro passaggio.

Come impronte sulla spiaggia

La conservazione di queste orme ha del «miracoloso». Un incredibile concorso di vari fattori ha permesso tutto ciò. Basti pensare a quanto resistono le orme di un piede umano sulla sabbia, in un pantano o sulla terra umida.
Viene voglia di dubitare sulla sicurezza di questi studiosi, che hanno scoperto e definito tali orme «di ominidi». Ma non ci sono motivi plausibili per controbattere. La serietà degli esami del tufo vulcanico, in cui le impronte sono rimaste impresse, permette di stabilire anche la datazione. L’esame con il metodo potassio-argo ha confermato che i due tipi di tufo esaminati risalgono rispettivamente a 3,59 e 3,77 milioni di anni fa.
Descrivendo la scoperta di Laetoli, così dice Tim White: «Sono orme come quelle di un essere umano moderno. Se ce ne fosse una su qualsiasi spiaggia, oggi, e si chiedesse a un bambino di quattro anni di cosa si tratti, quel bimbo direbbe subito che è di qualcuno che camminava; non la troverebbe differente da altre centinaia. Nelle impronte di Laetoli la morfologia estea è la stessa: tallone moderno ben formato; arcata sostenuta, polpastrelli delle dita. L’alluce è bene allineato, non sporge di lato come quello di una scimmia antropomorfa o di tanti disegni di australopiteci, che si possono vedere riprodotti nei libri.
Non intendo dire che non ci potessero essere delle piccole differenze nella struttura ossea del piede; questo dobbiamo aspettarcelo. Ma, a tutti gli effetti, gli ominidi di Laetoli camminavano eretti come noi, non con andatura strascicata, come molti hanno sostenuto per tanto tempo. Credo che queste orme siano allo stesso livello delle più fantastiche e illuminanti scoperte di questo secolo».

SIAMO TUTTI UN PO’ AFRICANI

Un giorno, parlando con un antropologo sull’insostenibilità del significato scientifico del concetto di razza, questi mi disse: «In fondo siamo tutti africani» volendo intendere, con questa sua frase, che l’antenato comune all’intera umanità compì i primi passi proprio sull’attuale continente africano.
Dalle foreste verdeggianti e rigogliose, il genere umano si è poi espanso ed evoluto, dominando il globo, dimenticando spesso la sua comune origine. Questo ha fatto sì che, per molti europei, l’Africa altro non sia che una terra da contrapporre, generalmente in senso negativo, alla nostra civiltà: è il «continente nero» (non volendo, tra l’altro, vedere che in Africa vivono decine di milioni di altri gruppi umani, tra cui anche i bianchi).
Quante Afriche conosciamo? Sappiamo di una terra in cui è bello e chic andare a trascorrere un paio di settimane l’anno, purché «protetti» dalle rassicuranti mura di un villaggio dell’agenzia di viaggio, dove gli africani li vedi solo quando ti portano gli spaghetti al tavolo o puliscono la camera.
Oppure conosciamo un’Africa meno umana e più animale, dove ti propinano visite «mordi e fuggi» a tribù locali come contorno ai safari.
Infine, c’è un’altra Africa, purtroppo la più vera, raccontata dai mass media e missionari: denutrita, devastata dal colonialismo, dissanguata dalle guerre, sfruttata dalle multinazionali, dileggiata dai razzisti, umiliata dai leaders africani (incivili e antidemocratici), che restano al potere perché appoggiati da governi occidentali (democratici e civili).

Spesso si afferma che l’Africa si è ridotta in questo stato perché è abitata dagli africani, negando a questi una specificità culturale e organizzativa.
È proprio per confutare questo modo di pensare che inviterei a visitare il Museo africano della Basella di Urgnano, ideato e realizzato dai padri Passionisti.
Per dissipare ogni dubbio sin dall’inizio, diciamo subito che nel museo non troveremo l’Africa dei depliant turistici e neppure quella dei negozietti che vendono collanine e statuette comprate per pochi soldi, ma riproposte a caro prezzo.
L’Africa che troveremo, invece, è quella del popolo, dell’africano che finalmente ritrova, nello spazio della Pianura Padana, il suo più ampio respiro.
Quello della Basella è un museo unico nel suo genere, in cui le preziose sculture esposte, per la maggior parte lignee, dimostrano quale elevata forma artistica abbiano raggiunto popolazioni che ci ostiniamo a definire «primitive», per il solo fatto che hanno seguito filosofie e percorsi di sviluppo propri, non coincidenti con i nostri.
Così è possibile restare estasiati ad ammirare l’intensa espressività di una mateità dei bambara del Mali, dove un bambino si avvinghia attorno alla vita della madre, protetto dalle sue braccia, o il realismo di un volto bronzeo degli ashanti o la spiritualità che emana un reliquiario bwestern.

Per evitare che il visitatore meno attento si smarrisca culturalmente tra le figure esposte, i curatori del museo hanno scelto di esibire solo le opere artisticamente più significative (una quarantina in tutto), dislocate in teche di vetro. Attraverso una serie di percorsi tematici, si è condotti da un fascio di luce, accompagnato da una voce fuori campo, a percorrere differenti itinerari che si soffermano su particolari gruppi scultorei. Di particolare interesse è il circuito dedicato alla fertilità della donna, che, oltre a mostrare le opere più interessanti esposte nella sala, delinea l’importanza del ruolo femminile nelle società africane.
Per chi volesse entrare più a contatto con la realtà attuale del continente, un filmato di una ventina di minuti dà allo spettatore la visione dei variegati aspetti delle società africane: dai calmi ritmi di vita delle popolazioni tribali alla frenesia delle città modee, senza trascurare le immagini degli slums che avvinghiano come serpenti i ricchi centri commerciali delle megalopoli.

Ma la grande peculiarità del museo, sicuramente la più amata dai bambini e numerose scolaresche che vi fanno visita, rimane la parte dedicata alle attività interdisciplinari qui proposte. Laboratori di musica e danza guidati da artisti africani o atelier di scultura e pittura, aiutano i ragazzi a immedesimarsi nel vero spirito di un continente geograficamente a noi vicino, ma intellettualmente lontano.
Per i più grandicelli, le mostre tematiche, rinnovate periodicamente, rappresentano un ulteriore approfondimento di usi e costumi delle popolazioni locali. Attualmente il museo ospita una interessante esposizione sulla simbologia dei gesti nelle varie culture africane attraverso cui ci si può rendere conto di come semplici azioni quotidiane possono assumere significati differenti, spesso addirittura opposti, a seconda delle latitudini dove questi vengono espressi.
Nel lasciare il Museo d’arte e cultura africana mi rimane impressa una frase raccolta nella locandina del museo: «C’è comunque un gesto che è universale e che ha lo stesso significato in tutta l’Africa come in tutto il mondo: il sorriso».
E questo gesto, il sorriso, a pensarci bene, in un certo senso ci rende più simili agli africani.
In fondo, tutti noi siamo un po’ africani.
Piergiorgio Pescali

Giuseppe Quattrocchio




Felice di servire

Dopo vari anni di attività in Kenya e in Italia, dall’ottobre 2003 suor Gina Motta presta servizio infermieristico
ai missionari della Consolata bisognosi di cure, nell’infermeria della casa madre a Torino.
Ecco la sua storia.

«Sono l’ultima di quattro figli: un fratello e tre sorelle. In famiglia ho respirato armonia e gioia, pur nella semplicità.
Come tutti i giovani, nell’età dell’adolescenza mi ponevo la domanda: che cosa vuole Dio da me? Di una cosa ero sicura: desideravo vivere pienamente la mia vita ed essere felice. Ma come? Nel matrimonio? Oppure rimanendo nel mondo e consacrando la mia vita per il bene dei fratelli e sorelle? O come suora?». Così suor Gina comincia a raccontare la sua storia.
A quei tempi si chiamava Franca. Non lo dice, ma è certo che parecchi giovani le ronzavano attorno. L’attrazione di Dio, però, era più forte. Attirata dal silenzio e dalla preghiera, un giorno sentì perfino un forte desiderio della vita claustrale. Volle fare l’esperienza di condivisione con la comunità di un monastero di clausura. Alla fine della settimana, però, comprese che quel tipo di vita non era fatto per lei.
Provò un’altra strada: accettò l’invito a partecipare a un corso di esercizi spirituali presso le missionarie della Consolata, a Grugliasco (Torino). Seguì una breve esperienza di «vieni e vedi» con alcune suore e juniores di quella stessa casa: il loro stile di vita le piaceva, l’ideale di servire Cristo nei più poveri rispecchiava la sua indole. Forse era proprio lì che Dio la voleva.

«A 19 anni feci una drammatica esperienza – continua a raccontare -: Gino, il mio unico fratello, mentre stava assistendo a una corsa automobilistica a Monza, venne falciato insieme ad altri da una Ferrari uscita di pista».
Era il 10 settembre 1961: all’inizio della gara, il pilota Von Trips fu tamponato dalla Lotus, guidata da Jim Clark; la Ferrari schizzò contro le reti di protezione della tribuna della leggendaria curva parabolica, mietendo la vita di 13 spettatori.
L’improvvisa e tragica morte del fratello, accrebbe in Franca l’innato desiderio di aiutare chi soffre e cominciò a prestare servizio in un ospedale. Dopo solo due anni, il ricordo della morte del fratello ravvivò in lei la decisione di una scelta radicale: essere missionaria a vita.

«Il 28 ottobre 1963
salutati i miei amatissimi genitori e le sorelle, lasciata la casa, tante persone amiche e il lavoro, mi presentai alle missionarie della Consolata. Da quel giorno non mi voltai più indietro e ancora oggi, dopo 40 anni, sto vivendo in pienezza e con gioia la mia vita missionaria» continua suor Gina.
Non sono mancate le difficoltà; la principale veniva proprio da suo padre, che amava teneramente e da cui si sentiva profondamente amata. Egli non aveva alcuna obiezione che sua figlia abbracciasse la vita religiosa, ma la scelta di farsi missionaria le sembrava troppo radicale e obiettava: «Perché andare in Africa, così lontano…?». La sentiva perduta per sempre.
Tuttavia, Franca poté trascorrere gli anni della formazione in serenità. Giunto il giorno della professione religiosa cambiò nome, come si usava ancora a quei tempi, e prese quello del fratello.
Arrivò anche il giorno della destinazione: era proprio l’Africa. Suor Gina si recò in famiglia per salutare i genitori, parenti e amici. Il papà toò alla carica: «Perché in Africa? Perché tanto lontano…?».
«Senza minimamente pensare a san Francesco di Assisi – racconta la suora -, feci il gesto di slacciarmi l’abito religioso, dicendo: “È questo che vuoi, papà?”. Da quell’istante cessò ogni perplessità e mio padre approvò in pieno la mia scelta».
Prima di spiccare
il volo per l’Africa, suor Gina fu inviata in Inghilterra, per imparare la lingua inglese e specializzarsi nel campo infermieristico. Vi arrivò nel 1967 e cominciò a frequentare i corsi di infermiera professionale e ostetrica nell’ospedale di Kendal.
Per cinque anni lavorò in un ospedale protestante a Londra, facendosi subito stimare per la sua servizievole attenzione, non solo verso i malati affidati alle sue cure, ma anche a quelli di altri reparti.
La sua popolarità era alle stelle. Un giorno, una paziente ricevette un mazzo di fiori. «Che belli! Sono meravigliosi, stupendi! Ma che pensiero gentile…» diceva la signora con questi e altri convenevoli che solo gli inglesi sanno fare; in fine, rivolgendosi alla suora che la assisteva notte e giorno, concluse: «Grazie, grazie! Portateli a suor Gina, per favore».

Il 2 settembre 1972
suor Gina raggiunse il Kenya e cominciò il suo servizio nel Nazareth Hospital, gestito dalle missionarie della Consolata a Nairobi. Era stato appena avviato il nuovo reparto di mateità, voluto e inaugurato da suor Prisca, poco prima della sua tragica morte. Le fu affidato il compito di attendere alle mamme, che giungevano da varie parti del Kenya per essere assistite nel parto o per problemi connessi con la mateità.
Furono tempi indimenticabili, carichi di ricordi, vissuti intensamente e ripagati dalla gioia di aiutare una media di 2.000 bambini a venire al mondo ogni anno.
Una di quelle mamme, appena giunta all’ospedale, le disse: «Sister, voglio che il mio dodicesimo figlio nasca qui, perché sento che morirò… Sono venuta all’ospedale missionario perché voglio essere battezzata». La battezzò personalmente e le prestò tutte le cure necessarie per salvarla.
Purtroppo, poco dopo aver dato alla luce la sua creatura, Mary, la neo-battezzata, morì a causa di un’inarrestabile emorragia post partum. Era serena, sicura di lasciare il suo piccolo in buone mani. Le sue ultime parole furono: «Sono contenta di riunirmi ai miei antenati».

Nel 1977 si presentava
in Kenya un’urgenza inderogabile: trovare personale capace di formare infermiere locali. A suor Gina fu chiesto di prepararsi a tale compito, frequentando il corso biennale in Community Nursing Training presso il Nairobi Hospital.
Unica suora cattolica presente nell’ospedale statale, a contatto con persone di ogni razza, cultura e religione, suor Gina visse altri tre anni (1978-1980) indimenticabili, ricchi di episodi che lasciano il segno.
Un giorno, un indiano di religione sikh, ricoverato per sottoporsi a una difficile operazione, le disse: «Suora, lei è una donna di Dio: mi metta le mani sulla fronte e mi dia la pace».
La richiesta la colse di sorpresa. Pochi giorni prima, alla fine di un incontro del «Rinnovamento dello spirito», il prete, un americano, le aveva domandato se imponeva le mani sui malati; la suora aveva risposto con un sorriso di diniego; ma il prete, con una fanatica filippica, le aveva ordinato di imporre le mani sui pazienti e operare guarigioni. E lei, per nulla convinta, aveva risposto con serafico sorriso che avrebbe continuato a pregare per i suoi malati, ma le mani non le avrebbe imposte mai.
Passato il flash back, suor Gina rispose all’indiano: «Le mani sulla fronte te le metto volentieri, ma quanto alla pace, questa non viene da me: devi essere tu a riconciliarti con Dio e con i fratelli». Il paziente confessò che aveva litigato con un fratello a causa di un garage. Ma come riconciliarsi?
Si avvicinava il giorno dell’operazione e del compleanno dell’indiano: la suora gli suggerì di invitare tutta la parentela per la duplice occasione. E così avvenne: chiamò tutti familiari e si riconciliò con loro.
Una signora anglicana era in attesa di sottoporsi a una gastroscopia, poiché soffriva di tremendi crampi allo stomaco. Confidandosi con la suora, raccontò di avere litigato con il suo datore di lavoro e le chiese consiglio sul da farsi. «Cosa leggi nel vangelo – rispose suor Gina -? Se hai qualche cosa contro un tuo fratello, vai e riconciliati con lui». La donna chiese qualche ora di permesso; si fece accompagnare dal marito dal suo datore di lavoro e chiarì la faccenda: i crampi scomparvero e la donna non toò più in ospedale.
Più preoccupato della prenotazione cancellata e relativa perdita della parcella che dell’improvvisa guarigione, il responsabile dell’ospedale domandò alla suora che cosa avesse fatto a quella signora. «Niente; le ho solo consigliato di rappacificarsi con il suo datore di lavoro» rispose serafica suor Gina.

Conseguito il diploma
di abilitazione, suor Gina fu inviata all’ospedale missionario di Nkubu, come direttrice e insegnante della scuola per infermieri: aveva a carico la formazione di 140 allievi e allieve.
Furono cinque anni di stressante lavoro e responsabilità, che minarono la salute della suora, tanto da dover lasciare quella missione che, nonostante tutto, le procurava immense soddisfazioni.
Toò in Italia e, poco dopo, a Londra, dove rimase tre anni, dedicandosi alle più svariate attività: animazione missionaria nelle parrocchie, assistenza alle giovani suore venute in Inghilterra per imparare l’inglese, incontri ecumenici di preghiera con pastori protestanti e… lavori casalinghi.
Ritornata in Italia, per sei anni fece parte della piccola comunità di Albisano di Torre del Benaco (Verona). Anche là continuò la sua «missione»: oltre a dedicarsi ai malati, sia in comunità che nelle famiglie, si prestò con entusiasmo come catechista e animatrice liturgica nella parrocchia, senza dimenticare i servizi richiesti dalla comunità, compreso quello di autista.
Quando le fu offerta l’occasione di partecipare a un corso di aggioamento spirituale all’università Urbaniana di Roma, nel 1988 si trasferì nella capitale, prestando il suo servizio infermieristico alle sorelle e alle pensionanti della casa di Via Foscari. Nel 2001 continuò lo stesso lavoro nella casa di spiritualità a Caprie (Val Susa, Torino).

Nell’ottobre del 2003
dovette improvvisamente interrompere la sua attività nella comunità di Caprie, perché richiesta di sostituire la sorella infermiera presso i confratelli missionari della casa madre di Torino.
«Devo umilmente e con gioia ammetterlo – conclude suor Gina -: dal giorno in cui ho lasciato l’Africa, Dio ha continuamente aperto nuovi orizzonti nella mia vita, facendomi sentire sempre di più e in modi differenti la bellezza della mia vocazione missionaria.
Oggi ho la gioia di poter servire Cristo nei suoi figli prediletti, curando i confratelli missionari ammalati. Molti vengono dalla missione, altri sono impegnati in attività in vari centri dell’Istituto; alcuni stanno trascorrendo un periodo post-operatorio e abbisognano di cure specifiche, ma tutti vivono e offrono per la missione che desiderano rivedere al più presto.
Qui mi sento autentica missionaria, indirettamente impegnata nell’evangelizzazione. Con loro mi arricchisco nella conoscenza di altri continenti, di vita missionaria concretizzata nelle più diverse culture. Con loro condivido le ansie e le giornie del regno. Di tutto ciò non posso che ringraziare e lodare il Signore». •

Benedetto Bellesi




BENIN – Odore di futuro

In Benin dal 1987,
i cappuccini marchigiani promuovono attività
di evangelizzazione, promozione umana
e vocazionale; già
si vedono i primi frutti:
frati beninesi seguono
le orme di Francesco, camminando
accanto agli ultimi.</b< A Malanville, nell’estremo nord del Benin, i camion aspettano in fila prima di attraversare la frontiera con il Niger. La città è un enorme mercato a cielo aperto. Tra i chioschi si parla una lingua chiamata dendi; nelle strade tantissime buste di plastica impolverate si rincorrono, infilate dall’harmattan, il vento secco proveniente dal deserto.
La gente sembra molto rilassata. E sorride. Alcuni bambini sguazzano in un grande acquitrino, fuscelli neri accanto al grande fiume Niger. Sopra le loro piccole teste si allunga il ponte che collega le due dogane. Delle donne trasportano legna sul capo. Arriva a bassa velocità una vecchia auto, stracarica e ammaccata. Il conducente ci saluta con il clacson. Il doganiere abbassa la corda, fa un cenno con la mano, sembra scherzare, e li lascia passare.
Abbandoniamo Malanville in direzione sud, per ritornare sulla costa. Percorriamo una pista sterrata che fende tutta la grande distesa di savana. Se si lascia la via principale si possono prendere i sentirneri che portano diritti all’Africa vera, quella dei villaggi di capanne con i muri di terra rossa e i tetti di paglia.
Qui si parla il bariba e l’odore non è più quello di animali sgozzati sui banconi, ma di erba bruciata.

STREGONI… MANCATI

Siamo a Ina, diocesi di N’Dali, a 250 chilometri dal confine. Qui, nel novembre 2003, i cappuccini hanno inaugurato la parrocchia di Sant’Andrea. La nuova casa è stata affidata a padre Giansante, affiancato da un giovane frate africano. Insieme a loro si trovano anche quattro suore indiane. Tutti coinvolti in questa terra di evangelizzazione, dove i problemi non mancano.
Anzitutto la cronica mancanza di acqua potabile spinge a realizzare nuovi pozzi. Inoltre, questa è una zona in cui la disponibilità di elettricità è molto scarsa, per cui si fa ancora più rilevante la costruzione di un ambulatorio attrezzato e di una mensa per i poveri.
Tuttavia, le basi per iniziare un lavoro proficuo ci sono tutte. Le scuole liceali, agricole e tecniche, sono piene di giovani e la loro disponibilità sembra calda e sincera. Certo, gli ostacoli sul piano sociale e culturale non possono essere minimizzati. La lingua prima di tutto. Infatti le sacre scritture sono tradotte negli idiomi locali e le fatiscenti chiesette dei villaggi avrebbero bisogno di urgenti ristrutturazioni.
Padre Giansante se la sta cavando egregiamente. Il suo bariba migliora e la sua efficacia comunicativa sta ottenendo i primi risultati: i catechisti, formati dalla diocesi, sono già stati attivati per allacciare un bel rapporto tra la parrocchia e i vari villaggi. Perché lo scopo è formare una comunità unita e serena.
Infine, al frate marchigiano non guasterebbe una nuova jeep con gli assi rinforzati, per coprire la strada piena di buche che circonda le sue otto nuove stazioni, i nuovi piccoli mattoni della sua parrocchia, dove il tempo sembra essersi fermato in qualche ovattata cavità.
Le donne impastano la manioca o il mais, i bimbi sbadigliano avviluppati alla schiena delle madri, mentre gli uomini vanno a tagliare la legna nella boscaglia e i ragazzi più grandi tirano frustate alle poche vacche magre, intontite dal sole e lente sul sentirnero nascosto tra la sterpaglia.
Qualcuno, ai bordi della via principale, vende gli igname, un tubero simile alla patata. Non si muore per fame, sebbene l’alimentazione sia insufficiente. Superare i primi cinque anni di vita, però, è una battaglia vera: la mortalità infantile è ancora pesante.
Sulla via principale è stato costruito un modesto ambulatorio, dove incontriamo delle donne che aspettano di essere visitate. Comunichiamo a gesti. Loro fanno parte dell’etnia peul, una popolazione semi-nomade. Sulla porta del medico c’è un manifesto in cui si ricorda l’importanza delle vaccinazioni. È scritto in francese e sfortunatamente non tutti vanno a scuola. Le donne ancora di meno, costrette ad arrangiarsi, in una società patriarcale in cui la poligamia è una pratica molto diffusa.
Il capo del villaggio è da millenni maschio e anche lo stregone, al quale si può affiancare una sacerdotessa nella celebrazione del rito. Lo stregone ha il potere, parla con gli spiriti e confeziona le fatture, i grigri, per le quali gli viene corrisposta una lauta parcella.
Qui è terra di vudù, attraverso il quale, sin dall’alba dei tempi, gli uomini invocano gli dei per ottenere ricchezza, salute e prosperità.
Spesso, all’ingresso del villaggio, si può trovare una sorta di basso tabeacolo fatto in terracotta, contenente i feticci che rappresentano gli spiriti degli antenati e del mondo soprannaturale. I tabeacoli sono i guardiani, non fanno entrare la malasorte.
Ogni piccolo insediamento ha una capanna-feticcio dove su una pietra allungata, che funge da altare, si offrono piccoli sacrifici animali e libagioni, per rendere propizie le forze del mondo invisibile. Un tempo venivano fatti anche sacrifici umani.
A Oenou, una piccola frazione nella diocesi di N’Dali, si sta inaugurando un centro per bambini in difficoltà. Alcuni di essi sono stati diseredati dalla famiglia, perché accusati di essere bambini-stregoni. La superstizione detta che soltanto famiglie prescelte possono mettere al mondo gli autentici stregoni.
Se il neonato di una famiglia a cui è precluso procreare stregoni manifesta certi segni, come mettere prima i dentini superiori rispetto a quelli inferiori, o uscire dalla pancia con i piedi, significa che è uno stregone, ma spuntato nel posto sbagliato, e perciò rischia di essere eliminato. Molti vengono abbandonati, lasciati fuori dal villaggio in preda ai crampi allo stomaco.
Il centro che li ospita consta di dormitorio, refettorio e scuola elementare. Il progetto è andato in porto grazie anche alla generosità di una signora italiana che lo ha finanziato.
Alla cerimonia sono presenti autorità civili e religiose. Insieme al vescovo, partecipano i rappresentanti della comunità islamica. Prendono il microfono anche i capi del villaggio, custodi dell’eredità del passato: nell’elogiare la bontà dell’opera sociale, riconoscono il cinismo di alcuni precetti della tradizione.

BABELE RELIGIOSA

Salutiamo Oenou, inseguiti da una nuvola di bambini festanti, e ci dirigiamo verso la capitale economica, Cotonou, città portuale affacciata sull’oceano Atlantico. Le impronte del colonialismo francese sono ancora visibili: innanzitutto l’idioma, che si mescola tuttavia con la lingua del sud, il fon; poi l’organizzazione sociale, in quanto la cultura tribale è stata sconvolta da febbrili attività commerciali, inquinamento, traffico senza regole e, infine, da una crescente baraccopoli strapiena di poveri, che sopravvivono con pochi franchi al mese.
Sono gli esclusi, che si trascinano ai margini dei quartieri destinati ai signori della burocrazia ministeriale, corrotta e inconcludente, o davanti alle ville dei mercanti, che fanno affari con l’euro, l’occhio patealistico che sorveglia su tutto ciò che si muove, laddove un tempo sventolava la bandiera di Parigi.
Ma a Cotonou si tocca anche un altro aspetto della cultura dell’Africa modea: il sincretismo. In ogni angolo si erge un luogo di culto. Oltre a quelle cattoliche, ci sono chiese ortodosse e protestanti e poi numerose moschee: imponenti edifici, alcuni tutt’ora in costruzione, dove tranquillamente i musulmani pregano il Corano.
Di tanto in tanto, nella babele di motorini-taxi e macchine che sfrecciano da tutte le parti, si intravedono i templi dei cristiani celesti, seguaci di una setta che lega elementi del vangelo con spicchi di animismo. Questo pentolone, in cui ribolle il muezzin, il suono ossessivo del tam-tam e la preghiera cristiana, rispecchia la mentalità di perpetuare un rapporto magico con il mondo spirituale e la grande sensibilità del popolo africano per i segni della natura.
Quindi durante la messa i canti e le danze della tradizione si fondono con la liturgia, perché da queste parti l’incontro con il divino è pur sempre una festa.
Lo abbiamo constatato partecipando alle cerimonie di professione perpetua di tre giovani del luogo e di ordinazione del primo frate cappuccino del Benin, Aubin Aguessy. Le chiese erano stracolme, vive e pulsanti di tanti colori, segno di una comunità che si stringe e si impegna intorno ai simboli della parrocchia.
I missionari cappuccini, a cui abbiamo fatto visita, operano in questa striscia di continente dal 1987. Dove un tempo c’era solo un’enorme e desolante discarica, ora sorge un funzionante convento, accogliente , tra palmeti e alberi di mango, che ospita non solo religiosi e postulanti, ma anche viaggiatori che vengono dall’Italia.

ACCANTO AGLI ULTIMI

Intoo al convento ruotano le attività legate alla Caritas, alle corali che animano le funzioni religiose e alla gioventù francescana, un gruppo di ragazzi che portano conforto in giro per la città alle persone che stanno male.
Nella stessa area si trovano le comunità delle clarisse e delle suore terziarie francescane. Quest’ultime hanno lasciato circa 10 anni fa il Sud America, ora gestiscono un ambulatorio e un istituto femminile, dove si insegna il mestiere della sarta.
L’aids avanza drammaticamente e la malaria continua inesorabilmente a mietere vittime. Davanti all’ambulatorio le donne con i bambini fanno la fila per qualche farmaco, mentre a scuola si lavora in laboratorio, lentamente, perché il caldo sfianca.
Le alternative alla prostituzione non sono tante: la parrucchiera o la sarta. In Benin l’arte del pettine e delle forbici ha un grosso peso culturale. Infatti dal tipo di taglio si può dedurre se la ragazza è libera, quindi in cerca di un compagno, o se è impegnata. A occhio e croce il giro d’affari che si accumula intorno ai capelli è fortissimo, almeno dal punto di vista sociale, se si contano i numerosi «negozi di bellezza» disseminati per tutto il paese.
Le trecce forse leniscono la durezza dell’arrangiarsi; ma per chi dai villaggi giunge nella metropoli la vita non è affatto facile. Le ragazzine che sfuggono all’usanza dei matrimoni combinati trovano spesso la violenza della strada.
Per le donne, in generale, i diritti non sono estesi. Le mamme non hanno la tutela dei figli e, soprattutto nel clan familiare, contano zero, molto meno delle sorelle del marito. Il risultato di questa discriminazione è che molte ragazze scelgono di lasciare la famiglia per cercare fortuna in città. Dove spesso non la trovano. Alcune, invece, trovano i due orfanotrofi che i cappuccini hanno inaugurato da poco tempo, in cui sostegno e affetto ci sono sempre. Qui possono studiare, ricevere le cure adeguate, dormire al sicuro e mangiare tutti i giorni.
I presupposti per un intervento serio nel settore sociale ci sono, sebbene la prova del nove sarà quando il testimone passerà nelle mani dei frati africani, di chi, nato in questa terra, dovrà portare avanti il magistero e l’esempio vivo dei missionari venuti dalle Marche.
E i successori già sono stati designati o, per lo meno, si apprestano a esserlo. Sono i novizi, ragazzi non solo del Benin, ma anche del Camerun e Costa d’Avorio, che si preparano al sacerdozio nella terza casa dei cappuccini, quella di Ouidah, a 40 chilometri da Cotonou, sulla strada verso il Togo. A loro è affidata la costruzione di un ponte ideale tra Assisi e l’Africa, al fine di proseguire concretamente l’opera di occuparsi degli ultimi, in un continente che è davvero trattato a bastonate, ma che odora di futuro.
Verso il domani corrono i suoi bambini: ogni giorno si alzano per un tozzo di pane sempre amaro. Poi ineluttabilmente giunge la notte. La città si spegne, i mercati diventano silenziosi. Chi ha guadagnato, chi ha rubato, chi ha rimesso, chi ha comprato: ormai tutto si confonde nel buio.
Dalla foresta di palmeti volano in alto le strida degli uccelli e il rumore dei tamburi. Si fa festa, si fa il vudù. L’oceano ruggisce in lontananza, si espande il cielo nero violato qua e là da qualche luce.
Certo, non è la notte eterna del nord, dove le stelle sono l’energia elettrica, eppure anche stavolta la magia ha fatto la sua parte per rendere quel pezzo di pane meno amaro.

Paolo Brunacci




Rispetto per la vita

Teologo, pastore evangelico, organista, medico nella foresta africana,
premio Nobel per la Pace, scrittore
di opere di filosofia della religione
e musica… oltre alla sua poliedrica vita, di Albert Schweitzer rimane
sempre attuale il messaggio etico
e l’esempio della sua azione per il «rispetto per la vita».

«L’uomo ha la possibilità di agire in favore della vita o di recarle danno, nei rapporti con il prossimo e nel suo atteggiamento nei confronti della natura, fino a toccare i grandi problemi del nostro tempo: la pace, la crescita sociale, la cultura, la ricerca scientifica, l’ecologia», così Albert Schweitzer scriveva in Civiltà ed etica nel 1923, un’opera in cui propone considerazioni, suggerimenti e moniti su un argomento che è stato il credo di tutta la vita: il «rispetto della vita», applicato a ogni settore dell’attività umana che entri in contatto con esseri viventi.
Lo stesso principio fu da lui ribadito nel discorso tenuto nel 1953, in occasione del conferimento del premio Nobel per la Pace, e nel famoso Appello all’umanità, discorso sul problema della bomba atomica, lanciato da Oslo nel 1957 e trasmesso in varie lingue da molte reti radio.
Il «rispetto per la vita», come legge morale, mantiene il suo valore, oggi più che mai, per il comportamento del singolo e della società.

INCONTRO CON GLI IPPOPOTAMI

Fin dall’infanzia Schweitzer sentiva grande compassione per gli animali: nelle sue preghiere, prima di addormentarsi, non dimenticava di volgere un pensiero a tutti gli esseri viventi, compresi gli animali.
Grazie all’influsso del «Movimento per la protezione degli animali», sorto negli anni della sua giovinezza, tale sentimento diventò sempre più radicato nella sua coscienza, fino a diventare un autentico assillo, nella convinzione che anche la filosofia morale dovesse prendere in considerazione l’obbligo di un atteggiamento favorevole nei confronti degli animali.
Un giorno del 1915, mentre navigava il lungo fiume Ogooué per recarsi al capezzale di un ammalato, stanco per i tre giorni di viaggio, dovette costeggiare un isolotto. Sopra un banco di sabbia, quattro ippopotami si muovevano pacificamente nella sua direzione: ebbe come un lampo che illuminò un problema che da anni lo assillava: si convinse che un’etica limitata al nostro rapporto con altri esseri umani è incompiuta, parziale e priva di energia; gli venne in mente un’espressione che sintetizzava il suo pensiero morale e filosofico nei riguardi del mondo e dell’esistenza umana: «Rispetto per la vita».
Tale espressione era tradotta nella vita pratica: oltre ad essere vegetariano, il dottor Schweitzer era attentissimo a non calpestare i fiori; nella costruzione dell’ospedale di Lambaréné si preoccupava personalmente che, scavando le fondamenta o le buche per i recinti, non venissero uccisi insetti e lombrichi, fino a scavare con le proprie mani.

VIVERE E FAR VIVERE

Cos’è il rispetto per la vita? come nasce in noi? «Per far luce su se stessi e sul rapporto con il mondo – spiega il dott. Schweitzer – bisogna accantonare la congerie di elementi che costituiscono il nostro pensiero e cultura, per rifarsi al primo fatto della propria coscienza, il più immediato, perennemente presente: la volontà di vivere. Solo da qui può giungere a una visione ragionata del mondo… Affermare la vita è l’atto spirituale con cui si cessa di lasciarsi vivere e si comincia a dedicarsi alla propria vita, per elevarla ai suoi massimi valori. Affermare la vita è approfondire, interiorizzare, esaltare la volontà di vivere… Il rispetto per la vita, nato nella volontà di vivere, divenuta consapevole, contiene strettamente congiunte l’affermazione del mondo e l’esigenza morale. Essa cerca di creare valori e realizzare progressi che giovino all’ascesa materiale, spirituale ed etica del singolo e dell’intera umanità».
Fin dai primi anni del secolo scorso, Schweitzer si dedicò a una lunga ricerca sul pensiero etico dei filosofi degli ultimi decenni, per mettere a fuoco il nostro comportamento nei confronti del creato e fondare razionalmente il suo concetto di rispetto per la vita.
Mentre Descartes dice: «Penso, dunque esisto», ma poi si perde nell’astratto; Schweitzer, rimanendo sul concreto, afferma: «Io sono la vita che vuole vivere, in mezzo alla vita che vuole vivere. Bisogna dunque rispettare la vita. L’uomo morale possiede il coraggio di lasciarsi tacciare di sentimentalismo, ma rispetterà la vita universalmente». Ossia, l’essere umano può chiamarsi «essere etico» soltanto se considera sacra la vita in se stessa, sia quella umana che quella di ogni altra creatura.
Il «rispetto per la vita» nel pensiero di Schweitzer non è una semplice, pur nobile, affermazione di principio, ma una chiave di volta per la modea capacità di giudizio del progresso tecnologico e le sfide culturali che ne derivano. Anzi, tale principio diventa una professione di fede incrollabile: il sì alla vita diventa etica collettiva. Il suo compito primario è la realizzazione del progresso e la creazione di quei valori che possano favorire la crescita materiale, spirituale ed etica del singolo individuo e di tutta l’umanità.
Tale concetto è legato a quello di «moralità» come principio fondamentale. «Un uomo è veramente morale – sosteneva – soltanto quando osserva l’obbligo impostogli di aiutare ogni vita che può assistere e quando si fa scrupolo di uscire dalla sua strada per evitare di danneggiare un essere vivente. Non chiede quanta comprensione meriti questa o quella vita a causa del suo intrinseco valore; neppure chiede di quanta sensibilità sia dotata. Per lui la vita, come tale, è sacra».

LA GUERRA È DISUMANITÀ

Ma con il passare degli anni, analizzando i due conflitti mondiali e relative conseguenze, Schweitzer constatava che la mancanza di umanità era aumentata rispetto alle generazioni precedenti; e affermava: «Siamo venuti in possesso di armi nucleari: la possibilità e la tentazione di distruggere la vita superano ogni limite. Oggi, grazie al grandioso progresso della tecnica, il destino dell’umanità è segnato dalla possibilità di un orribile annientamento della vita». E si domandava come presentare a tutti e in modo nuovo, il problema della pace.
Se un tempo si considerava la guerra un male accettabile, se non addirittura utile per il progresso umano, almeno dei popoli più forti, dopo i due conflitti mondiali tale ipotesi era fortemente messa in dubbio. Il dottor Schweitzer non aveva esitazioni: «È evidente che una guerra rappresenta una orribile calamità e non bisogna lasciar nulla di intentato pur di evitarla; e ciò, soprattutto per una ragione etica. Nelle due ultime guerre ci siamo macchiati delle colpe di un’orribile disumanità, e sarebbe ancora peggio in una guerra futura. Questo non deve avvenire».
Un monito caduto nel nulla: nell’ultimo mezzo secolo le guerre si sono susseguite e intensificate in tutto il mondo. «Quello che oggi ci manca – proseguiva il grande pensatore – è riconoscere che siamo tutti colpevoli gli uni verso gli altri di atti disumani. L’orrenda esperienza collettiva, attraverso la quale siamo passati, deve scuoterci, perché la nostra volontà e la nostra speranza siano impegnate verso tutto ciò che può portare a un’epoca in cui non ci siano più guerre. Questa volontà e questa speranza sono possibili solo se, attraverso uno spirito nuovo, raggiungiamo un’intelligenza superiore, che sia in grado di trattenerci da un uso infausto delle energie di cui disponiamo».
Il suo pensiero non è nuovo. Quattro secoli prima, nel 1517, Erasmo da Rotterdam (1469-1539) aveva pubblicato un volume intitolato Querela Pacis (Lamento della Pace), in cui la Pace (retoricamente personificata) espone al tribunale dell’umanità il suo desolato lamento e chiede di essere ascoltata. Il grande umanista olandese, per primo, ha osato opporsi alla guerra con motivazioni puramente etiche, definendola contraria alla natura umana; ma non ebbe seguaci. Il suo appello alla pace, come imperativo etico, fu considerato un’utopia.
Nel 1795, Immanuel Kant (1724-1804) pubblicò un’opera dal titolo significativo: Per la pace perpetua; per realizzarla, suggeriva il filosofo tedesco, c’è bisogno di un’autorità arbitrale internazionale, che abbia l’autorevolezza di dirimere le controversie tra i popoli.

MASSE DA SPIRITUALIZZARE

Constatava che le istituzioni inteazionali (Società delle nazioni e Onu) non sono state in grado di promuovere una situazione di pace, perché hanno dovuto operare in un mondo in cui manca una mentalità orientata alla realizzazione della pace. «Essendo istituzioni giuridiche, non potevano creare tale mentalità: questo è possibile soltanto allo spirito etico. Kant si sbagliava quando pensava di poter ottenere la pace senza questo spirito etico».
Secondo Schweitzer la pace dipende dalla formazione di tale mentalità nei singoli e nei popoli, la quale consiste nel rifiutare la guerra in base a motivi etici, cioè, perché essa ci rende colpevoli di disumanità.
I tempi di Schweitzer e i nostri attuali si equivalgono: i popoli si sentono tuttora minacciati da altri popoli. «È inevitabile – precisava il premio Nobel nel ricevere il premio – riconoscere ancora ai popoli il diritto di usare, per legittima difesa, le terribili armi di cui disponiamo». Convinto di esprimere la speranza di milioni di persone, che in molte parti del mondo temono per la pace, concludeva: «Quelli che tengono in mano il destino dei popoli possano riflettere, per evitare tutto ciò che potrebbe peggiorare la situazione in cui ci troviamo e metterci in ulteriore pericolo, e possano prendere a cuore quella meravigliosa parola dell’apostolo Paolo: “Per quanto sta in voi, siate in pace con tutti”».
La figura di Albert Schweitzer e il suo concetto di «rispetto per la vita», sono più che mai attuali, fonte di ispirazione per chi lotta per conservare la propria umanità: un bene da tutelare a ogni costo. Ma è una lotta che non si combatte unilateralmente, è la spiegazione sottile ma concreta del filosofo alsaziano. «Essa chiama a riflettere sul fatto che molta umanità e molta libertà interiore possono conciliarsi con la realtà della propria vita, ben più di quanto di fatto si realizzi. È una lotta che spinge a conservare, se qualcuno vi avesse rinunciato, la meditazione e il raccoglimento interiore. Bisogna arrivare a una spiritualizzazione delle masse. Ogni singolo deve giungere a riflettere sulla sua vita, su ciò che vuole ottenere per la propria vita mediante la lotta per l’esistenza, sulle difficoltà legate alle circostanze estee e su ciò a cui è disposto spontaneamente a rinunciare».

Non c’è dubbio che, nei decenni passati, il filosofo alsaziano ha contribuito allo sviluppo storico e spirituale del nostro tempo, che ne rispecchia le tendenze, le speranze, le angosce. Il principio del «rispetto per la vita» è ancora un’affermazione che obbliga tutti, in qualunque situazione si trovino, a occuparsi e farsi carico del destino degli esseri umani. Responsabilità che si traduce in vari modi e vari nomi: nonviolenza, pacifismo, neutralità, difesa dei popoli, impegno per la giustizia, salvaguardia del creato.

(*) Gioalista scientifico, addetto stampa
Associazione Italiana Albert Schweitzer

Eesto Bodini




Pietro torna a casa

D al 20 al 26 marzo 2000, il papa si recò pellegrino ai luoghi della memoria del Redentore, incontrando il popolo israeliano e palestinese: chi non ha vissuto quei momenti emozionanti di storia, non può capire il significato, il valore profetico e le conseguenze future di tale visita.
Io c’ero.

VISITA INCOMPRESA

Quella di Giovanni Paolo ii può essere considerata la prima visita di un papa nella biblica Terra Promessa, per i cristiani Terra Santa (Paolo vi nel 1964 non andò in Israele e Palestina, ma solo in Giordania, che a quei tempi governava tutta la parte orientale della Palestina, compresa Gerusalemme vecchia).
Pochi compresero l’importanza di tale visita; molti la lessero solo dal punto di vista dell’opportunità politica del momento. La quasi totalità dei cattolici presenti in Terra Santa (Patriarcato, Custodia di Terra Santa, conventi, frati e anche suore) e nel mondo la contrastarono; molti si adoperarono perché fallisse.
Vi erano persone che pregavano per il fallimento ed erano arrabbiate contro il papa, che «farebbe meglio a starsene a Roma». Piccoli negromanti di sventura che non sanno vedere oltre il loro naso e sanno misurare la storia solo con il millimetro della loro esperienza, nonostante ogni giorno leggano la Parola di Dio.
Dopo la visita, le stesse persone dovettero ricredersi e qualcuno, più onesto, ammise la propria non lungimiranza, frutto di poca fede.
A Gerusalemme sapevamo che anche in Vaticano, qualcuno lavorava perché la visita fosse in tono minore, anche tra i più stretti collaboratori del pontefice.
Due settimane prima, il 12 marzo, prima domenica di quaresima, stringendosi al crocifisso e facendosi carico di 2000 anni di storia e di contraddizioni, il papa chiese perdono per conto e a nome della chiesa a tutti quelli che, lungo questi due millenni, avevano sofferto a causa della chiesa e dei suoi figli. Lui chiedeva perdono, ma cardinali, vescovi, preti, frati e qualche laico erano arrabbiati: lo consideravano un cedimento. Qualcuno si lasciò andare: «A noi chi chiede perdono?».
In quell’occasione si toccò con mano la solitudine ecclesiale di Pietro, che, consapevole della risposta del suo Signore che lo invita a non aspettare il primo passo, ma a perdonare per primo fino a settanta volte sette, procede fiducioso, buttandosi sulla parola del suo Maestro.
Quella richiesta di perdono e la visita in Israele-Palestina sono i due gesti pontificali che segneranno per sempre il pontificato. Giovanni Paolo ii sarà ricordato dalla storia come il papa del perdono e il papa che, dopo 2000 anni di lontananza fisica, ritoò a casa sua, sulle rive del lago di Genezaret, dove ricevette il mandato apostolico.

VISITA ISPIRATA

La visita nella terra della memoria cristiana fu un’ispirazione dello Spirito Santo, che guidò i passi del papa e fece sì che gesti e parole fossero solo di alto significato religioso da spiazzare ogni resistenza. Il papa, per la prima volta, non tenne conto delle richieste degli uni contro gli altri; ma parlò da papa, da cristiano, seguendo solo la sua coscienza: alla fine toccò il cuore degli uni e degli altri e anche dei cattolici.
Gli ebrei, per la prima volta in assoluto, assistono alla celebrazione della messa e possono ascoltare le preghiere cristiane, perché tutte le tv trasmettono ininterrottamente l’intera visita senza censure.
Nei libri di storia israeliani, i cristiani sono ricordati solo due volte: per la scoperta dell’America, di cui si mettono in evidenza solo le violenze sugli indigeni e le conversioni forzate, e per la shoà, sottolineando la responsabilità dei cristiani, specie il silenzio della chiesa cattolica. Duemila anni di storia essiccati in due tragici eventi. Tutto qui.
Vedere il papa, seguie le celebrazioni e ascoltae le parole hanno aperto un immenso spiraglio di comprensione e curiosità di sapee di più. Per le strade, nei negozi, nelle case, anziani e giovani sono emozionati; e quando nel Santo Sepolcro vedono il papa che, a causa della malattia, sbava mentre legge, si commuovono e si convincono di trovarsi davanti a un uomo di Dio.
Non è un caso che i rabbini capi, il 23 marzo, durante la visita alla Great Synagogue di Gerusalemme, gli regalano la bibbia ebraica con la dedica: «Benedetto tu, Giovanni Paolo ii, quando entri e quando esci», prendendo a prestito la citazione di Deuteronomio 28,6. Lo stesso giorno, allo Yad Vashem, il premier Ehud Barak lo saluta così: «Benedetto tu in Israele». Le parole sono pietre, che restano ancorate alla Palestina, da cui nessuno potrà più cancellarle.

VISITA PROFETICA

Il ritorno di Pietro in Terra d’Israele ha significato l’abbattimento del muro di diffidenza durato due millenni, creando le condizioni per un incontro, tra cattolici ed ebrei intorno alle scritture. Una prima grande conseguenza della visita è stata l’istituzione di una cattedra di storia-critica di cristianesimo all’Università di Gerusalemme, sul monte Scopus. Per la prima volta una università ebraica studia e fa ricerche sugli scritti del Nuovo Testamento, usando i metodi scientifici propri dell’università.
Da parte cattolica vi è stato un importante documento della Pontificia commissione biblica su Il popolo ebraico e le sue sacre scritture nella bibbia cristiana (2001), che rivaluta, anche dal punto di vista cristiano, alcuni metodi esegetici tipici del giudaismo del tempo di Gesù e della chiesa primitiva.
Questa visita non solo rompe un silenzio ostile di 2000 anni, ma apre prospettive nuove che ora è anche difficile vedere, se non si è allenati alla lettura dei «segni dei tempi». Il ritorno di Pietro nella Terra del Signore Gesù ha seminato molti sementi che ora sono caduti in terra morendo, in attesa di portare frutto a suo tempo (Gv 12,24), secondo la logica di Dio e non secondo le alchimie miopi degli uomini.
La visita del papa infatti è una profezia, cioè un atto che parla di Dio ai presenti; ma se questi non sono in grado di cogliee la portata, il «senso» di quel gesto profetico in quel tempo propizio travalica tempo e generazioni, per situarsi sul crinale della storia in attesa di una generazione meno incredula.
Mai come oggi, il futuro è nelle mani di Dio! Eppure, i cristiani hanno l’obbligo di cercare la volontà di Dio, che non si manifesta nelle visioni più o meno nevrotiche, ma si nasconde tra le spire degli avvenimenti che si snodano nella fatica della storia. Avvenimenti e storia che devono essere letti e interpretati con il codice della Parola di Dio. Parola e storia. Rivelazione e Incaazione.
Né questo papa, né il prossimo vedranno i frutti della visita di Pietro in Palestina, ma il secolo appena iniziato, sarà testimone di eventi oggi impensabili.
Intanto prendiamo atto che, anche a livello teologico, è crollato un pilastro della riflessione cattolica, che nell’insegnamento accademico e nella formazione catechistica propugnava la «teologia della sostituzione», secondo la quale Israele è superato perché la chiesa ha preso il suo posto: dalla promessa alla realtà.
Oggi la teologia è giunta a una più profonda acquisizione della scrittura e sa che Dio non rinnega mai quello che ha scelto, per cui Israele resta il popolo dell’elezione misteriosa e il popolo della promessa abramitica (Rom 9,1-33; 11,1-2).
La chiesa non è un «nuovo» popolo di Dio, ma è popolo perché è parte integrante di Israele, perché Gesù non è venuto ad abolire la Torah e la profezia, ma a portare a compimento (Mt 5,17). Il compimento non è sostituzione, ma pienezza di ciò che già è.
Oggi si riscopre tradizione e letteratura giudaiche come «ambiente vitale», dove sono sorti quasi tutti gli scritti del Nuovo Testamento. Per comprendere il vangelo e gli altri scritti è necessario conoscere l’ambiente giudaico e quindi studiare la tradizione della Mishnà e del Talmùd che, pur essendo scritti tardivi (sec. iii-vi d.C.), contengono e riportano tradizioni molto antiche che aiutano a comprendere più intimamente le parole e i gesti di Gesù.

PROFEZIA DI PACE

La pace nel mondo passa attraverso Gerusalemme che è il fulcro vitale della storia intera. Senza pace a Gerusalemme, nessuna pace è possibile! In questo contesto la visita del papa ha dato inizio a un nuovo processo di relazioni che, quando si esauriranno le guerre e gli odi degli uomini accecati, per forza di storia e di Spirito, dovranno passare attraverso la conoscenza reciproca che nasce solo dalla teshuvà (conversione), perché non è frutto degli sforzi umani, ma dono di Dio che si può solo accogliere o rifiutare.
Pietro non è ritornato in Israele per rivendicare diritti alla sua chiesa: egli ha dato spettacolo al mondo, come Davide davanti all’arca (2Sam 6,20), scandalizzando i benpensanti borghesi e i cattolici in pantofole: ha pregato, si è presentato, ha sostato al muro del pianto, invocando il «Dio dei nostri padri», ha chiamato Israele per nome «nostro fratello maggiore», ha incontrato i palestinesi e visitato i campi profughi, ha innaffiato con acqua ebraica, cristiana e musulmana un albero di ulivo, giovane virgulto aperto al futuro, ha visitato la moschea di Omar, ha asperso gli uni e gli altri con l’acqua del Giordano, dallo stesso luogo dove Gesù si fece battezzare, ha detto a tutti parole di perdono e riconciliazione, si è accasciato due volte sul Sepolcro di Cristo, quasi a dire che quella tomba è sufficiente per redimere tutte le tombe e le morti di ebrei per mano palestinese e dei palestinesi per mano ebraica.
Ha parlato in silenzio, ha amato apertamente, senza calcoli diplomatici. Da tutti è stato riconosciuto «uomo di Dio», venuto nel nome di Dio. La profezia è compiuta, i suoi frutti fioriranno. Ma resta a ciascuno di noi l’impegno di entrare dentro questa profezia e diventare un soffio profetico che parla con la vita e, scrutando i segni dei tempi, sappia andare oltre l’orizzonte conosciuto, per scoprire nuove le vie che solo Dio può aprire e percorrere.
Sì, verrà un giorno – noi lo sappiamo bene – in cui ebrei, palestinesi e cristiani pregheranno insieme sul monte del tempio, incitandosi a vicenda a lodare il nome del Signore: «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentirneri» (Is 2,3).
Quel giorno verrà, anche senza di noi, ma potrebbe avvicinarsi ancora di più se, già oggi, ci lasciamo guidare dallo Spirito di Dio per essere donne e uomini di pace, che pregano la pace e vivono la giustizia, invocando da Dio che il nome di Yerushallaim (città della pace) scenda in benedizione su ebrei e palestinesi, sui cristiani e sul mondo, per dare inizio, finalmente, a un terzo millennio di prosperità spirituale che veda scorrere sulle strade del mondo «il latte e il miele» (Es 3,8) della riconciliazione e dell’abbraccio sponsale tra Pace e Giustizia: «Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno» (Sal 85,11) tra le mura di Gerusalemme.
Il ritorno di Pietro in Palestina ha iniziato il nuovo cammino, che attraverserà la storia presente e futura, nonostante le guerre, gli odi e la superficialità degli uomini: un cammino verso il compimento finale, quando si compirà del tutto la benedizione di Abramo: «In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,3).
Quel giorno, Pietro sarà di nuovo sulla spiaggia del lago per contare i 153 grossi pesci (Gv 21, 11), cioè tutti i figli di Dio: «Un solo gregge e un solo pastore» (Gv 10,16).
Ieri, oggi e domani sulle rive del fiume Giordano! •

Paolo Farinella




Parola delle pietre

I luoghi santi parlano del Dio-con-noi: bisogna ascoltarli, insieme alle comunità di cristiani, ebrei e arabi, perché Gerusalemme sia città-della-pace per tutti i popoli.

Ogni giorno noi veniamo a contatto con la Terra Santa, leggendo la Parola di Dio. Conosciamo Gerico, Cafaao, Cana, Nazaret, Betlemme, Betania. Sappiamo della vedova di Naim, dell’indemoniato di Geràsa, della trasfigurazione di Gesù sul Tabor. Qualcosa si muove nel nostro cuore ogni volta che sentiamo il nome di Gerusalemme, città-della-pace (Yerushallaim), che i suoi stessi figli hanno trasformato in città della morte.
I luoghi menzionati nella scrittura acquistano una dimensione più familiare per chi vi ha fatto un pellegrinaggio: si «vedono» meglio gli avvenimenti e si capiscono più profondamente le parabole di Gesù.

TERRA DELLA MEMORIA

Dal tempo della schiavitù d’Egitto, la «terra promessa» è stata l’utopia e speranza d’Israele, che ha guardato sempre avanti a sé, dirigendo ad essa il cuore e i propri passi, come canta il salmista: «Quale gioia, quando mi dissero: “Andremo alla casa del Signore”. E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme! Gerusalemme è costruita come città salda e compatta. Là salgono insieme le tribù, le tribù del Signore, secondo la legge di Israele» (Sal 122,1-4).
Con l’arrivo di Gesù Cristo, per i cristiani quella terra è diventata un sacramento reale della memoria, il quinto vangelo, che conserva la storia di Dio fatto uomo. Per questo hanno cominciato a chiamarla non più terra promessa, ma Terra Santa. Meglio sarebbe chiamarla «Terra del Santo», perché solo Dio è tre volte santo (Is 6,3), o più realisticamente di terra o luoghi della memoria.
La memoria, in ebraico zikkaròn, non è ricordo di un evento passato e finito, come nelle nostre lingue, ma sperimentazione della realtà, nel momento in cui essa è ricordata; è attualizzazione presente di ciò che è stato nel passato. Per i luoghi santi potremmo applicare così una precisa identità: «Io, terra di Palestina-Israele, sono oggi quello che fui ieri». Ieri è stata testimone della vita terrena di Mosè, dei profeti, di Gesù; oggi è testimone vivente della fede di quanti hanno creduto, ebrei e cristiani. Camminare sulle strade di Palestina, significa vivere e sperimentare quanto scrive Giovanni: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita… quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1Gv 1,1-3).
Toccare Dio! È l’anelito di ogni religione, che crea spazi sacri e tempi sacri per lambire, almeno ritualmente, il mantello di Dio attraverso il profumo dell’incenso. Ora non è più un anelito; non è necessario scalare il cielo per rapire la divinità (come nei miti greci), perché Dio stesso viene a noi e si rende prossimo, accessibile e amico.
I luoghi della memoria, la Terra Santa è tutto questo: potere entrare nell’umanità di Dio che si fa fratello di viaggio ed esegeta che spiega la scrittura a noi, assetati e affamati della sua parola (Lc 24,15.27).

PAROLA E PIETRE

Visitare la Palestina non è una gita o pellegrinaggio di devozione a un qualsiasi santuario. «Salire a Gerusalemme» significa entrare nel luogo della «testimonianza», dove vediamo realizzato tutto ciò che i profeti hanno scritto sul Figlio dell’Uomo. Per i cristiani la Terra del Santo è l’ottavo «sacramento»: il sacramento degli occhi e del silenzio.
Degli occhi, perché vediamo i segni di Dio che, muti, parlano con forza e autorevolezza; del silenzio, perché tutto induce alla contemplazione e al raccoglimento: davanti alla parola silente della terra della memoria (zikkaròn), possiamo solo tacere, adorare e amare. Tutto parla di lui ed è memoria di lui; tutto ci commuove e ci afferra nelle profondità dell’anima per mai più lasciarci.
Il Giordano, monti, pianure, alberi, mandorli, ulivi, sole, caldo, deserto… sono capitoli viventi e danzanti del vangelo di terra, che parla attraverso le pietre, la geografia, lo spettacolo della natura. Viaggiare per la Palestina e pensare che Gesù ha percorso quella stessa strada, ha sostato in quello stesso posto, ha dormito su quella terra, ha guardato quel cielo e bevuta l’acqua di quel fiume o di quel lago è per ogni credente un incontro ravvicinato con il mistero del Dio incarnato.
Visitare i luoghi della memoria è capire fino in fondo l’Emmanuele, il Dio-con-noi (Is 7,14; Mt 1,23), toccare con mano, in un certo senso, non solo il lembo del suo mantello, ma il suo corpo, respirare la sua aria, vivere insieme a lui, sperimentando una comunione oltre ogni limite.
In questo modo, si fondono insieme parola di Dio e terra. La parola ci dice che Dio ha parlato e operato in mezzo a noi, vissuto e insegnato tante cose, è morto ed è risorto. Di tutte queste cose abbiamo la garanzia della testimonianza degli apostoli, sulla cui fede, noi basiamo la nostra certezza. La terra ci «testimonia» direttamente che «qui» e non altrove tutto questo è avvenuto, facendoci quasi contemporanei di Gesù e della sua vita.
La fede cristiana per nutrirsi ha bisogno di due ingredienti: la parola e le pietre, l’una ci apre al cuore di Dio e alla sua volontà di salvezza, le altre ci svelano il corpo di Dio.
Il rapporto tra la geografia fisica, dove Gesù ha vissuto, e la sua parola di salvezza è lo stesso che intercorre tra anima e corpo. Il corpo è la terra fisica, che per circa 30 anni ha sperimentato su di sé i piedi nudi del Signore; mentre le sue parole e insegnamenti sono l’anima che danno senso a quella terra, svelandone anche la grandezza e importanza.
Ogni credente dovrebbe, almeno una volta nella vita, ritornare alla fonte originaria della propria esistenza, risciacquare la sua fede e la sua anima nelle acque del Giordano, adorare lo Spirito a Nazaret, sostare nella grotta di Betlemme, emozionarsi nel Santo Sepolcro, pregare il Padre nostro sul monte degli Ulivi, trascorrere almeno un’ora di adorazione con Gesù nel Getsemani, per riparare alla debolezza degli apostoli di tutti i tempi, che lasciano Gesù, il Signore, solo nell’ora suprema delle tenebre che avvolgono la terra e nell’ora della gloria che è l’ora della salvezza del mondo. Lui salva il mondo, mentre gli apostoli «prescelti» dormono! Mistero di Dio e dell’uomo!

CARNE VIVA DEL CORPO DI CRISTO

Ogni volta che arrivava un pellegrinaggio, mi colpiva l’atteggiamento dei pellegrini e organizzatori, segno evidente di una logica di fondo: arrivano, visitano, pizzicando i luoghi senza fermarsi un momento per assaporare «il Lògos (Verbo) che si fa carne» (Gv 1,14). Di corsa verso un’altra tappa, il tempo stringe; anche la via crucis ha i minuti contati; pomeriggio libero per fare compere nel suk… finalmente, dopo 10 giorni massacranti, a casa con una massa di confusioni nel cuore e negli occhi.
Ho visto pochi e sparuti gruppetti di pellegrini inserire nel loro cammino in Terra Santa la visita alla comunità cristiana locale, pietre vive della fede vissuta in Palestina, tra enormi difficoltà, solitudine, emarginazione. Nel mondo arabo circostante sarebbe una testimonianza di grande efficacia che cristiani del mondo occidentale vadano a trovare le loro sorelle e fratelli di fede, che in qualche modo sono i custodi della memoria della fede, e scambiarsi solidarietà, aiuto, condivisione. Ho visto celebrare splendide liturgie, in chiese popolate da soli pellegrini senza la presenza di un rappresentante della comunità locale.
Visitare i luoghi della memoria significa anche visitare la carne viva del corpo di Cristo che, nonostante l’aridità del deserto, continua a germogliare nella comunità cristiana di Terra Santa. Quanti conoscono la piccola comunità cristiana di origine ebraica? Quanti sanno che i cristiani di etnia araba sono ridotti al 2% dal 25% che erano alla fine del 1800?
Non basta raccogliere qualche obolo nel venerdì santo e mandarlo al Patriarcato di Gerusalemme o alla Custodia francescana; è urgente che le comunità giungano a Gerusalemme con spirito nuovo, incontrando in primo luogo le comunità e poi i luoghi, senza fretta e nel tempo necessario per vivere un esodo e una pasqua, che formano un corso di esercizi spirituali itineranti, da farsi nel rispetto dei tempi dello Spirito.

VIA CRUCIS: PRIMA STAZIONE

Visitare la Terra Santa e non fare una sosta allo Yad Vashem è un delitto imperdonabile. Secondo la celebre espressione di Isaia 56,5, Yad Vashem significa «un posto e un nome»: 6 milioni di nomi sono scritti tra le sue pareti; con un gioco di specchi, 6 milioni di candele sono accese a ricordare che il popolo di Abramo, di Gesù e della chiesa fu crocifisso sulla croce della storia dal peccato e dall’ignavia dell’uomo.
Non si può venire nella terra del martirio di Dio, del popolo della promessa e dell’alleanza e non visitare il luogo della memoria, obbrobrio e ludibrio: il santuario che testimonia l’olocausto di 6 milioni di ebrei, reso possibile dalla furia nazifascista e la poco evangelica resistenza dei cristiani nell’Europa delle tenebre.
Lo Yad Vashem dovrebbe essere la prima stazione della via crucis che ripercorre il tragitto verso il Calvario e verso il sepolcro vuoto.
Accanto a queste due visite non dovrebbe mai mancarne una a un campo profughi di palestinesi, possibilmente a Gaza, per vedere le condizioni disumane in cui ancora oggi vivono gli eredi naturali della prima generazione cristiana.

I TRE POPOLI DELLA PROMESSA

Comunità cristiana, ebraica (Yad Vashem) e araba (campo profughi), sono i tre popoli che, già ora, realizzano la profezia di Isaia 2,2-4: «Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: “Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentirneri”. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra».
Si combattono tra loro, si odiano, si scannano a vicenda, ma sono lì attaccati al monte di Sion, da cui non vogliono scendere. Sarà quel monte che li costringerà alla pace e a riconoscersi fratelli di sangue e figli dello stesso padre, non più solo Abramo, ma figli dello stesso Dio, che «risplende da Sion perfezione di bellezza» (Sal 49,2), perché «da Sion verrà la salvezza d’Israele» (Sal 14,7).

Narra il Talmud ebraico: «Il Signore divise tutta la bellezza in dieci parti: ne consegnò nove a Gerusalemme e una al resto del mondo. Poi il Signore divise anche il dolore in dieci parti e di nuovo ne assegnò nove a Gerusalemme e una al resto del mondo».
Gerusalemme è nello stesso tempo la città della gioia e la città del dolore, città maledetta e città benedetta. Nel suo grembo porta le sorti del mondo: pace e distruzione, speranza e bellezza. Ora spetta ai suoi figli comprendere la grandezza della loro madre e, superando l’abisso di odio che li copre, presentarla al mondo in tutto il suo splendore, perché sia madre di tutte le genti e figlia di ogni popolo di buona volontà.
Yerushallaim, Al-Kuds (La Santa), Gerusalemme: oggi deposito di nove porzioni di dolore, domani, con l’aiuto di Dio e la conversione dei suoi figli, fonte delle nove porzioni di bellezza, luogo d’amore e di speranza.
Gli ebrei, ancora oggi terminano il rito della pasqua con un augurio struggente: «L’anno prossimo a Gerusalemme!». Ai lettori di Missioni Consolata, lo stesso augurio: «L’anno prossimo a Gerusalemme!» insieme a ebrei, arabi e cristiani. Nel segno di Abramo, nel nome e per grazia di Dio.

Paolo Farinella




Pietre… vive

Sono circa 200 mila i cristiani in Terra Santa:
una presenza a rischio estinzione.
Senza testimoni della risurrezione, i luoghi santi diventano musei di pietre… morte.

In molte parti del mondo i cristiani sono una minoranza contrastata e penalizzata nei propri diritti. Ma quando questo accade dove i cristiani sono nati, nella Terra di Gesù e nostra Terra Santa, la situazione suona più scandalosa e chiede un’attenzione particolare al cuore di ogni credente.
L’ho visitata più volte durante questa seconda intifada; l’ultima, lo scorso gennaio, con un gruppo di giovani musicisti torinesi: abbiamo incontrato la gente e pregato con loro. Al ritorno ci siamo fatti voce di quanti abitano e custodiscono per noi i luoghi della nostra fede.

STIMATI, MA EMARGINATI

I numeri, da soli, sono eloquenti: mezzo secolo fa, la popolazione cristiana della Terra Santa (Israele e Territori Palestinesi) era pari al 20% del totale, 35 anni fa era scesa al 13%; oggi supera di poco il 2%, pari a circa 200 mila anime. A Gerusalemme, nel 1922, il 51% degli abitanti era formato da cristiani; oggi sono il 2%. Negli anni ’60, Betlemme era cristiana al 90%; oggi lo è al 30%: nel solo 2003 ha perso oltre 2 mila cristiani.
Chi sono? In Terra Santa colpisce la varietà di espressioni cristiane: troviamo cattolici, ortodossi, fedeli di rito armeno, copto, greco, siriaco e cattolici di lingua ebraica.
Questi ultimi in particolare sono una comunità molto interessante, di recente formazione, nata in un contesto ebraico israeliano, con l’originalità e difficoltà che comporta professare una fede «altra» rispetto alle regole di vita e tradizione ebraica.
È una comunità che si fa strada e che, oggi, ha anche un suo vescovo israelita, il primo nella terra di Gesù dai tempi apostolici: è mons. Jean-Baptiste Gurion, monaco benedettino di origine sefardita.
Voci diverse, dunque, del nostro unico credo, che talvolta sembrano sovrapporsi nella difesa dei propri spazi, anche durante la liturgia nei santuari; ma voci che sanno parlare all’unisono per difendere il diritto dei cristiani nella terra in cui essi sono sempre più discriminati.
I cristiani cattolici, in particolare, sono prevalentemente di etnia araba e con gli arabi condividono le imposizioni del governo israeliano. Soprattutto a Gerusalemme e nei Territori occupati, dove, ad esempio, non hanno pieni diritti civili e politici, non possiedono passaporto, non possono acquistare case, né affittarle facilmente, hanno accessi limitati alle università e pubblica amministrazione; oggi, in più, subiscono le conseguenze del «muro» che separa, isola, impedisce di raggiungere la scuola, il posto di lavoro, la parrocchia…
Non solo. I cristiani subiscono anche i tentativi di espansione, proselitismo, condizionamento sociale e culturale da parte degli arabi musulmani. Alcuni esempi. Per l’ostinata pressione e l’esodo di tanti giovani cristiani, sono sempre di più le donne cristiane che accettano di sposare i musulmani, con la conseguenza di essere mogli di secondo grado in famiglie poligamiche; chiese e scuole cristiane sono spesso fronteggiate e disturbate da analoghi centri religiosi o scolastici musulmani; nella crisi occupazionale, i dipendenti cristiani sono i primi ad essere licenziati dagli imprenditori musulmani…
Vita difficile, quindi, per i cristiani in Terra Santa, anche se sono stimati per la loro serietà, coerenza e correttezza da entrambi i popoli di maggioranza. Le scuole cristiane, per esempio, sono riconosciute per la qualità dell’insegnamento e la proposta educativa, rispettosa di ogni tradizione, e sono frequentate da un gran numero di studenti musulmani.

GERUSALEMME: SPOPOLATA

Come vivono oggi i cristiani in Terra Santa? Male! Oggi più di ieri. Lo abbiamo visto per le strade semideserte (se confrontate con gli anni passati) e ascoltato dalla bocca della gente, che ci ha accolti come una benedizione. Soprattutto, lo abbiamo chiesto ad alcuni responsabili delle comunità locali.
«A Gerusalemme c’è una sola parrocchia di circa 4.500 anime – spiega padre Giorgio Abuasen -. Tra queste, 350 famiglie sono isolate dai blocchi dei check point. Nella città santa, i cristiani, in quanto arabi, non sono considerati cittadini, ma semplicemente residenti: hanno solo un permesso di soggiorno, non estendibile in caso di matrimonio.
Ma il problema maggiore è la disoccupazione, da quando si è fermata l’attività turistica, che rappresentava la loro pressoché unica risorsa.
L’attività pastorale comprende amministrazione dei sacramenti, formazione religiosa e, soprattutto, educazione alla convivenza pacifica tra fedi diverse: è quanto cerchiamo di trasmettere nelle nostre scuole, dove studiano insieme ragazzi cristiani e musulmani.
Poi ci sono le opere di carità, realizzabili con i contributi che la Custodia riceve dai cristiani di tutto il mondo. Poiché per gli arabo-cristiani non esiste diritto alla proprietà di case ed è difficile averle in affitto, abbiamo costruito alloggi per 475 famiglie; inoltre provvediamo ogni anno borse di studio per circa 120 studenti, perché possano studiare nelle università locali e frenare così l’emigrazione dei nostri giovani».

BETLEMME: TRA DUE FUOCHI

A Betlemme la situazione è ancora più tragica, afferma padre Ibrahim Faltas, passato alla storia come «fra telefonino»: tenne i contatti col resto del mondo per 39 giorni (2 aprile – 10 maggio 2002), quando la basilica della Natività fu occupata da 240 miliziani palestinesi e assediata dai militari israeliani.
«A Betlemme viviamo il dramma del muro che isola alcune famiglie, espropria le loro proprietà, danneggia le coltivazioni, annulla le già critiche attività di artigianato: alcune fabbriche di presepi sono state costrette a chiudere. Siamo sempre sotto il controllo del check point israeliano alle porte della città.
Ma anche da parte araba siamo costantemente presi di mira. Una volta Betlemme era abitata quasi completamente da cristiani; ora essi sono una minoranza, perché molti sono emigrati e i musulmani tendono a prendere terreno, nel vero senso della parola: stanno per costruire una loro scuola proprio di fronte al Terra Santa College; inoltre, forte è la pressione psicologica sulla comunità cristiana, sulle donne in particolare, affinché si sposino con musulmani.
Eppure noi cerchiamo di mantenerci in equilibrio, rispettosi di entrambi i popoli e delle autorità che li rappresentano, come abbiamo dimostrato nei giorni dell’occupazione e dell’assedio della basilica della Natività. Continuiamo a dialogare con ebrei e musulmani, forti della nostra fede e della nostra missione a custodia di questa terra».

MADRE FERITA E SOFFERENTE

Il custode di Terra Santa, padre Giovanni Battistelli, ci accoglie commosso e ci affida un messaggio: «Prima di questa intifada, quando venivano numerosi gruppi di pellegrini, dicevo loro di amare la Terra Santa, perché tutti siamo nati qui, è la nostra terra: qui c’è la radice della nostra fede. Ora ricordo che questa terra ha bisogno di loro, ha bisogno di voi: la Terra madre è ferita e sofferente.
Per i cristiani locali ci sono poche prospettive e hanno cominciato a emigrare; così noi francescani rischiamo di diventare custodi di pietre e non già di una comunità viva.
Durante il periodo dell’occupazione della Natività di Betlemme, abbiamo sentito forte la vicinanza di tutto il mondo; ma da quando i riflettori su quel tragico evento si sono spenti, ci sembra che la nostra chiesa si faccia meno presente. A nome dei cristiani di Terra Santa dico che abbiamo urgente bisogno di sentire la vicinanza, non solo spirituale, dei cristiani del mondo.
Dove sono i pellegrini, ora che il pellegrinaggio avrebbe un senso ancor più profondo e veramente fraterno? Se non riprende il turismo religioso, è il collasso dell’economia di questa gente, specie dei cristiani. La nostra speranza siete voi e quanti decideranno di venirci a visitare».
Non ci vuole un coraggio da leoni, oggi, per andare in Terra Santa: gli itinerari dei pellegrini sono fuori dalle aree ad alta tensione e la stessa Gerusalemme vecchia, cuore di ogni pellegrinaggio, è sicura nelle sue mura. Il visitatore può muoversi tranquillamente a piedi, sostare nei luoghi più sacri della nostra fede, incontrare la poca gente che ancora vi abita, percorrere le strade come ai tempi di Gesù… Un viaggio che oggi aggiunge al gusto della scoperta e dell’esperienza di fede il sapore intenso della solidarietà.

GERICO: CITTÀ DIMENTICATA

Venerdì, ultimo giorno del nostro viaggio. Avremmo la giornata libera per lo shopping tra le viuzze del suk di Gerusalemme, ma veniamo a sapere che la comunità cristiana di Gerico è in seria difficoltà. Isolata dal cordone di sicurezza dell’esercito israeliano, non riceve neanche la solidarietà dei gruppi di pellegrini, che preferiscono visitare altri luoghi, anche se conserva tracce di storia antica ed echi evangelici: il buon samaritano passava proprio di qui!
Informati che al check point i turisti passano facilmente, decidiamo di partire. Infatti, troviamo una lunga fila di macchine, ma per i turisti i controlli sono sbrigativi. Entriamo in una città deserta e desolata: strade spopolate, case abbandonate, negozi chiusi o semichiusi, campi incolti e… silenzio.
Raggiungiamo la scuola cristiana adiacente alla parrocchia, dove la suora responsabile sgrana tanto d’occhi a vedere un gruppo di venti giovani pellegrini da quelle parti. Ci apre le porte della scuola, dove vediamo tracce di speranza nei disegni dei bambini e nei residui degli addobbi natalizi.
Ci viene raccontato che a Gerico, oggi, la crisi è acuta per tutti, ma per i cristiani è drammatica: essi sono i primi a essere licenziati dai posti di lavoro nelle aziende agricole dei musulmani; per di più, i check point rendono impossibile raggiungere la sede lavorativa fuori città.
A Gerico non si produce più: non si coltivano più i campi intorno alla città, perché i soldati spesso negano l’accesso; si consumano prodotti d’importazione, sempre che l’esercito li lasci passare e, soprattutto, si abbia denaro per comprarli.
A scuola i ragazzi vanno senza più pagare la retta e gli insegnanti lavorano con uno stipendio sempre più precario. Nessun governo li aiuta.
La suora non ci nasconde la sua disperazione: lei, nata in quella terra, fatica a vedere prospettive di vita migliore e ripete che tra i due popoli in lotta sono proprio i cristiani ad essere più penalizzati e a dipendere unicamente dagli aiuti estei.
Quali aiuti? La suorina andrebbe in capo al mondo pur di trovare qualche risorsa per tenere aperta la scuola. Le lasciamo il frutto di una colletta improvvisata sul momento e le assicuriamo di non dimenticarci di loro.
Prima di andarcene cogliamo una nota di speranza, un incontro che può continuare e aiutare a credere nella pace: arriva una bambina per esercitarsi al pianoforte in vista del prossimo saggio musicale. Benché intimidita a vederci tutti insieme, accetta di far scorrere le dita sulle note di un nostro canto tipico: Tu scendi dalle stelle. La musica ci rende ancora più vicini! Le lasciamo il nostro spartito, insieme alla promessa di fare qualcosa per lei e gli altri bambini della scuola.

Chiara Tamagno




Il muro della vergogna

Studente palestinese, 23 anni, fisico prestante, Ibrahim ogni giorno scavalca il muro per frequentare la facoltà di ingegneria edile all’Al Quds University di Gerusalemme. È una fatica più mentale che fisica: una rapida occhiata per assicurarsi che non ci siano pattuglie di soldati israeliani, un salto e si trova a un metro dall’entrata dell’università.
Potrebbe passare dal check point; ma bisogna fare code estenuanti, sotto il sole che picchia duro; a volte i soldati hanno ordini di non far passare nessuno; poi, è troppo umiliante ripetere ogni giorno il perché e il percome si voglia raggiungere quella che un tempo era la propria terra.
In questo luogo il muro di separazione tra Israele e i Territori occupati è alto poco più di due metri e corre all’interno di Gerusalemme, isolando il quartiere di Abu-Dis, dove si trova l’Al Quds Jerusalem University, una delle più importanti della Palestina.
Essa conta 6 mila studenti, molti dei quali provenienti da varie nazioni. Fu fondata nel 1984 e terminata nel 1994, periodo nel quale il processo di pace allora in corso portò a notevoli progressi sociali, soprattutto in Palestina, vogliosa di lasciarsi alle spalle decenni di battaglie e lutti.
Campus all’americana, con ampi spazi e vialetti alberati, grandi aule accoglienti, biblioteca con migliaia di volumi e buona tecnologia informatica, l’università offre corsi di laurea in scienze, medicina, legge e ingegneria. Qui si sta formando la futura classe dirigente palestinese.
Si dice che la cultura è un mezzo per avvicinare i popoli e smussare divergenze. Tutto vero, ma tutto inutile, se, per avere una cultura, devi scavalcare una barriera di cemento: ogni salto è una goccia di odio che si aggiunge.

S i rimane interdetti nel vedere docenti universitari affannarsi in gesti ginnici ormai non consoni a persone di cinquanta, sessant’anni. Ma la vita dei palestinesi, donne, bambini, vecchi, giovani, ha dovuto affrontare l’imposizione di una barriera e si è adeguata. Cassette di frutta, agnelli squartati, vestiti, mercanzia varia, anche essi «saltano».
Si assiste a scene grottesche e incomprensibili, come soldati israeliani che, ai piedi del muro, aspettano anziane donne nerovestite, che arrancano nel tentativo di scavalcare, muovendosi come lumache, con i vestiti che rendono i movimenti difficoltosi e spesso s’impigliano nel filo spinato; arrivate a terra i soldati controllano i documenti e le lasciano andare. Ma per avere casi come questi occorre la combinazione migliore: soldato intelligente e donna anziana. Altrimenti può accadere qualsiasi cosa: dall’arresto alla sparatoria.
Ibrahim è un ottimo studente, ma non ha nessun amico tra gli israeliani. Come moltissimi altri, forse tutti, ammira la resistenza armata. Di fatto, oltre a dividere fisicamente, il muro sta creando una barriera d’odio: questa davvero insuperabile, poiché nessuno vuol fare, non già un salto, ma un solo passo per avvicinarsi all’altro. Svastiche e stelle di Davide sono disegnate a profusione lungo il muro: tutte promettono vendetta.

A d Al Qalqiljia, circa 100 mila abitanti, nel nord della Cisgiordania, la «barriera difensiva», come la chiamano gli israeliani, circonda tutta la città, lasciando un unico passaggio, controllato dal check point. È alta otto metri, con ferro spinato e torrette, dalle quali i soldati controllano che nessuno si avvicini, per fare cosa non si sa, dato che è impossibile scalarla.
Hassian, come altri abitanti di questa città, aveva dei terreni agricoli particolarmente pregiati, fertili e non sassosi: sono rimasti dall’altra parte del muro e inglobati nel territorio israeliano.
«Vogliono la terra, ma non le persone» dice Hassian, sconsolato per la situazione in cui si ritrova: la sua casa, a un passo dal muro, è oggetto di frequenti incursioni da parte dei soldati di pattugliamento.
Al danno si aggiunge la beffa: in teoria, per le terre espropriate sono previsti dei rimborsi; ma la riscossione è vietata dall’Anp (Autorità nazionale palestinese, cioè il governo), che non vuole legittimare in alcun modo esproprio e costruzione del muro.

«V ogliamo solo difenderci dagli attacchi dei terroristi palestinesi, che si fanno esplodere nel nostro territorio, uccidendo civili inermi – sostengono i ragazzi israeliani conosciuti a Gerusalemme ovest -. Non è una reazione esagerata la nostra: tutti i giorni rischiamo di venire uccisi».
Teorizzato nel novembre del 2000, dal governo presieduto da Ehud Barak, il muro ha avuto la definitiva approvazione nel giugno del 2002 dal governo Sharon, tuttora in carica. Il progetto completo prevede una lunghezza di circa 350 km; attualmente ne sono stati costruiti 145; i restanti 200 sono stati definitivamente approvati e finanziati l’1 ottobre 2003.
La costruzione ha incontrato forte opposizione da tutta la comunità internazionale, esclusi gli Stati Uniti che, insieme a Israele e due minuscoli stati satelliti Usa, non hanno votato la risoluzione Onu, che condanna la costruzione del muro difensivo.
Nonostante le polemiche, Israele rilancia e propone un muro divisorio anche lungo il confine con la Giordania.

S pesso il muro corre all’interno della «linea verde», lo pseudo confine che dovrebbe dividere Palestina e Israele; a tratti entra all’interno della Cisgiordania per 7 km. A opera compiuta, il 2,9% di territorio palestinese verrà annesso a Israele; 102 mila palestinesi, distribuiti in 45 villaggi, vivranno isolati in enclaves a ovest della barriera, mentre 200 mila residenti di Gerusalemme est saranno divisi dal resto della West Bank; 71 comunità rurali saranno separate dai loro terreni agricoli.
Tale illegale usurpazione di terreno non rispetta la risoluzione Onu 242 del 1968 e ridisegna la carta geografica: le colonie, anch’esse illegali, vengono a trovarsi non più in Palestina, ma in Israele. Più che proteggere, la barriera divisoria esaspera gli animi e alimenta odi eterni.
Ad Al Qalqiljia nessuno si azzarda a scrivere la propria rabbia sul muro: è troppo pericoloso. Ma durante le manifestazioni di protesta, le uniche permesse, con la presenza di osservatori inteazionali, la rabbia trova sfogo, disegnando sul muro bandiere palestinesi scritte in inglese contro la vergogna del muro.
Esso ha spezzato la vita sociale e familiare di molti palestinesi. «Ho due fratelli che abitano al di là della barriera: come faccio a raggiungerli?» si domanda Ali. «Per andare al posto di lavoro devo fare tutti i giorni ore di coda al check point; prima mi bastavano cinque minuti a piedi» racconta un operaio. «Per fare la registrazione presso la segreteria dell’università siamo costretti a scavalcare il muro, mentre prima bastava attraversare la strada» lamentano gli amici di Ibrahim.
Così la vita continua, ognuno con la sua storia e, soprattutto, con la voglia di vendetta che sale giorno dopo giorno.

N on sono solo i palestinesi a criticare il muro e le ingiustizie derivanti da questa guerra assurda. A B’Tselem c’è un centro studi israeliano, che monitora la situazione dei diritti umani in Palestina. Ci tengono a sottolineare che non sono un movimento pacifista. Composto da ricercatori, intellettuali, politici, studenti, è il punto di riferimento per ogni studio di tipo statistico riguardante il conflitto israele-palestinese: territori occupati, colonie, coprifuoco, demolizioni, omicidi…
Tacciati di collaborazionismo da buona parte della società israeliana, i loro studi non sono mai stati smentiti.

Maurizio Pagliassotti

Maurizio Pagliassotti




Matassa imbrogliata

Perché ebrei e palestinesi si scannano a vicenda senza alcuna pietà?
Perché, mentre si uccide e massacra, s’invoca il nome di Dio? Quale Dio?
È una guerra di religione, talmente sporca, che il fango raggiunge anche la soglia del cielo? Gli stessi contendenti fanno fatica a venie a capo.

di Paolo Farinella*

Ho vissuto quattro interi anni (1998-2002) a Gerusalemme est, tra il villaggio di Betfage e Abu-Dis, dove ora passa parte del muro dell’ignominia, che come un serpente sguscia sulla terra di Palestina per dividere ancora di più popoli e terra. Nel progetto israeliano, Abu-Dis dovrebbe diventare la capitale palestinese col nome di Gerusalemme, in arabo Al-Qudsh (La Santa).
Nel natale 2002 sono rientrato in Italia. Le notizie passate da tutti i tg erano costruite per dare una disinformazione totale della «reale» realtà. Sintetizzando, si aveva questo schema: «Terrorista palestinese si fa saltare in un bar (autobus o strada), facendo strage di innocenti israeliani». Senza alcuna riflessione di analisi, il messaggio immediato era: i palestinesi sono terroristi, gli israeliani innocenti.
Le dichiarazioni dei politici erano l’abisso nell’abisso: ognuno rifletteva la propria ideologia e nessuno cercava di capire ragioni e verità. Nulla importava delle stragi o distruzioni, scatenate dall’inferno nella terra che ci ostiniamo a chiamare «santa»; erano dichiarazioni di schieramento per interessi interni, rafforzare alleanze estee o, peggio, per interessi osceni di bottega partitica.
La situazione in Palestina, oggi, è aggravata dalle conseguenze degli ultimi sei anni di distruzione e odio. Ma non se ne parla più, salvo quando scoppia qualche nuovo kamikaze. Punto e a capo.
Seduti sulle macerie della Cisgiordania e in cima al terrore che abita le anime degli israeliani, oggi possiamo riflettere più pacatamente, guardare oltre le apparenze, cercare di capire ragioni e speranze e tendere, se c’è, a una soluzione che inglobi diritto e pacificazione.
Davanti agli occhi di tutti resta la realtà: dopo 4 anni di occupazione israeliana e 2 anni in cui giovani palestinesi sono indotti alla morte con l’inganno «religioso» del paradiso, dopo una teoria infinita di morti, giovani morti, speranza e futuro dell’una e dell’altra parte, dopo la sbornia di sangue e vendetta, la follia arabo-israeliana è al punto di partenza. Nessun problema è risolto; quelli precedenti sono tutti aggravati: l’economia è distrutta; l’odio è alimentato fino a settanta volte sette.
Perché? Proviamo a scorrere i passaggi storici recenti e lontani, senza i quali non si può capire la ragione del conflitto.

CONTESTO PROSSIMO

Giovedì 28 settembre 2000. Il premier d’Israele, Ehud Barak, autorizza la scorta militare di 1.000 (sic!) soldati ad Ariel Sharon, allora semplice deputato del partito conservatore Likud, per visitare la spianata delle moschee, amministrata dall’autorità musulmana con proprio servizio d’ordine. La spianata sta immediatamente sopra il muro occidentale del tempio (volgarmente detto muro del pianto).
La visita di Sharon è una provocazione, perché intende affermare che non esiste in Palestina alcun territorio, per quanto sacro, su cui Israele non possa vantare un diritto di presenza e possesso. In base al principio giuridico israeliano dell’eretz Israel (terra d’Israele), nessuno è proprietario della terra, una e indivisa, perché Dio l’ha data al popolo d’Israele, non ai singoli individui. Per cui tutti in Israele sono provvisori, tranne «il popolo eletto».
Venerdì 29 settembre 2000, giorno di preghiera per i musulmani. Mentre una fiumana di arabi, uomini, donne e bambini invadono i vicoli di Gerusalemme vecchia per andare alla moschea di Omar, l’esercito israeliano, su direttiva del governo, invade la spianata con la scusa di prevenire il disordine.
Per i musulmani è l’ultima goccia che fa traboccare ogni limite di pazienza: alcuni giovani si affacciano sul muro sottostante e cominciano a lanciare sassi sugli ebrei che stanno pregando e contro i militari e jeep che presidiano la spianata. È la scintilla della seconda intifada (rivolta).
A sera giacciono a terra 100 palestinesi morti, compresi 30 bambini, e più di 200 feriti. Quanti siamo a Gerusalemme capiamo che è stata lanciata una dichiarazione di guerra. Celebriamo l’eucaristia perché ad Abramo sia risparmiata la seconda prova: vedere scannarsi tra loro i suoi stessi figli.

CONTESTO REMOTO

64 a.C.-313 d.C. la Giudea è dominata dall’impero romano. Scoppiano due rivolte: la prima si conclude con la repressione e distruzione di Gerusalemme e del tempio; la seconda (131-135), guidata da Simon Bar Kokba (Figlio della stella, da alcuni ritenuto messia), sfocia in un bagno di sangue: il territorio è ribattezzato Syria Palaestina, Gerusalemme diventa Aelia Capitolina; sulle rovine del tempio viene eretta la statua di Giove, sul Golgota il tempio di Venere. La profanazione è totale. Agli ebrei è proibito risiedere in Gerusalemme e Giudea: inizia la «diaspora», la dispersione senza fine dei figli d’Israele.
Dal 638, dopo la conquista araba di tutto il Medio Oriente, tranne brevi parentesi durante le crociate, Gerusalemme e Palestina restano sotto dominio o influsso arabo. I piccoli gruppi di ebrei rimasti in Palestina vivono frateamente con la maggioranza araba e musulmana, spesso negli stessi villaggi, condividendo le stesse paure e speranze. Dopo un secolo di dominazione araba, molti ebrei (e cristiani) diventano liberamente musulmani. Solo pochi restano fedeli alle loro origini.
Dal 1517 al 1918 la Palestina è governata dai mamelucchi (turchi), che la dividono in distretti amministrati da palestinesi. Alle comunità ebree e cristiane è concessa notevole autonomia.
Nel xix secolo, interessi economici, strategici, espansionistici, portano sulla scena mediorientale le potenze europee, che stimolano uno sviluppo economico e sociale affrettato e non ancora compatibile con la mentalità feudale orientale. È la prima e più grave violenza che gli occidentali operano in Palestina.
Nel 1917-1918 gli inglesi sottraggono la Palestina ai turchi ottomani, giocando sporco su tre tavoli: siglano un patto di spartizione con Francia e Russia (1916); promettono l’indipendenza agli arabi e un «focolare» agli ebrei (1917), ma senza dire agli uni le promesse fatte agli altri. Sono le premesse di tutte le guerre future.
Nel 1922 le Nazioni Unite conferiscono agli inglesi il protettorato sulla Palestina. Gli arabi definiscono il 1922 «anno della catastrofe».
Dal 1936 al 1939, dalla Germania nazionalsocialista molti ebrei riprendono la strada verso la Palestina: circa 165 mila riescono nell’impresa. Ne erano già arrivati 35 mila dalla Russia, 60 mila dalla Polonia.
Questi arrivi massicci scatenano una serie di rivolte tra ebrei immigrati e palestinesi residenti. La tensione diventa insostenibile dopo il 1945: l’afflusso di scampati dalla shoah aumenta in modo incontrollabile, anche illegalmente; la situazione diventa così ingovernabile che la Gran Bretagna rinuncia unilateralmente al suo mandato e delega il problema all’Onu (aprile 1947), lasciando nell’olio bollente sia ebrei (senza focolare) che arabi, ai quali aveva promesso che mai avrebbe concesso un focolare agli ebrei.
Luglio 1947. La sgangherata nave americana President Warfield, ribattezzata Exodus, tenta di introdurre in Israele 24 mila ebrei scappati dalla furia nazista. Giunta nel porto di Haifa, gli inglesi la prendono a cannonate. La nave ritorna ad Amburgo; tutti gli ebrei sono inteati nei campi di concentramento.
30 novembre 1947: l’assemblea generale delle Nazioni Unite approva con 33 voti favorevoli, 13 contrari e 10 astensioni il piano per la spartizione della Palestina. Il punto 3 della risoluzione parla di due «stati indipendenti, arabo ed ebraico», con confini definiti dall’Onu.
1948. La proposta dell’Onu dei due stati è rifiutata dagli arabi, ma accolta dagli ebrei, che si affrettano a occupare non solo la zona loro assegnata, ma anche ampie aree che avrebbero dovuto costituire lo stato arabo. Interi villaggi sono occupati con i carri armati, altri rasi al suolo, la gente espulsa, con questa giustificazione: «quel» villaggio appartiene agli ebrei per diritto divino e gli arabi sono occupanti illegali.
14 maggio 1948: gli ebrei proclamano unilateralmente la nascita dello stato d’Israele, scatenando la reazione degli stati arabi. È la prima guerra, conclusa con la vittoria degli israeliani, che occupano quasi tutto il territorio destinato ai palestinesi, eccetto Cisgiordania e Gerusalemme est, in mano alla Giordania, e striscia di Gaza, occupata dall’Egitto.
Oltre 780 mila palestinesi esulano nei paesi vicini, dove mantengono la propria identità nazionale e il desiderio di tornare in patria, anche perché i paesi che li ospitano negano loro ogni diritto civile. I profughi vivono in campi disumani da allora fino a oggi: solo in Giordania ce ne sono 3 milioni e mezzo.
Nel 1964 i movimenti nazionalistici palestinesi, nati in esilio, danno vita all’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) sotto il comando di Yasser Arafat. Inizia un periodo di terrorismo strisciante sia da parte dell’Olp che da quella israeliana: gli uni e gli altri credono ancora di potere espellere l’altro con la forza e strategia del terrore. I morti non si contano.
Nel 1967 scoppia la guerra dei «6 giorni»: Israele sconfigge la coalizione degli stati arabi e occupa anche Cisgiordania, Gaza e penisola del Sinai: Israele controlla l’intero territorio della Palestina.
Nel 1973, approfittando della festa ebraica dello yom kippur (giorno del perdono), Siria e Egitto attaccano Israele, distruggendo parte dell’aviazione e rioccupando simbolici scampoli di terra, quanto basta per rialzare l’orgoglio ferito degli arabi. La reazione d’Israele e internazionale è furibonda, isolando ancora più gli stati confinanti con Israele.
Nel settembre del 1993, dopo decenni di reciproco terrore, Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, premier israeliano, firmano negli Usa la dichiarazione già concordata a Oslo (Patto di Oslo), che stabilisce tempi e modi per il raggiungimento dell’autonomia palestinese nei territori occupati da Israele, a cominciare da Gaza e Gerico, fino al raggiungimento di uno status definitivo dei territori. L’autorità palestinese inizia ad amministrare questi territori nel maggio del 1994.
Nel 1995 un fanatico israeliano assassina Rabin mentre spiega al suo popolo, in un raduno di massa, la necessità della pace con gli arabi.
Sale al potere il Likud, partito di destra capeggiato da Benjamin Netanyahu, che di fatto rinnega gli accordi di Oslo e dà il via alla rioccupazione dei territori attraverso gli insediamenti, protetti dall’esercito.
Frustrate definitivamente attese e speranze, riprende l’attività armata delle organizzazioni palestinesi, già contrarie all’accordo sottoscritto da Arafat. Sono le stesse che non vogliono alcuna pace con Israele, ma che gli stessi israeliani hanno usato per contrastare la politica di Arafat.
Ora esse si ritrovano agguerrite e armate non solo di armi, ma anche di giovani kamikaze, votati alla morte, dopo una formazione di spersonalizzazione, basata su elementi religiosi, sentimenti nazionalisti e impulso di eroismo negativo.
Siamo ai giorni nostri, figli di questa lunga storia e padri della storia futura, che resta avvolta nella nebbia della vendetta e dell’odio. Ora esiste una sola alternativa: o la guerra finale o la pace definitiva. Si spera nella seconda, la più difficile: esige coraggio e uomini di governo che sappiano vedere con lungimiranza i sogni futuri dei propri figli. Ma i padri di oggi sono ciechi e sordi: non possono «vedere» il futuro, perché non sanno leggere nemmeno il loro passato.

DIRITTO E GIUSTIZIA

Amo il popolo ebraico perché le mie radici sono ebraiche: Gesù, la Madonna, gli apostoli, i primi cristiani sono tutti ebrei. Amo il popolo palestinese, perché gli antenati di Gesù, sua madre, apostoli e primi cristiani non possono essere che palestinesi, i quali non hanno mai abbandonato quelle terre.
Non sono filo-palestinese professionista, né filo-israeliano per opportunità; né antisemita solo perché critico la politica di alcuni governi israeliani. Sono solo un uomo del mio tempo, che ha avuto la tragica gioia di vivere per 4 anni dentro questo conflitto, che gli ha lacerato l’anima, fino allo spasimo. Non ho posizioni da difendere, né una tesi precostituita, ma solo un desiderio di coerenza nella verità, che vorrei solo capire almeno in parte. Qual è la verità da ristabilire tra ebrei e palestinesi?
Gli ebrei sono espulsi dai romani; i palestinesi non hanno colpa se da sempre abitano la Palestina, che è e resta per sempre la loro madre terra. Israele aveva diritto a ritornare in Israele: diritto sancito al massimo livello internazionale (Onu).
Ma dal 1948 Israele ha preteso tutto senza ragionevolezza, senso della misura e della storia. Lo stesso Ben Gurion, inizialmente, non vuole occupare la Cisgiordania, ma intende stabilire il nuovo stato nel disabitato deserto del Neghev, per trasformarlo in un giardino, come aveva profetizzato Isaia (32,15; 51,3). Vincono i falchi e la colomba si adatta.
Oggi si fronteggiano due popoli in lotta per la stessa terra e ciascuno la vuole tutta per sé; tutti e due portano le medesime giustificazioni: il diritto naturale.
I palestinesi in esilio inventano il nuovo rito della chiave: dal 1948 a oggi, ogni padre che muore lascia in eredità al figlio primogenito la chiave della propria casa espropriata in Palestina e che non esiste più. Quella chiave che passa di generazione in generazione è il silenzioso rituale di un diritto che prima o poi dovrà essere riconosciuto, almeno simbolicamente. Tutti gli esuli hanno diritto alla loro aliàh (ritorno), come gli ebrei, e stare nella terra dove sono nati, che da sempre hanno lavorato e custodito, anche per gli ebrei che oggi vi abitano.
La pace è una parola vuota di significato, slogan per pacifisti di professione, senza il suo fondamento, che sono il diritto e la giustizia (Is 32,17; Sal 35,27), il riconoscimento dell’altro come soggetto giuridico, nello stesso modo e forme che ciascuno, come Israele, pretende per sé.

GERUSALEMME E’ LA QUESTIONE

In tutti questi anni, a mano a mano che la situazione va incancrenendo in uno statu quo da inferno, le motivazioni politiche e sociali si sintetizzano in forme simboliche, che trovano nella religione il collante emotivo e viscerale di comodo.
La questione dei due stati si trasforma nel problema di Gerusalemme. Nome evocativo, emotivo, che scuote le viscere di chiunque la conosce: «Se ti dimenticassi, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; s’attacchi al palato la mia lingua, se non mi ricordassi di te; se non ponessi Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia» (Sal 137,5-6).
L’atto fondativo ebraico sancisce che Gerusalemme è la capitale una e indivisa dello stato d’Israele. Per i palestinesi è la capitale religiosa e politica, una e indivisa del futuro stato palestinese. Gerusalemme diventa «la» questione: non tutta, ma solo la città vecchia, che a stento raggiunge il mezzo chilometro quadrato.
Gli ebrei rivendicano il diritto di erigere il terzo tempio dove sorgeva il secondo, quello dell’epoca di Gesù, costruito da Erode. Ma per far questo bisogna distruggere la moschea di Al-Aqsa e di Omar (o Cupola della Roccia), da cui, secondo la tradizione araba, Maometto è stato rapito al cielo e su cui, secondo la tradizione ebraica, Isacco stava per essere sacrificato dal padre Abramo.
Gli ebrei hanno già pronto tutto il necessario: abiti sacerdotali, suppellettili sacre per i sacrifici, menorah (candelabro a 7 bracci), le stesse pietre, squadrate e numerate…
Gli arabi temono che gli ebrei facciano crollare la moschea (magari con un terremoto pilotato) e operino il colpo di mano. Sotto la moschea vi è il muro occidentale (ciò che resta del tempio di Erode), dove gli ebrei svolgono le funzioni religiose più significative.
Sia gli uni che gli altri si appellano a Dio, che invocano come garante del loro odio e propositi omicidi. Si odiano in nome di Dio. La vendetta che procede con sviluppo esponenziale: un torto si lava con due torti, una morte con due morti; per rispondere adeguatamente, torti e morti diventano quattro… e così via. Senza fine.
I figli sono concepiti nell’odio del nemico, cresciuti ed educati nelle scuole a odiare l’arabo o l’israeliano; gli stessi giochi sono improntati a questa pedagogia di distruzione. Vi sono straordinarie eccezioni, che restano solo segni di possibilità.
In Gerusalemme tutto è separato: la città nuova è solo israeliana e gli arabi non possono accedervi; la città vecchia è abitata da musulmani, cristiani, armeni ed ebrei, ma ognuno nel suo quartiere; la zona araba, sotto amministrazione israeliana, è priva di ogni servizio: ognuno si arrangia come può, senza regole, tranne le leggi militari.
L’ordine è mantenuto dalla polizia militarizzata; le angherie sono all’ordine del giorno, secondo l’umore del singolo soldato di tuo. Quante volte ho assistito alla atroce scena di vedere strappare permessi di lavoro o documenti personali ai palestinesi: per riaverli bisogna rivolgersi alla mafia, sborsare tanti soldi e sprecare molto tempo.
Da una parte Israele si ghettizza da solo in una morsa di paura e fragilità; dall’altra i palestinesi sono incapaci di organizzarsi e tendere ad essere nazione. Bruciano la bandiera israeliana, ma trafficano la moneta israeliana; contestano l’America, mentre vestono jeans e scarpe Nike.
L’unico collante che unisce i palestinesi è il sentimento religioso musulmano, viscerale ed emotivo, non il senso dello stato, che non hanno mai avuto, tanto meno il desiderio di avee uno proprio. Il giorno in cui sarà costituito il loro stato, i palestinesi che potranno scapperanno sotto il dominio israeliano, preferendo essere gli ultimi tra i primi (economicamente) che i primi tra gli ultimi.
Israele si è spesso servito delle organizzazioni terroristiche (Hamas, Jihad, Erzbollah) per contrapporle ad Arafat, fomentando la divisione tra palestinesi. Li ha armati, pagati, diffuso droga per dominare i giovani; oggi gli si sollevano contro e diventano nemici da distruggere, perché portatori di terrore.
A Israele le armi vengono foite dall’America che qui sperimenta armamenti nuovi; ai palestinesi e gruppi estremisti (e anche a Israele) sono vendute dai paesi europei (Italia compresa), Egitto, Siria… La strada che salva la coscienza amorale è la solita: le si vendono a uno, che le rivende a un terzo, questi a un quarto… finché arrivano a destinazione.
cristiani nel mirino
Da nessuna parte ho sentito, non dico la condanna, ma almeno la segnalazione, la notizia che Israele tra il 2001 e il 2002 ha sradicato più di 500 mila alberi da frutti, uliveti e bananeti compresi, di proprietà palestinese. Fa parte di una strategia che, insieme alla distruzione delle case, vuole distruggere non solo il presente, ma anche il futuro. In Oriente un albero da frutto spesso è il solo patrimonio di una famiglia: un ulivo la mantiene per generazioni.
In tale distruzione gli israeliani hanno preso di mira i cristiani. Con la scusa che dentro le loro case si nascondono terroristi, abbattono le loro abitazioni prima ancora di quelle dei musulmani, per costringerli ad abbandonare la Palestina.
Temono che i cristiani, per la risonanza mondiale che hanno, come ha dimostrato l’occupazione della basilica della Natività a Betlemme, possono essere quella coscienza critica che Israele teme più di ogni altra cosa. Non vuole testimoni.

FIGLI MOSTRI E VIOLENZA CIECA

La caratteristica nefasta della seconda intifada è la comparsa di kamikaze: suicidi per uccidere indiscriminatamente più israeliani possibile. Non è più guerra tra eserciti, ma genocidio di disperati. Sparare nel mucchio non è solo immorale, ma un crimine contro l’umanità.
I capi dei gruppi estremisti, atei di fatto, ma religiosi di facciata, strumentalizzano il nome di Dio per manipolare e indurre ignari ragazzi a compiere suicidi-omicidi in suo nome, sapendo di compiere un’aberrazione davanti a Dio. I capi che li alimentano, fomentano e armano, ne dovranno rispondere al tribunale della storia e di Dio.
La maggior parte di questi giovani sono manovrabili, fragili psicologicamente, provenienti da famiglie a cui Israele ha tolto tutto, anche la speranza del domani. Prima di essere esplosivi viventi, sono bombe cariche di odio, che vince anche l’istinto della sopravvivenza.
Ogni famiglia di kamikaze riceve un indennizzo di dollari con cui può vivere per molto tempo. Figli mandati ad ammazzare altri figli. Chi uccide i suoi stessi figli, ha già ucciso il proprio popolo; il futuro uccide il futuro, prima ancora che nasca.
Eppure questi scellerati, accecati da odio e vendetta, non sono nati all’improvviso, ma sono il frutto di uno stupro costante e continuativo sulla popolazione palestinese: condizione di apartheid in cui vive la quasi totalità dei villaggi, campi profughi ancora esistenti dal 1948, sistematico impedimento alla circolazione di persone e beni, impossibilità di potersi ricongiungere con familiari separati da fili spinati e muraglie, innalzate anche all’interno dello stesso villaggio, odissea quotidiana della ricerca di un lavoro con ore di attesa ai check-point (quando si riesce a passare), inesistenza di assistenza medica, terrore di non potere nemmeno andare in ospedale per partorire, impossibilità di frequentare le migliori università del paese, umiliazione quotidiana della propria dignità, rifiuto sprezzante d’Israele di osservare anche una sola risoluzione dell’Onu, violazione di ogni diritto, anche elementare, consapevolezza di essere e sentirsi abbandonati da tutti, corruzione tra i governanti palestinesi, che succhia sangue su sangue, addossando sulle spalle dei poveri sempre più tasse per ogni nonnulla… questo e altro ancora hanno lentamente preparato la nascita e la crescita dei kamikaze che credono di spendere in anticipo il loro futuro per anticipare la fine di un inferno senza nome e senza fine.
Chi non ha mai visitato un villaggio arabo sotto dominazione israeliana non può rendersi conto né capire. Non giustifico minimamente l’orrore dei kamikaze; ma dico che essi sono figli-mostri, generati dalla violenza di stato che Israele consapevolmente e strategicamente ha messo in atto in questi anni, con la mal celata speranza di espellere tutti i non ebrei dalla Palestina.
Utopia? Semplicemente miopia! La vendetta chiama vendetta; violenza semina e miete violenza, in un circolo fatale senza scampo né soluzioni. I kamikaze sono la risposta disumana agli attacchi dell’aviazione israeliana, omicidi mirati o distruzione dissennata e indiscriminata di case e popolazione palestinesi.
È un’esercitazione teorica senza senso domandarsi chi ha cominciato prima: violenza di stato e violenza dei kamikaze sono figlie gemelle della volontà di non volere trovare una soluzione che preveda due stati e una capitale.
I palestinesi hanno diritto ad avere uno stato proprio con confini certi e continui, dentro i quali possono organizzarsi o distruggersi come loro aggrada, nel rispetto totale della loro autonomia. Israele ha diritto a vivere nella terra da cui fu scacciato duemila anni fa, ma convivendo alla pari con gli altri stati, condividendo con essi le risorse primarie, specialmente l’acqua, che è la condizione essenziale di vita.
Anche il problema delle sorgenti è una delle cause della guerra infinita: possederle significa avere la chiave del giardino dell’Eden e Israele non vuole dividerle con alcuno.

IL FUTURO NELLE MANI DI DIO

Quale futuro per Israele? Quale futuro per i palestinesi? Da un punto di vista umano, non si vede alcun futuro; da quello religioso, sembra che Dio abbia abbandonato i due popoli alla loro pazzia distruttiva.
Gerusalemme oggi è la città che vede morire i suoi figli e non sa cosa fare. In Israele il 10% della gioventù è suicida perché abitata dall’insicurezza interiore e paura. Non si può vivere una vita nella dimensione della guerra e del nemico, andando sempre e ovunque armati. Si finisce per distruggere se stessi.
Per la prima volta in Israele nasce il problema dell’obiezione di coscienza. In due anni, almeno 500 militari si sono rifiutati di combattere nei territori, ritenendo immorali gli ordini ricevuti. Alcuni soldati sono stati giudicati dalla corte marziale e puniti; la frana è inarrestabile.
Dopo che sarà finita la guerra con i palestinesi, Israele dovrà fare i conti con una guerra civile: deve scegliere se essere uno stato teocratico, governato dalla Torah di Mosè, per cui si battono i religiosi ortodossi e i fondamentalisti, o uno stato laico. Le due anime si fronteggiano già, ma quel giorno sarà una guerra all’ultimo sangue.
I palestinesi hanno tre livelli: quelli che vivono nell’indotto israeliano e vorrebbero essere israeliani, anche di seconda e terza categoria, per i benefici economici che possono avee; quelli che gravitano su Israele per il lavoro: non saranno mai cittadini con documento israeliano, ma accetteranno di essere i paria dei ricchi, pur di avere un minimo di vita occidentale. Infine i palestinesi sotto l’autorità di Arafat: questi sono i veri poveri, coloro che nessuno difende, che saranno sacrificati sempre, sotto Israele e sotto Arafat, che vivono da sempre nei campi profughi, che gli stessi arabi rifiutano. In uno stato palestinese autonomo saranno i dannati del nuovo inferno, sfruttati da una amministrazione corrotta e senza speranza.

LA PACE PASSA PER GERUSALEMME

Quale futuro? Uno solo: che ebrei e musulmani si convertano veramente a quel Dio in cui dicono di credere, che partano sul serio dalle loro sacre scritture, prendano atto dell’esistenza dell’altro, rinuncino alla pretesa impossibile e irrazionale di riuscire a espellerlo dalla terra di Palestina, che è la terra non di questo o di quello, ma la terra di Dio.
Non penso che questa generazione perversa vedrà la pace e nemmeno la prossima. In oltre 50 anni si è accumulato tanto odio da fare scoppiare settanta volte sette non solo l’intera regione, ma il mondo intero: poiché la pace nel mondo passa attraverso la pace tra le mura di Gerusalemme.
Tutto questo odio non può esaurirsi in una dichiarazione d’intenti. Bisogna ristabilire il diritto negato: Israele deve riconoscere, almeno a un gruppetto simbolico di esuli, il diritto di ritornare alla terra e alle case da cui furono strappati; agli altri, esuli figli di esuli, riconoscere un indennizzo economico adeguato, di cui potrebbe farsi carico, in parte, la comunità internazionale.
Bisogna che Israele ricostruisca i villaggi distrutti e ripristini gli alberi sradicati; abbatta il muro della vergogna, con cui sta violentando ancora una volta la carne viva della terra di Palestina, terra a vocazione mondiale. La storia non insegna proprio nulla, se, appena caduto un muro, se ne costruisce un altro, per dividere due popoli che storia e religione condannano a vivere insieme.
Bisogna ricominciare dalla scuola: costruire classi miste di ebrei e musulmani (e cristiani), farli studiare sugli stessi libri, crescere insieme, aprendoli alla conoscenza vera della storia, cultura e religione dell’altro.
Durante la sua visita, il papa compì un gesto altamente simbolico: a Gerusalemme piantò un albero di ulivo, innaffiato da tre caraffe portate da tre bambini, un ebreo, un arabo e un cristiano. Acqua ebraica, acqua araba e acqua cristiana mescolate insieme, per fare crescere un solo ulivo, simbolo della nuova Palestina.
In questo nuovo contesto, Gerusalemme, capitale d’Israele, capitale dei palestinesi, capitale cristiana, sarebbe governata con uno statuto speciale da una commissione mista di garanzia, perché è la città di Dio e per questo a vocazione universale, aperta a quanti vogliono adorare Iddio in spirito e verità (Gv 4,23).
«Possa tu, Gerusalemme, vedere i figli dei tuoi figli. Pace su Israele!» (Sal 128,6). Pace sulla Palestina! «Sia pace fra le tue mura, Gerusalemme» (Sal 122,7), sgabello della gloria di Dio. •

Paolo Farinella