Una sconosciuta località africana ha conservato,
per milioni d’anni, i «segni» di una presenza umana.
Quasi un piccolo miracolo, che lascia ammirati e pensosi.
Laetoli è una piccola località del Tanzania, a 45 km da Olduvai, sul confine con il Kenya. Fra tutti i luoghi di interesse di ricerca fossile nella Rift Valley, che ormai sono moltissimi, Laetoli è davvero un luogo molto strano, diverso da tutti gli altri.
Il comune denominatore degli altri siti fossili è il deserto, o un luogo assai caldo, disidratato, inabitabile, anche se in un’epoca remotissima era forse rigoglioso, magari lacustre o, almeno, servito da tortuosi torrenti. Laetoli, invece, ha conservato la caratteristica di un tempo, circondato da diversi piccoli laghi. Non è certo il paradiso dei fossili, dato che non compaiono a fior di terra come nel triangolo di Afar (Etiopia) o nei canyon dell’Omo.
Louis Leakey, padre dell’attuale paleontologo Richard Leakey, sin dal 1935 aveva fatto un sopralluogo a Laetoli, in cerca di fossili ominidi. Aveva trovato qualcosa, ma aveva definito la sua scoperta «un canino di babbuino» e, con questa etichetta, ne aveva fatto omaggio al British Museum di Londra.
Quel dentino restò nascosto in mezzo ai tanti altri finché, nel 1979, un giovane studioso di nome Tim White non lo notò e lo studiò a fondo e finì per essere «riscoperto» come il più antico reperto fossile di ominide esistente. Se Leakey l’avesse saputo, avrebbe fatto salti di gioia, nonostante i suoi proverbiali dolori artritici.
Leakey abbandonò Laetoli, lasciando il posto a un tedesco, Kohn Larsen, che scoprì un pezzo di mascella con un paio di premolari. Anche questo studioso si accontentò di classificare il reperto con l’etichetta di «scimmia antropomorfa». A quel tempo, oltre 60 anni fa, era inconcepibile per gli antropologi pensare a un fossile del genere homo o ominide, vecchio di milioni di anni.
La fortuna… in tasca
Ma fortuna e gloria stavano per tornare a bussare in casa Leakey, grazie a sua moglie, anch’essa assai patita come lui di roba fossile. Mary, nel 1976, decise di fare un ennesimo tentativo di ricerca a Laetoli.
Aveva un aiutante kenyano da lei bene addestrato, Kaymoya Kimeu, che in poco tempo scoprì un fossile di ominide. Mary Leakey si precipitò sul luogo con una nutrita squadra e mise insieme 42 reperti. Uno ebbe l’onore di essere classificato «assai interessante»: una mandibola con infissi 9 denti. Il mondo paleoantropologico lo conosce come il fossile ominide lh-4. Ma a rendere ancor più interessante è il fatto che in quel luogo gli ominidi hanno lasciato le loro impronte: orme di piedi umani! Una caratteristica esclusiva di Laetoli per molti anni; oggi condivisa da altri quattro luoghi in Siria, Ungheria, Francia e Italia.
Come è stato possibile che queste orme si siano conservate per oltre 3 milioni di anni?
All’inizio… un’eruzione
Lontano da ogni fantasticheria, uno studioso è riuscito a ricostruire la scena, avvenuta 3,5 milioni di anni fa, quando il vulcano Sadiman si spense per sempre. Sul terreno rimase un sottile strato di carbonatite, simile a finissima sabbia di spiaggia. Poi piovve. Impregnata di acqua, la cenere formò una pasta, come cemento fresco, sulla quale le creature di quel luogo lasciarono le loro impronte: elefanti, giraffe, antilopi, maiali, lepri… e persino struzzi, galline e piccoli insetti.
Ben presto, lo strato di cenere si indurì al sole e, prima che piovesse una seconda volta, il vulcano riprese a eruttare, coprendo le orme con uno strato di cenere di una ventina di centimetri.
La scoperta avvenne in modo fortuito: il gruppo di ricercatori di Mary si divertiva alla… guerra, usando come proiettili l’abbondante sterco di elefante, disseminato in quell’area. A un tratto, un giovanotto di nome Andrew Hill, mentre tentava di sfuggire al lancio di un proiettile e cercava altre munizioni per rispondere, notò strani incavi nel letto asciutto di un torrentello; si fermò a contemplare quelle impronte, che definì subito di animali; ma non diede importanza alla scoperta: erano solo impronte di animali del passato.
Trascorre un anno. Nel 1977 il figlio di Mary, Philip, toò a Laetoli con un collaboratore e scoprì altre orme e tracce; sospettò che alcune di esse fossero di piede umano… o ominide. Mary Leakey diede la notizia della scoperta in una conferenza negli Usa, lavorando anche un po’ troppo di fantasia: parlò anche di un pozzo d’acqua, attorno al quale animali e uccelli dovevano essersi radunati, del panico che dovevano avere provato, fuggendo spaventati per la pioggia di polvere vulcanica.
Alcuni paleoantropologi risero sotto i baffi; altri rimasero elettrizzati dalla descrizione. Un’esperta americana di orme, Louise Robbins, accettò di unirsi alla squadra di ricercatori per l’anno seguente, seguita da altri tre studiosi, seri e critici. La conclusione della campagna di scavi e ricerche mise tutti in subbuglio e in disaccordo.
Paul Abell, uno dei tre studiosi, un giorno scoprì una speciale orma, molto più chiara delle altre e la fotografò. Ma Robbins la definì subito e senza pensarci troppo: impronta simile a quella di una mucca. Abell non ne era convinto, ma dovette ubbidire anche lui agli ordini di Mary Leakey che, esasperata, fece sospendere tutti gli scavi.
Ma Jones, un altro dei tre studiosi aggregati, era sempre più convinto dell’interpretazione di Abell e riuscì a strappare a Mary il permesso di fare ancora un «piccolo» scavo.
«Ma piccolo piccolo!» insisteva Mary. E, per mostrare la sua sfiducia, incaricò degli scavi Ndibo, un uomo addetto alla manutenzione del campo. Questi, pacioccone, si mise all’opera, imitando i suoi «professori» e il giorno dopo toò tutto giulivo.
– Vieni a vedere, mama: ho trovato non una, ma due orme. Una piccola e una molto grande, di 30 cm!
– Ndibo! Sei davvero uno spaccone. Non contare frottole!
– Ndibo non conta frottole!
Mary andò a vedere; rimase con gli occhi spalancati, incapace di credere a se stessa: le orme si dirigevano a nord, verso un intrico di vegetazione, protette da una zona erbosa.
Gli studiosi tornarono all’opera con entusiasmo ed esasperante lentezza. Orma dopo orma, liberarono un lungo pezzo di terreno: alla fine, più di 50 orme appaiate, una piccola e una molto più grande, procedevano in linea retta per circa 23 metri: 3 milioni 700 mila anni or sono, ominidi in posizione eretta avevano camminato su della cenere caduta da poco, a Laetoli, lasciando ai posteri il ricordo del loro passaggio.
Come impronte sulla spiaggia
La conservazione di queste orme ha del «miracoloso». Un incredibile concorso di vari fattori ha permesso tutto ciò. Basti pensare a quanto resistono le orme di un piede umano sulla sabbia, in un pantano o sulla terra umida.
Viene voglia di dubitare sulla sicurezza di questi studiosi, che hanno scoperto e definito tali orme «di ominidi». Ma non ci sono motivi plausibili per controbattere. La serietà degli esami del tufo vulcanico, in cui le impronte sono rimaste impresse, permette di stabilire anche la datazione. L’esame con il metodo potassio-argo ha confermato che i due tipi di tufo esaminati risalgono rispettivamente a 3,59 e 3,77 milioni di anni fa.
Descrivendo la scoperta di Laetoli, così dice Tim White: «Sono orme come quelle di un essere umano moderno. Se ce ne fosse una su qualsiasi spiaggia, oggi, e si chiedesse a un bambino di quattro anni di cosa si tratti, quel bimbo direbbe subito che è di qualcuno che camminava; non la troverebbe differente da altre centinaia. Nelle impronte di Laetoli la morfologia estea è la stessa: tallone moderno ben formato; arcata sostenuta, polpastrelli delle dita. L’alluce è bene allineato, non sporge di lato come quello di una scimmia antropomorfa o di tanti disegni di australopiteci, che si possono vedere riprodotti nei libri.
Non intendo dire che non ci potessero essere delle piccole differenze nella struttura ossea del piede; questo dobbiamo aspettarcelo. Ma, a tutti gli effetti, gli ominidi di Laetoli camminavano eretti come noi, non con andatura strascicata, come molti hanno sostenuto per tanto tempo. Credo che queste orme siano allo stesso livello delle più fantastiche e illuminanti scoperte di questo secolo».
SIAMO TUTTI UN PO’ AFRICANI
Un giorno, parlando con un antropologo sull’insostenibilità del significato scientifico del concetto di razza, questi mi disse: «In fondo siamo tutti africani» volendo intendere, con questa sua frase, che l’antenato comune all’intera umanità compì i primi passi proprio sull’attuale continente africano.
Dalle foreste verdeggianti e rigogliose, il genere umano si è poi espanso ed evoluto, dominando il globo, dimenticando spesso la sua comune origine. Questo ha fatto sì che, per molti europei, l’Africa altro non sia che una terra da contrapporre, generalmente in senso negativo, alla nostra civiltà: è il «continente nero» (non volendo, tra l’altro, vedere che in Africa vivono decine di milioni di altri gruppi umani, tra cui anche i bianchi).
Quante Afriche conosciamo? Sappiamo di una terra in cui è bello e chic andare a trascorrere un paio di settimane l’anno, purché «protetti» dalle rassicuranti mura di un villaggio dell’agenzia di viaggio, dove gli africani li vedi solo quando ti portano gli spaghetti al tavolo o puliscono la camera.
Oppure conosciamo un’Africa meno umana e più animale, dove ti propinano visite «mordi e fuggi» a tribù locali come contorno ai safari.
Infine, c’è un’altra Africa, purtroppo la più vera, raccontata dai mass media e missionari: denutrita, devastata dal colonialismo, dissanguata dalle guerre, sfruttata dalle multinazionali, dileggiata dai razzisti, umiliata dai leaders africani (incivili e antidemocratici), che restano al potere perché appoggiati da governi occidentali (democratici e civili).
Spesso si afferma che l’Africa si è ridotta in questo stato perché è abitata dagli africani, negando a questi una specificità culturale e organizzativa.
È proprio per confutare questo modo di pensare che inviterei a visitare il Museo africano della Basella di Urgnano, ideato e realizzato dai padri Passionisti.
Per dissipare ogni dubbio sin dall’inizio, diciamo subito che nel museo non troveremo l’Africa dei depliant turistici e neppure quella dei negozietti che vendono collanine e statuette comprate per pochi soldi, ma riproposte a caro prezzo.
L’Africa che troveremo, invece, è quella del popolo, dell’africano che finalmente ritrova, nello spazio della Pianura Padana, il suo più ampio respiro.
Quello della Basella è un museo unico nel suo genere, in cui le preziose sculture esposte, per la maggior parte lignee, dimostrano quale elevata forma artistica abbiano raggiunto popolazioni che ci ostiniamo a definire «primitive», per il solo fatto che hanno seguito filosofie e percorsi di sviluppo propri, non coincidenti con i nostri.
Così è possibile restare estasiati ad ammirare l’intensa espressività di una mateità dei bambara del Mali, dove un bambino si avvinghia attorno alla vita della madre, protetto dalle sue braccia, o il realismo di un volto bronzeo degli ashanti o la spiritualità che emana un reliquiario bwestern.
Per evitare che il visitatore meno attento si smarrisca culturalmente tra le figure esposte, i curatori del museo hanno scelto di esibire solo le opere artisticamente più significative (una quarantina in tutto), dislocate in teche di vetro. Attraverso una serie di percorsi tematici, si è condotti da un fascio di luce, accompagnato da una voce fuori campo, a percorrere differenti itinerari che si soffermano su particolari gruppi scultorei. Di particolare interesse è il circuito dedicato alla fertilità della donna, che, oltre a mostrare le opere più interessanti esposte nella sala, delinea l’importanza del ruolo femminile nelle società africane.
Per chi volesse entrare più a contatto con la realtà attuale del continente, un filmato di una ventina di minuti dà allo spettatore la visione dei variegati aspetti delle società africane: dai calmi ritmi di vita delle popolazioni tribali alla frenesia delle città modee, senza trascurare le immagini degli slums che avvinghiano come serpenti i ricchi centri commerciali delle megalopoli.
Ma la grande peculiarità del museo, sicuramente la più amata dai bambini e numerose scolaresche che vi fanno visita, rimane la parte dedicata alle attività interdisciplinari qui proposte. Laboratori di musica e danza guidati da artisti africani o atelier di scultura e pittura, aiutano i ragazzi a immedesimarsi nel vero spirito di un continente geograficamente a noi vicino, ma intellettualmente lontano.
Per i più grandicelli, le mostre tematiche, rinnovate periodicamente, rappresentano un ulteriore approfondimento di usi e costumi delle popolazioni locali. Attualmente il museo ospita una interessante esposizione sulla simbologia dei gesti nelle varie culture africane attraverso cui ci si può rendere conto di come semplici azioni quotidiane possono assumere significati differenti, spesso addirittura opposti, a seconda delle latitudini dove questi vengono espressi.
Nel lasciare il Museo d’arte e cultura africana mi rimane impressa una frase raccolta nella locandina del museo: «C’è comunque un gesto che è universale e che ha lo stesso significato in tutta l’Africa come in tutto il mondo: il sorriso».
E questo gesto, il sorriso, a pensarci bene, in un certo senso ci rende più simili agli africani.
In fondo, tutti noi siamo un po’ africani.
Piergiorgio Pescali
Giuseppe Quattrocchio