Parola delle pietre

I luoghi santi parlano del Dio-con-noi: bisogna ascoltarli, insieme alle comunità di cristiani, ebrei e arabi, perché Gerusalemme sia città-della-pace per tutti i popoli.

Ogni giorno noi veniamo a contatto con la Terra Santa, leggendo la Parola di Dio. Conosciamo Gerico, Cafaao, Cana, Nazaret, Betlemme, Betania. Sappiamo della vedova di Naim, dell’indemoniato di Geràsa, della trasfigurazione di Gesù sul Tabor. Qualcosa si muove nel nostro cuore ogni volta che sentiamo il nome di Gerusalemme, città-della-pace (Yerushallaim), che i suoi stessi figli hanno trasformato in città della morte.
I luoghi menzionati nella scrittura acquistano una dimensione più familiare per chi vi ha fatto un pellegrinaggio: si «vedono» meglio gli avvenimenti e si capiscono più profondamente le parabole di Gesù.

TERRA DELLA MEMORIA

Dal tempo della schiavitù d’Egitto, la «terra promessa» è stata l’utopia e speranza d’Israele, che ha guardato sempre avanti a sé, dirigendo ad essa il cuore e i propri passi, come canta il salmista: «Quale gioia, quando mi dissero: “Andremo alla casa del Signore”. E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme! Gerusalemme è costruita come città salda e compatta. Là salgono insieme le tribù, le tribù del Signore, secondo la legge di Israele» (Sal 122,1-4).
Con l’arrivo di Gesù Cristo, per i cristiani quella terra è diventata un sacramento reale della memoria, il quinto vangelo, che conserva la storia di Dio fatto uomo. Per questo hanno cominciato a chiamarla non più terra promessa, ma Terra Santa. Meglio sarebbe chiamarla «Terra del Santo», perché solo Dio è tre volte santo (Is 6,3), o più realisticamente di terra o luoghi della memoria.
La memoria, in ebraico zikkaròn, non è ricordo di un evento passato e finito, come nelle nostre lingue, ma sperimentazione della realtà, nel momento in cui essa è ricordata; è attualizzazione presente di ciò che è stato nel passato. Per i luoghi santi potremmo applicare così una precisa identità: «Io, terra di Palestina-Israele, sono oggi quello che fui ieri». Ieri è stata testimone della vita terrena di Mosè, dei profeti, di Gesù; oggi è testimone vivente della fede di quanti hanno creduto, ebrei e cristiani. Camminare sulle strade di Palestina, significa vivere e sperimentare quanto scrive Giovanni: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita… quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1Gv 1,1-3).
Toccare Dio! È l’anelito di ogni religione, che crea spazi sacri e tempi sacri per lambire, almeno ritualmente, il mantello di Dio attraverso il profumo dell’incenso. Ora non è più un anelito; non è necessario scalare il cielo per rapire la divinità (come nei miti greci), perché Dio stesso viene a noi e si rende prossimo, accessibile e amico.
I luoghi della memoria, la Terra Santa è tutto questo: potere entrare nell’umanità di Dio che si fa fratello di viaggio ed esegeta che spiega la scrittura a noi, assetati e affamati della sua parola (Lc 24,15.27).

PAROLA E PIETRE

Visitare la Palestina non è una gita o pellegrinaggio di devozione a un qualsiasi santuario. «Salire a Gerusalemme» significa entrare nel luogo della «testimonianza», dove vediamo realizzato tutto ciò che i profeti hanno scritto sul Figlio dell’Uomo. Per i cristiani la Terra del Santo è l’ottavo «sacramento»: il sacramento degli occhi e del silenzio.
Degli occhi, perché vediamo i segni di Dio che, muti, parlano con forza e autorevolezza; del silenzio, perché tutto induce alla contemplazione e al raccoglimento: davanti alla parola silente della terra della memoria (zikkaròn), possiamo solo tacere, adorare e amare. Tutto parla di lui ed è memoria di lui; tutto ci commuove e ci afferra nelle profondità dell’anima per mai più lasciarci.
Il Giordano, monti, pianure, alberi, mandorli, ulivi, sole, caldo, deserto… sono capitoli viventi e danzanti del vangelo di terra, che parla attraverso le pietre, la geografia, lo spettacolo della natura. Viaggiare per la Palestina e pensare che Gesù ha percorso quella stessa strada, ha sostato in quello stesso posto, ha dormito su quella terra, ha guardato quel cielo e bevuta l’acqua di quel fiume o di quel lago è per ogni credente un incontro ravvicinato con il mistero del Dio incarnato.
Visitare i luoghi della memoria è capire fino in fondo l’Emmanuele, il Dio-con-noi (Is 7,14; Mt 1,23), toccare con mano, in un certo senso, non solo il lembo del suo mantello, ma il suo corpo, respirare la sua aria, vivere insieme a lui, sperimentando una comunione oltre ogni limite.
In questo modo, si fondono insieme parola di Dio e terra. La parola ci dice che Dio ha parlato e operato in mezzo a noi, vissuto e insegnato tante cose, è morto ed è risorto. Di tutte queste cose abbiamo la garanzia della testimonianza degli apostoli, sulla cui fede, noi basiamo la nostra certezza. La terra ci «testimonia» direttamente che «qui» e non altrove tutto questo è avvenuto, facendoci quasi contemporanei di Gesù e della sua vita.
La fede cristiana per nutrirsi ha bisogno di due ingredienti: la parola e le pietre, l’una ci apre al cuore di Dio e alla sua volontà di salvezza, le altre ci svelano il corpo di Dio.
Il rapporto tra la geografia fisica, dove Gesù ha vissuto, e la sua parola di salvezza è lo stesso che intercorre tra anima e corpo. Il corpo è la terra fisica, che per circa 30 anni ha sperimentato su di sé i piedi nudi del Signore; mentre le sue parole e insegnamenti sono l’anima che danno senso a quella terra, svelandone anche la grandezza e importanza.
Ogni credente dovrebbe, almeno una volta nella vita, ritornare alla fonte originaria della propria esistenza, risciacquare la sua fede e la sua anima nelle acque del Giordano, adorare lo Spirito a Nazaret, sostare nella grotta di Betlemme, emozionarsi nel Santo Sepolcro, pregare il Padre nostro sul monte degli Ulivi, trascorrere almeno un’ora di adorazione con Gesù nel Getsemani, per riparare alla debolezza degli apostoli di tutti i tempi, che lasciano Gesù, il Signore, solo nell’ora suprema delle tenebre che avvolgono la terra e nell’ora della gloria che è l’ora della salvezza del mondo. Lui salva il mondo, mentre gli apostoli «prescelti» dormono! Mistero di Dio e dell’uomo!

CARNE VIVA DEL CORPO DI CRISTO

Ogni volta che arrivava un pellegrinaggio, mi colpiva l’atteggiamento dei pellegrini e organizzatori, segno evidente di una logica di fondo: arrivano, visitano, pizzicando i luoghi senza fermarsi un momento per assaporare «il Lògos (Verbo) che si fa carne» (Gv 1,14). Di corsa verso un’altra tappa, il tempo stringe; anche la via crucis ha i minuti contati; pomeriggio libero per fare compere nel suk… finalmente, dopo 10 giorni massacranti, a casa con una massa di confusioni nel cuore e negli occhi.
Ho visto pochi e sparuti gruppetti di pellegrini inserire nel loro cammino in Terra Santa la visita alla comunità cristiana locale, pietre vive della fede vissuta in Palestina, tra enormi difficoltà, solitudine, emarginazione. Nel mondo arabo circostante sarebbe una testimonianza di grande efficacia che cristiani del mondo occidentale vadano a trovare le loro sorelle e fratelli di fede, che in qualche modo sono i custodi della memoria della fede, e scambiarsi solidarietà, aiuto, condivisione. Ho visto celebrare splendide liturgie, in chiese popolate da soli pellegrini senza la presenza di un rappresentante della comunità locale.
Visitare i luoghi della memoria significa anche visitare la carne viva del corpo di Cristo che, nonostante l’aridità del deserto, continua a germogliare nella comunità cristiana di Terra Santa. Quanti conoscono la piccola comunità cristiana di origine ebraica? Quanti sanno che i cristiani di etnia araba sono ridotti al 2% dal 25% che erano alla fine del 1800?
Non basta raccogliere qualche obolo nel venerdì santo e mandarlo al Patriarcato di Gerusalemme o alla Custodia francescana; è urgente che le comunità giungano a Gerusalemme con spirito nuovo, incontrando in primo luogo le comunità e poi i luoghi, senza fretta e nel tempo necessario per vivere un esodo e una pasqua, che formano un corso di esercizi spirituali itineranti, da farsi nel rispetto dei tempi dello Spirito.

VIA CRUCIS: PRIMA STAZIONE

Visitare la Terra Santa e non fare una sosta allo Yad Vashem è un delitto imperdonabile. Secondo la celebre espressione di Isaia 56,5, Yad Vashem significa «un posto e un nome»: 6 milioni di nomi sono scritti tra le sue pareti; con un gioco di specchi, 6 milioni di candele sono accese a ricordare che il popolo di Abramo, di Gesù e della chiesa fu crocifisso sulla croce della storia dal peccato e dall’ignavia dell’uomo.
Non si può venire nella terra del martirio di Dio, del popolo della promessa e dell’alleanza e non visitare il luogo della memoria, obbrobrio e ludibrio: il santuario che testimonia l’olocausto di 6 milioni di ebrei, reso possibile dalla furia nazifascista e la poco evangelica resistenza dei cristiani nell’Europa delle tenebre.
Lo Yad Vashem dovrebbe essere la prima stazione della via crucis che ripercorre il tragitto verso il Calvario e verso il sepolcro vuoto.
Accanto a queste due visite non dovrebbe mai mancarne una a un campo profughi di palestinesi, possibilmente a Gaza, per vedere le condizioni disumane in cui ancora oggi vivono gli eredi naturali della prima generazione cristiana.

I TRE POPOLI DELLA PROMESSA

Comunità cristiana, ebraica (Yad Vashem) e araba (campo profughi), sono i tre popoli che, già ora, realizzano la profezia di Isaia 2,2-4: «Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: “Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentirneri”. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra».
Si combattono tra loro, si odiano, si scannano a vicenda, ma sono lì attaccati al monte di Sion, da cui non vogliono scendere. Sarà quel monte che li costringerà alla pace e a riconoscersi fratelli di sangue e figli dello stesso padre, non più solo Abramo, ma figli dello stesso Dio, che «risplende da Sion perfezione di bellezza» (Sal 49,2), perché «da Sion verrà la salvezza d’Israele» (Sal 14,7).

Narra il Talmud ebraico: «Il Signore divise tutta la bellezza in dieci parti: ne consegnò nove a Gerusalemme e una al resto del mondo. Poi il Signore divise anche il dolore in dieci parti e di nuovo ne assegnò nove a Gerusalemme e una al resto del mondo».
Gerusalemme è nello stesso tempo la città della gioia e la città del dolore, città maledetta e città benedetta. Nel suo grembo porta le sorti del mondo: pace e distruzione, speranza e bellezza. Ora spetta ai suoi figli comprendere la grandezza della loro madre e, superando l’abisso di odio che li copre, presentarla al mondo in tutto il suo splendore, perché sia madre di tutte le genti e figlia di ogni popolo di buona volontà.
Yerushallaim, Al-Kuds (La Santa), Gerusalemme: oggi deposito di nove porzioni di dolore, domani, con l’aiuto di Dio e la conversione dei suoi figli, fonte delle nove porzioni di bellezza, luogo d’amore e di speranza.
Gli ebrei, ancora oggi terminano il rito della pasqua con un augurio struggente: «L’anno prossimo a Gerusalemme!». Ai lettori di Missioni Consolata, lo stesso augurio: «L’anno prossimo a Gerusalemme!» insieme a ebrei, arabi e cristiani. Nel segno di Abramo, nel nome e per grazia di Dio.

Paolo Farinella

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