Pietro torna a casa

D al 20 al 26 marzo 2000, il papa si recò pellegrino ai luoghi della memoria del Redentore, incontrando il popolo israeliano e palestinese: chi non ha vissuto quei momenti emozionanti di storia, non può capire il significato, il valore profetico e le conseguenze future di tale visita.
Io c’ero.

VISITA INCOMPRESA

Quella di Giovanni Paolo ii può essere considerata la prima visita di un papa nella biblica Terra Promessa, per i cristiani Terra Santa (Paolo vi nel 1964 non andò in Israele e Palestina, ma solo in Giordania, che a quei tempi governava tutta la parte orientale della Palestina, compresa Gerusalemme vecchia).
Pochi compresero l’importanza di tale visita; molti la lessero solo dal punto di vista dell’opportunità politica del momento. La quasi totalità dei cattolici presenti in Terra Santa (Patriarcato, Custodia di Terra Santa, conventi, frati e anche suore) e nel mondo la contrastarono; molti si adoperarono perché fallisse.
Vi erano persone che pregavano per il fallimento ed erano arrabbiate contro il papa, che «farebbe meglio a starsene a Roma». Piccoli negromanti di sventura che non sanno vedere oltre il loro naso e sanno misurare la storia solo con il millimetro della loro esperienza, nonostante ogni giorno leggano la Parola di Dio.
Dopo la visita, le stesse persone dovettero ricredersi e qualcuno, più onesto, ammise la propria non lungimiranza, frutto di poca fede.
A Gerusalemme sapevamo che anche in Vaticano, qualcuno lavorava perché la visita fosse in tono minore, anche tra i più stretti collaboratori del pontefice.
Due settimane prima, il 12 marzo, prima domenica di quaresima, stringendosi al crocifisso e facendosi carico di 2000 anni di storia e di contraddizioni, il papa chiese perdono per conto e a nome della chiesa a tutti quelli che, lungo questi due millenni, avevano sofferto a causa della chiesa e dei suoi figli. Lui chiedeva perdono, ma cardinali, vescovi, preti, frati e qualche laico erano arrabbiati: lo consideravano un cedimento. Qualcuno si lasciò andare: «A noi chi chiede perdono?».
In quell’occasione si toccò con mano la solitudine ecclesiale di Pietro, che, consapevole della risposta del suo Signore che lo invita a non aspettare il primo passo, ma a perdonare per primo fino a settanta volte sette, procede fiducioso, buttandosi sulla parola del suo Maestro.
Quella richiesta di perdono e la visita in Israele-Palestina sono i due gesti pontificali che segneranno per sempre il pontificato. Giovanni Paolo ii sarà ricordato dalla storia come il papa del perdono e il papa che, dopo 2000 anni di lontananza fisica, ritoò a casa sua, sulle rive del lago di Genezaret, dove ricevette il mandato apostolico.

VISITA ISPIRATA

La visita nella terra della memoria cristiana fu un’ispirazione dello Spirito Santo, che guidò i passi del papa e fece sì che gesti e parole fossero solo di alto significato religioso da spiazzare ogni resistenza. Il papa, per la prima volta, non tenne conto delle richieste degli uni contro gli altri; ma parlò da papa, da cristiano, seguendo solo la sua coscienza: alla fine toccò il cuore degli uni e degli altri e anche dei cattolici.
Gli ebrei, per la prima volta in assoluto, assistono alla celebrazione della messa e possono ascoltare le preghiere cristiane, perché tutte le tv trasmettono ininterrottamente l’intera visita senza censure.
Nei libri di storia israeliani, i cristiani sono ricordati solo due volte: per la scoperta dell’America, di cui si mettono in evidenza solo le violenze sugli indigeni e le conversioni forzate, e per la shoà, sottolineando la responsabilità dei cristiani, specie il silenzio della chiesa cattolica. Duemila anni di storia essiccati in due tragici eventi. Tutto qui.
Vedere il papa, seguie le celebrazioni e ascoltae le parole hanno aperto un immenso spiraglio di comprensione e curiosità di sapee di più. Per le strade, nei negozi, nelle case, anziani e giovani sono emozionati; e quando nel Santo Sepolcro vedono il papa che, a causa della malattia, sbava mentre legge, si commuovono e si convincono di trovarsi davanti a un uomo di Dio.
Non è un caso che i rabbini capi, il 23 marzo, durante la visita alla Great Synagogue di Gerusalemme, gli regalano la bibbia ebraica con la dedica: «Benedetto tu, Giovanni Paolo ii, quando entri e quando esci», prendendo a prestito la citazione di Deuteronomio 28,6. Lo stesso giorno, allo Yad Vashem, il premier Ehud Barak lo saluta così: «Benedetto tu in Israele». Le parole sono pietre, che restano ancorate alla Palestina, da cui nessuno potrà più cancellarle.

VISITA PROFETICA

Il ritorno di Pietro in Terra d’Israele ha significato l’abbattimento del muro di diffidenza durato due millenni, creando le condizioni per un incontro, tra cattolici ed ebrei intorno alle scritture. Una prima grande conseguenza della visita è stata l’istituzione di una cattedra di storia-critica di cristianesimo all’Università di Gerusalemme, sul monte Scopus. Per la prima volta una università ebraica studia e fa ricerche sugli scritti del Nuovo Testamento, usando i metodi scientifici propri dell’università.
Da parte cattolica vi è stato un importante documento della Pontificia commissione biblica su Il popolo ebraico e le sue sacre scritture nella bibbia cristiana (2001), che rivaluta, anche dal punto di vista cristiano, alcuni metodi esegetici tipici del giudaismo del tempo di Gesù e della chiesa primitiva.
Questa visita non solo rompe un silenzio ostile di 2000 anni, ma apre prospettive nuove che ora è anche difficile vedere, se non si è allenati alla lettura dei «segni dei tempi». Il ritorno di Pietro nella Terra del Signore Gesù ha seminato molti sementi che ora sono caduti in terra morendo, in attesa di portare frutto a suo tempo (Gv 12,24), secondo la logica di Dio e non secondo le alchimie miopi degli uomini.
La visita del papa infatti è una profezia, cioè un atto che parla di Dio ai presenti; ma se questi non sono in grado di cogliee la portata, il «senso» di quel gesto profetico in quel tempo propizio travalica tempo e generazioni, per situarsi sul crinale della storia in attesa di una generazione meno incredula.
Mai come oggi, il futuro è nelle mani di Dio! Eppure, i cristiani hanno l’obbligo di cercare la volontà di Dio, che non si manifesta nelle visioni più o meno nevrotiche, ma si nasconde tra le spire degli avvenimenti che si snodano nella fatica della storia. Avvenimenti e storia che devono essere letti e interpretati con il codice della Parola di Dio. Parola e storia. Rivelazione e Incaazione.
Né questo papa, né il prossimo vedranno i frutti della visita di Pietro in Palestina, ma il secolo appena iniziato, sarà testimone di eventi oggi impensabili.
Intanto prendiamo atto che, anche a livello teologico, è crollato un pilastro della riflessione cattolica, che nell’insegnamento accademico e nella formazione catechistica propugnava la «teologia della sostituzione», secondo la quale Israele è superato perché la chiesa ha preso il suo posto: dalla promessa alla realtà.
Oggi la teologia è giunta a una più profonda acquisizione della scrittura e sa che Dio non rinnega mai quello che ha scelto, per cui Israele resta il popolo dell’elezione misteriosa e il popolo della promessa abramitica (Rom 9,1-33; 11,1-2).
La chiesa non è un «nuovo» popolo di Dio, ma è popolo perché è parte integrante di Israele, perché Gesù non è venuto ad abolire la Torah e la profezia, ma a portare a compimento (Mt 5,17). Il compimento non è sostituzione, ma pienezza di ciò che già è.
Oggi si riscopre tradizione e letteratura giudaiche come «ambiente vitale», dove sono sorti quasi tutti gli scritti del Nuovo Testamento. Per comprendere il vangelo e gli altri scritti è necessario conoscere l’ambiente giudaico e quindi studiare la tradizione della Mishnà e del Talmùd che, pur essendo scritti tardivi (sec. iii-vi d.C.), contengono e riportano tradizioni molto antiche che aiutano a comprendere più intimamente le parole e i gesti di Gesù.

PROFEZIA DI PACE

La pace nel mondo passa attraverso Gerusalemme che è il fulcro vitale della storia intera. Senza pace a Gerusalemme, nessuna pace è possibile! In questo contesto la visita del papa ha dato inizio a un nuovo processo di relazioni che, quando si esauriranno le guerre e gli odi degli uomini accecati, per forza di storia e di Spirito, dovranno passare attraverso la conoscenza reciproca che nasce solo dalla teshuvà (conversione), perché non è frutto degli sforzi umani, ma dono di Dio che si può solo accogliere o rifiutare.
Pietro non è ritornato in Israele per rivendicare diritti alla sua chiesa: egli ha dato spettacolo al mondo, come Davide davanti all’arca (2Sam 6,20), scandalizzando i benpensanti borghesi e i cattolici in pantofole: ha pregato, si è presentato, ha sostato al muro del pianto, invocando il «Dio dei nostri padri», ha chiamato Israele per nome «nostro fratello maggiore», ha incontrato i palestinesi e visitato i campi profughi, ha innaffiato con acqua ebraica, cristiana e musulmana un albero di ulivo, giovane virgulto aperto al futuro, ha visitato la moschea di Omar, ha asperso gli uni e gli altri con l’acqua del Giordano, dallo stesso luogo dove Gesù si fece battezzare, ha detto a tutti parole di perdono e riconciliazione, si è accasciato due volte sul Sepolcro di Cristo, quasi a dire che quella tomba è sufficiente per redimere tutte le tombe e le morti di ebrei per mano palestinese e dei palestinesi per mano ebraica.
Ha parlato in silenzio, ha amato apertamente, senza calcoli diplomatici. Da tutti è stato riconosciuto «uomo di Dio», venuto nel nome di Dio. La profezia è compiuta, i suoi frutti fioriranno. Ma resta a ciascuno di noi l’impegno di entrare dentro questa profezia e diventare un soffio profetico che parla con la vita e, scrutando i segni dei tempi, sappia andare oltre l’orizzonte conosciuto, per scoprire nuove le vie che solo Dio può aprire e percorrere.
Sì, verrà un giorno – noi lo sappiamo bene – in cui ebrei, palestinesi e cristiani pregheranno insieme sul monte del tempio, incitandosi a vicenda a lodare il nome del Signore: «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentirneri» (Is 2,3).
Quel giorno verrà, anche senza di noi, ma potrebbe avvicinarsi ancora di più se, già oggi, ci lasciamo guidare dallo Spirito di Dio per essere donne e uomini di pace, che pregano la pace e vivono la giustizia, invocando da Dio che il nome di Yerushallaim (città della pace) scenda in benedizione su ebrei e palestinesi, sui cristiani e sul mondo, per dare inizio, finalmente, a un terzo millennio di prosperità spirituale che veda scorrere sulle strade del mondo «il latte e il miele» (Es 3,8) della riconciliazione e dell’abbraccio sponsale tra Pace e Giustizia: «Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno» (Sal 85,11) tra le mura di Gerusalemme.
Il ritorno di Pietro in Palestina ha iniziato il nuovo cammino, che attraverserà la storia presente e futura, nonostante le guerre, gli odi e la superficialità degli uomini: un cammino verso il compimento finale, quando si compirà del tutto la benedizione di Abramo: «In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,3).
Quel giorno, Pietro sarà di nuovo sulla spiaggia del lago per contare i 153 grossi pesci (Gv 21, 11), cioè tutti i figli di Dio: «Un solo gregge e un solo pastore» (Gv 10,16).
Ieri, oggi e domani sulle rive del fiume Giordano! •

Paolo Farinella

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