Perché ebrei e palestinesi si scannano a vicenda senza alcuna pietà?
Perché, mentre si uccide e massacra, s’invoca il nome di Dio? Quale Dio?
È una guerra di religione, talmente sporca, che il fango raggiunge anche la soglia del cielo? Gli stessi contendenti fanno fatica a venie a capo.
di Paolo Farinella*
Ho vissuto quattro interi anni (1998-2002) a Gerusalemme est, tra il villaggio di Betfage e Abu-Dis, dove ora passa parte del muro dell’ignominia, che come un serpente sguscia sulla terra di Palestina per dividere ancora di più popoli e terra. Nel progetto israeliano, Abu-Dis dovrebbe diventare la capitale palestinese col nome di Gerusalemme, in arabo Al-Qudsh (La Santa).
Nel natale 2002 sono rientrato in Italia. Le notizie passate da tutti i tg erano costruite per dare una disinformazione totale della «reale» realtà. Sintetizzando, si aveva questo schema: «Terrorista palestinese si fa saltare in un bar (autobus o strada), facendo strage di innocenti israeliani». Senza alcuna riflessione di analisi, il messaggio immediato era: i palestinesi sono terroristi, gli israeliani innocenti.
Le dichiarazioni dei politici erano l’abisso nell’abisso: ognuno rifletteva la propria ideologia e nessuno cercava di capire ragioni e verità. Nulla importava delle stragi o distruzioni, scatenate dall’inferno nella terra che ci ostiniamo a chiamare «santa»; erano dichiarazioni di schieramento per interessi interni, rafforzare alleanze estee o, peggio, per interessi osceni di bottega partitica.
La situazione in Palestina, oggi, è aggravata dalle conseguenze degli ultimi sei anni di distruzione e odio. Ma non se ne parla più, salvo quando scoppia qualche nuovo kamikaze. Punto e a capo.
Seduti sulle macerie della Cisgiordania e in cima al terrore che abita le anime degli israeliani, oggi possiamo riflettere più pacatamente, guardare oltre le apparenze, cercare di capire ragioni e speranze e tendere, se c’è, a una soluzione che inglobi diritto e pacificazione.
Davanti agli occhi di tutti resta la realtà: dopo 4 anni di occupazione israeliana e 2 anni in cui giovani palestinesi sono indotti alla morte con l’inganno «religioso» del paradiso, dopo una teoria infinita di morti, giovani morti, speranza e futuro dell’una e dell’altra parte, dopo la sbornia di sangue e vendetta, la follia arabo-israeliana è al punto di partenza. Nessun problema è risolto; quelli precedenti sono tutti aggravati: l’economia è distrutta; l’odio è alimentato fino a settanta volte sette.
Perché? Proviamo a scorrere i passaggi storici recenti e lontani, senza i quali non si può capire la ragione del conflitto.
CONTESTO PROSSIMO
Giovedì 28 settembre 2000. Il premier d’Israele, Ehud Barak, autorizza la scorta militare di 1.000 (sic!) soldati ad Ariel Sharon, allora semplice deputato del partito conservatore Likud, per visitare la spianata delle moschee, amministrata dall’autorità musulmana con proprio servizio d’ordine. La spianata sta immediatamente sopra il muro occidentale del tempio (volgarmente detto muro del pianto).
La visita di Sharon è una provocazione, perché intende affermare che non esiste in Palestina alcun territorio, per quanto sacro, su cui Israele non possa vantare un diritto di presenza e possesso. In base al principio giuridico israeliano dell’eretz Israel (terra d’Israele), nessuno è proprietario della terra, una e indivisa, perché Dio l’ha data al popolo d’Israele, non ai singoli individui. Per cui tutti in Israele sono provvisori, tranne «il popolo eletto».
Venerdì 29 settembre 2000, giorno di preghiera per i musulmani. Mentre una fiumana di arabi, uomini, donne e bambini invadono i vicoli di Gerusalemme vecchia per andare alla moschea di Omar, l’esercito israeliano, su direttiva del governo, invade la spianata con la scusa di prevenire il disordine.
Per i musulmani è l’ultima goccia che fa traboccare ogni limite di pazienza: alcuni giovani si affacciano sul muro sottostante e cominciano a lanciare sassi sugli ebrei che stanno pregando e contro i militari e jeep che presidiano la spianata. È la scintilla della seconda intifada (rivolta).
A sera giacciono a terra 100 palestinesi morti, compresi 30 bambini, e più di 200 feriti. Quanti siamo a Gerusalemme capiamo che è stata lanciata una dichiarazione di guerra. Celebriamo l’eucaristia perché ad Abramo sia risparmiata la seconda prova: vedere scannarsi tra loro i suoi stessi figli.
CONTESTO REMOTO
64 a.C.-313 d.C. la Giudea è dominata dall’impero romano. Scoppiano due rivolte: la prima si conclude con la repressione e distruzione di Gerusalemme e del tempio; la seconda (131-135), guidata da Simon Bar Kokba (Figlio della stella, da alcuni ritenuto messia), sfocia in un bagno di sangue: il territorio è ribattezzato Syria Palaestina, Gerusalemme diventa Aelia Capitolina; sulle rovine del tempio viene eretta la statua di Giove, sul Golgota il tempio di Venere. La profanazione è totale. Agli ebrei è proibito risiedere in Gerusalemme e Giudea: inizia la «diaspora», la dispersione senza fine dei figli d’Israele.
Dal 638, dopo la conquista araba di tutto il Medio Oriente, tranne brevi parentesi durante le crociate, Gerusalemme e Palestina restano sotto dominio o influsso arabo. I piccoli gruppi di ebrei rimasti in Palestina vivono frateamente con la maggioranza araba e musulmana, spesso negli stessi villaggi, condividendo le stesse paure e speranze. Dopo un secolo di dominazione araba, molti ebrei (e cristiani) diventano liberamente musulmani. Solo pochi restano fedeli alle loro origini.
Dal 1517 al 1918 la Palestina è governata dai mamelucchi (turchi), che la dividono in distretti amministrati da palestinesi. Alle comunità ebree e cristiane è concessa notevole autonomia.
Nel xix secolo, interessi economici, strategici, espansionistici, portano sulla scena mediorientale le potenze europee, che stimolano uno sviluppo economico e sociale affrettato e non ancora compatibile con la mentalità feudale orientale. È la prima e più grave violenza che gli occidentali operano in Palestina.
Nel 1917-1918 gli inglesi sottraggono la Palestina ai turchi ottomani, giocando sporco su tre tavoli: siglano un patto di spartizione con Francia e Russia (1916); promettono l’indipendenza agli arabi e un «focolare» agli ebrei (1917), ma senza dire agli uni le promesse fatte agli altri. Sono le premesse di tutte le guerre future.
Nel 1922 le Nazioni Unite conferiscono agli inglesi il protettorato sulla Palestina. Gli arabi definiscono il 1922 «anno della catastrofe».
Dal 1936 al 1939, dalla Germania nazionalsocialista molti ebrei riprendono la strada verso la Palestina: circa 165 mila riescono nell’impresa. Ne erano già arrivati 35 mila dalla Russia, 60 mila dalla Polonia.
Questi arrivi massicci scatenano una serie di rivolte tra ebrei immigrati e palestinesi residenti. La tensione diventa insostenibile dopo il 1945: l’afflusso di scampati dalla shoah aumenta in modo incontrollabile, anche illegalmente; la situazione diventa così ingovernabile che la Gran Bretagna rinuncia unilateralmente al suo mandato e delega il problema all’Onu (aprile 1947), lasciando nell’olio bollente sia ebrei (senza focolare) che arabi, ai quali aveva promesso che mai avrebbe concesso un focolare agli ebrei.
Luglio 1947. La sgangherata nave americana President Warfield, ribattezzata Exodus, tenta di introdurre in Israele 24 mila ebrei scappati dalla furia nazista. Giunta nel porto di Haifa, gli inglesi la prendono a cannonate. La nave ritorna ad Amburgo; tutti gli ebrei sono inteati nei campi di concentramento.
30 novembre 1947: l’assemblea generale delle Nazioni Unite approva con 33 voti favorevoli, 13 contrari e 10 astensioni il piano per la spartizione della Palestina. Il punto 3 della risoluzione parla di due «stati indipendenti, arabo ed ebraico», con confini definiti dall’Onu.
1948. La proposta dell’Onu dei due stati è rifiutata dagli arabi, ma accolta dagli ebrei, che si affrettano a occupare non solo la zona loro assegnata, ma anche ampie aree che avrebbero dovuto costituire lo stato arabo. Interi villaggi sono occupati con i carri armati, altri rasi al suolo, la gente espulsa, con questa giustificazione: «quel» villaggio appartiene agli ebrei per diritto divino e gli arabi sono occupanti illegali.
14 maggio 1948: gli ebrei proclamano unilateralmente la nascita dello stato d’Israele, scatenando la reazione degli stati arabi. È la prima guerra, conclusa con la vittoria degli israeliani, che occupano quasi tutto il territorio destinato ai palestinesi, eccetto Cisgiordania e Gerusalemme est, in mano alla Giordania, e striscia di Gaza, occupata dall’Egitto.
Oltre 780 mila palestinesi esulano nei paesi vicini, dove mantengono la propria identità nazionale e il desiderio di tornare in patria, anche perché i paesi che li ospitano negano loro ogni diritto civile. I profughi vivono in campi disumani da allora fino a oggi: solo in Giordania ce ne sono 3 milioni e mezzo.
Nel 1964 i movimenti nazionalistici palestinesi, nati in esilio, danno vita all’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) sotto il comando di Yasser Arafat. Inizia un periodo di terrorismo strisciante sia da parte dell’Olp che da quella israeliana: gli uni e gli altri credono ancora di potere espellere l’altro con la forza e strategia del terrore. I morti non si contano.
Nel 1967 scoppia la guerra dei «6 giorni»: Israele sconfigge la coalizione degli stati arabi e occupa anche Cisgiordania, Gaza e penisola del Sinai: Israele controlla l’intero territorio della Palestina.
Nel 1973, approfittando della festa ebraica dello yom kippur (giorno del perdono), Siria e Egitto attaccano Israele, distruggendo parte dell’aviazione e rioccupando simbolici scampoli di terra, quanto basta per rialzare l’orgoglio ferito degli arabi. La reazione d’Israele e internazionale è furibonda, isolando ancora più gli stati confinanti con Israele.
Nel settembre del 1993, dopo decenni di reciproco terrore, Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, premier israeliano, firmano negli Usa la dichiarazione già concordata a Oslo (Patto di Oslo), che stabilisce tempi e modi per il raggiungimento dell’autonomia palestinese nei territori occupati da Israele, a cominciare da Gaza e Gerico, fino al raggiungimento di uno status definitivo dei territori. L’autorità palestinese inizia ad amministrare questi territori nel maggio del 1994.
Nel 1995 un fanatico israeliano assassina Rabin mentre spiega al suo popolo, in un raduno di massa, la necessità della pace con gli arabi.
Sale al potere il Likud, partito di destra capeggiato da Benjamin Netanyahu, che di fatto rinnega gli accordi di Oslo e dà il via alla rioccupazione dei territori attraverso gli insediamenti, protetti dall’esercito.
Frustrate definitivamente attese e speranze, riprende l’attività armata delle organizzazioni palestinesi, già contrarie all’accordo sottoscritto da Arafat. Sono le stesse che non vogliono alcuna pace con Israele, ma che gli stessi israeliani hanno usato per contrastare la politica di Arafat.
Ora esse si ritrovano agguerrite e armate non solo di armi, ma anche di giovani kamikaze, votati alla morte, dopo una formazione di spersonalizzazione, basata su elementi religiosi, sentimenti nazionalisti e impulso di eroismo negativo.
Siamo ai giorni nostri, figli di questa lunga storia e padri della storia futura, che resta avvolta nella nebbia della vendetta e dell’odio. Ora esiste una sola alternativa: o la guerra finale o la pace definitiva. Si spera nella seconda, la più difficile: esige coraggio e uomini di governo che sappiano vedere con lungimiranza i sogni futuri dei propri figli. Ma i padri di oggi sono ciechi e sordi: non possono «vedere» il futuro, perché non sanno leggere nemmeno il loro passato.
DIRITTO E GIUSTIZIA
Amo il popolo ebraico perché le mie radici sono ebraiche: Gesù, la Madonna, gli apostoli, i primi cristiani sono tutti ebrei. Amo il popolo palestinese, perché gli antenati di Gesù, sua madre, apostoli e primi cristiani non possono essere che palestinesi, i quali non hanno mai abbandonato quelle terre.
Non sono filo-palestinese professionista, né filo-israeliano per opportunità; né antisemita solo perché critico la politica di alcuni governi israeliani. Sono solo un uomo del mio tempo, che ha avuto la tragica gioia di vivere per 4 anni dentro questo conflitto, che gli ha lacerato l’anima, fino allo spasimo. Non ho posizioni da difendere, né una tesi precostituita, ma solo un desiderio di coerenza nella verità, che vorrei solo capire almeno in parte. Qual è la verità da ristabilire tra ebrei e palestinesi?
Gli ebrei sono espulsi dai romani; i palestinesi non hanno colpa se da sempre abitano la Palestina, che è e resta per sempre la loro madre terra. Israele aveva diritto a ritornare in Israele: diritto sancito al massimo livello internazionale (Onu).
Ma dal 1948 Israele ha preteso tutto senza ragionevolezza, senso della misura e della storia. Lo stesso Ben Gurion, inizialmente, non vuole occupare la Cisgiordania, ma intende stabilire il nuovo stato nel disabitato deserto del Neghev, per trasformarlo in un giardino, come aveva profetizzato Isaia (32,15; 51,3). Vincono i falchi e la colomba si adatta.
Oggi si fronteggiano due popoli in lotta per la stessa terra e ciascuno la vuole tutta per sé; tutti e due portano le medesime giustificazioni: il diritto naturale.
I palestinesi in esilio inventano il nuovo rito della chiave: dal 1948 a oggi, ogni padre che muore lascia in eredità al figlio primogenito la chiave della propria casa espropriata in Palestina e che non esiste più. Quella chiave che passa di generazione in generazione è il silenzioso rituale di un diritto che prima o poi dovrà essere riconosciuto, almeno simbolicamente. Tutti gli esuli hanno diritto alla loro aliàh (ritorno), come gli ebrei, e stare nella terra dove sono nati, che da sempre hanno lavorato e custodito, anche per gli ebrei che oggi vi abitano.
La pace è una parola vuota di significato, slogan per pacifisti di professione, senza il suo fondamento, che sono il diritto e la giustizia (Is 32,17; Sal 35,27), il riconoscimento dell’altro come soggetto giuridico, nello stesso modo e forme che ciascuno, come Israele, pretende per sé.
GERUSALEMME E’ LA QUESTIONE
In tutti questi anni, a mano a mano che la situazione va incancrenendo in uno statu quo da inferno, le motivazioni politiche e sociali si sintetizzano in forme simboliche, che trovano nella religione il collante emotivo e viscerale di comodo.
La questione dei due stati si trasforma nel problema di Gerusalemme. Nome evocativo, emotivo, che scuote le viscere di chiunque la conosce: «Se ti dimenticassi, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; s’attacchi al palato la mia lingua, se non mi ricordassi di te; se non ponessi Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia» (Sal 137,5-6).
L’atto fondativo ebraico sancisce che Gerusalemme è la capitale una e indivisa dello stato d’Israele. Per i palestinesi è la capitale religiosa e politica, una e indivisa del futuro stato palestinese. Gerusalemme diventa «la» questione: non tutta, ma solo la città vecchia, che a stento raggiunge il mezzo chilometro quadrato.
Gli ebrei rivendicano il diritto di erigere il terzo tempio dove sorgeva il secondo, quello dell’epoca di Gesù, costruito da Erode. Ma per far questo bisogna distruggere la moschea di Al-Aqsa e di Omar (o Cupola della Roccia), da cui, secondo la tradizione araba, Maometto è stato rapito al cielo e su cui, secondo la tradizione ebraica, Isacco stava per essere sacrificato dal padre Abramo.
Gli ebrei hanno già pronto tutto il necessario: abiti sacerdotali, suppellettili sacre per i sacrifici, menorah (candelabro a 7 bracci), le stesse pietre, squadrate e numerate…
Gli arabi temono che gli ebrei facciano crollare la moschea (magari con un terremoto pilotato) e operino il colpo di mano. Sotto la moschea vi è il muro occidentale (ciò che resta del tempio di Erode), dove gli ebrei svolgono le funzioni religiose più significative.
Sia gli uni che gli altri si appellano a Dio, che invocano come garante del loro odio e propositi omicidi. Si odiano in nome di Dio. La vendetta che procede con sviluppo esponenziale: un torto si lava con due torti, una morte con due morti; per rispondere adeguatamente, torti e morti diventano quattro… e così via. Senza fine.
I figli sono concepiti nell’odio del nemico, cresciuti ed educati nelle scuole a odiare l’arabo o l’israeliano; gli stessi giochi sono improntati a questa pedagogia di distruzione. Vi sono straordinarie eccezioni, che restano solo segni di possibilità.
In Gerusalemme tutto è separato: la città nuova è solo israeliana e gli arabi non possono accedervi; la città vecchia è abitata da musulmani, cristiani, armeni ed ebrei, ma ognuno nel suo quartiere; la zona araba, sotto amministrazione israeliana, è priva di ogni servizio: ognuno si arrangia come può, senza regole, tranne le leggi militari.
L’ordine è mantenuto dalla polizia militarizzata; le angherie sono all’ordine del giorno, secondo l’umore del singolo soldato di tuo. Quante volte ho assistito alla atroce scena di vedere strappare permessi di lavoro o documenti personali ai palestinesi: per riaverli bisogna rivolgersi alla mafia, sborsare tanti soldi e sprecare molto tempo.
Da una parte Israele si ghettizza da solo in una morsa di paura e fragilità; dall’altra i palestinesi sono incapaci di organizzarsi e tendere ad essere nazione. Bruciano la bandiera israeliana, ma trafficano la moneta israeliana; contestano l’America, mentre vestono jeans e scarpe Nike.
L’unico collante che unisce i palestinesi è il sentimento religioso musulmano, viscerale ed emotivo, non il senso dello stato, che non hanno mai avuto, tanto meno il desiderio di avee uno proprio. Il giorno in cui sarà costituito il loro stato, i palestinesi che potranno scapperanno sotto il dominio israeliano, preferendo essere gli ultimi tra i primi (economicamente) che i primi tra gli ultimi.
Israele si è spesso servito delle organizzazioni terroristiche (Hamas, Jihad, Erzbollah) per contrapporle ad Arafat, fomentando la divisione tra palestinesi. Li ha armati, pagati, diffuso droga per dominare i giovani; oggi gli si sollevano contro e diventano nemici da distruggere, perché portatori di terrore.
A Israele le armi vengono foite dall’America che qui sperimenta armamenti nuovi; ai palestinesi e gruppi estremisti (e anche a Israele) sono vendute dai paesi europei (Italia compresa), Egitto, Siria… La strada che salva la coscienza amorale è la solita: le si vendono a uno, che le rivende a un terzo, questi a un quarto… finché arrivano a destinazione.
cristiani nel mirino
Da nessuna parte ho sentito, non dico la condanna, ma almeno la segnalazione, la notizia che Israele tra il 2001 e il 2002 ha sradicato più di 500 mila alberi da frutti, uliveti e bananeti compresi, di proprietà palestinese. Fa parte di una strategia che, insieme alla distruzione delle case, vuole distruggere non solo il presente, ma anche il futuro. In Oriente un albero da frutto spesso è il solo patrimonio di una famiglia: un ulivo la mantiene per generazioni.
In tale distruzione gli israeliani hanno preso di mira i cristiani. Con la scusa che dentro le loro case si nascondono terroristi, abbattono le loro abitazioni prima ancora di quelle dei musulmani, per costringerli ad abbandonare la Palestina.
Temono che i cristiani, per la risonanza mondiale che hanno, come ha dimostrato l’occupazione della basilica della Natività a Betlemme, possono essere quella coscienza critica che Israele teme più di ogni altra cosa. Non vuole testimoni.
FIGLI MOSTRI E VIOLENZA CIECA
La caratteristica nefasta della seconda intifada è la comparsa di kamikaze: suicidi per uccidere indiscriminatamente più israeliani possibile. Non è più guerra tra eserciti, ma genocidio di disperati. Sparare nel mucchio non è solo immorale, ma un crimine contro l’umanità.
I capi dei gruppi estremisti, atei di fatto, ma religiosi di facciata, strumentalizzano il nome di Dio per manipolare e indurre ignari ragazzi a compiere suicidi-omicidi in suo nome, sapendo di compiere un’aberrazione davanti a Dio. I capi che li alimentano, fomentano e armano, ne dovranno rispondere al tribunale della storia e di Dio.
La maggior parte di questi giovani sono manovrabili, fragili psicologicamente, provenienti da famiglie a cui Israele ha tolto tutto, anche la speranza del domani. Prima di essere esplosivi viventi, sono bombe cariche di odio, che vince anche l’istinto della sopravvivenza.
Ogni famiglia di kamikaze riceve un indennizzo di dollari con cui può vivere per molto tempo. Figli mandati ad ammazzare altri figli. Chi uccide i suoi stessi figli, ha già ucciso il proprio popolo; il futuro uccide il futuro, prima ancora che nasca.
Eppure questi scellerati, accecati da odio e vendetta, non sono nati all’improvviso, ma sono il frutto di uno stupro costante e continuativo sulla popolazione palestinese: condizione di apartheid in cui vive la quasi totalità dei villaggi, campi profughi ancora esistenti dal 1948, sistematico impedimento alla circolazione di persone e beni, impossibilità di potersi ricongiungere con familiari separati da fili spinati e muraglie, innalzate anche all’interno dello stesso villaggio, odissea quotidiana della ricerca di un lavoro con ore di attesa ai check-point (quando si riesce a passare), inesistenza di assistenza medica, terrore di non potere nemmeno andare in ospedale per partorire, impossibilità di frequentare le migliori università del paese, umiliazione quotidiana della propria dignità, rifiuto sprezzante d’Israele di osservare anche una sola risoluzione dell’Onu, violazione di ogni diritto, anche elementare, consapevolezza di essere e sentirsi abbandonati da tutti, corruzione tra i governanti palestinesi, che succhia sangue su sangue, addossando sulle spalle dei poveri sempre più tasse per ogni nonnulla… questo e altro ancora hanno lentamente preparato la nascita e la crescita dei kamikaze che credono di spendere in anticipo il loro futuro per anticipare la fine di un inferno senza nome e senza fine.
Chi non ha mai visitato un villaggio arabo sotto dominazione israeliana non può rendersi conto né capire. Non giustifico minimamente l’orrore dei kamikaze; ma dico che essi sono figli-mostri, generati dalla violenza di stato che Israele consapevolmente e strategicamente ha messo in atto in questi anni, con la mal celata speranza di espellere tutti i non ebrei dalla Palestina.
Utopia? Semplicemente miopia! La vendetta chiama vendetta; violenza semina e miete violenza, in un circolo fatale senza scampo né soluzioni. I kamikaze sono la risposta disumana agli attacchi dell’aviazione israeliana, omicidi mirati o distruzione dissennata e indiscriminata di case e popolazione palestinesi.
È un’esercitazione teorica senza senso domandarsi chi ha cominciato prima: violenza di stato e violenza dei kamikaze sono figlie gemelle della volontà di non volere trovare una soluzione che preveda due stati e una capitale.
I palestinesi hanno diritto ad avere uno stato proprio con confini certi e continui, dentro i quali possono organizzarsi o distruggersi come loro aggrada, nel rispetto totale della loro autonomia. Israele ha diritto a vivere nella terra da cui fu scacciato duemila anni fa, ma convivendo alla pari con gli altri stati, condividendo con essi le risorse primarie, specialmente l’acqua, che è la condizione essenziale di vita.
Anche il problema delle sorgenti è una delle cause della guerra infinita: possederle significa avere la chiave del giardino dell’Eden e Israele non vuole dividerle con alcuno.
IL FUTURO NELLE MANI DI DIO
Quale futuro per Israele? Quale futuro per i palestinesi? Da un punto di vista umano, non si vede alcun futuro; da quello religioso, sembra che Dio abbia abbandonato i due popoli alla loro pazzia distruttiva.
Gerusalemme oggi è la città che vede morire i suoi figli e non sa cosa fare. In Israele il 10% della gioventù è suicida perché abitata dall’insicurezza interiore e paura. Non si può vivere una vita nella dimensione della guerra e del nemico, andando sempre e ovunque armati. Si finisce per distruggere se stessi.
Per la prima volta in Israele nasce il problema dell’obiezione di coscienza. In due anni, almeno 500 militari si sono rifiutati di combattere nei territori, ritenendo immorali gli ordini ricevuti. Alcuni soldati sono stati giudicati dalla corte marziale e puniti; la frana è inarrestabile.
Dopo che sarà finita la guerra con i palestinesi, Israele dovrà fare i conti con una guerra civile: deve scegliere se essere uno stato teocratico, governato dalla Torah di Mosè, per cui si battono i religiosi ortodossi e i fondamentalisti, o uno stato laico. Le due anime si fronteggiano già, ma quel giorno sarà una guerra all’ultimo sangue.
I palestinesi hanno tre livelli: quelli che vivono nell’indotto israeliano e vorrebbero essere israeliani, anche di seconda e terza categoria, per i benefici economici che possono avee; quelli che gravitano su Israele per il lavoro: non saranno mai cittadini con documento israeliano, ma accetteranno di essere i paria dei ricchi, pur di avere un minimo di vita occidentale. Infine i palestinesi sotto l’autorità di Arafat: questi sono i veri poveri, coloro che nessuno difende, che saranno sacrificati sempre, sotto Israele e sotto Arafat, che vivono da sempre nei campi profughi, che gli stessi arabi rifiutano. In uno stato palestinese autonomo saranno i dannati del nuovo inferno, sfruttati da una amministrazione corrotta e senza speranza.
LA PACE PASSA PER GERUSALEMME
Quale futuro? Uno solo: che ebrei e musulmani si convertano veramente a quel Dio in cui dicono di credere, che partano sul serio dalle loro sacre scritture, prendano atto dell’esistenza dell’altro, rinuncino alla pretesa impossibile e irrazionale di riuscire a espellerlo dalla terra di Palestina, che è la terra non di questo o di quello, ma la terra di Dio.
Non penso che questa generazione perversa vedrà la pace e nemmeno la prossima. In oltre 50 anni si è accumulato tanto odio da fare scoppiare settanta volte sette non solo l’intera regione, ma il mondo intero: poiché la pace nel mondo passa attraverso la pace tra le mura di Gerusalemme.
Tutto questo odio non può esaurirsi in una dichiarazione d’intenti. Bisogna ristabilire il diritto negato: Israele deve riconoscere, almeno a un gruppetto simbolico di esuli, il diritto di ritornare alla terra e alle case da cui furono strappati; agli altri, esuli figli di esuli, riconoscere un indennizzo economico adeguato, di cui potrebbe farsi carico, in parte, la comunità internazionale.
Bisogna che Israele ricostruisca i villaggi distrutti e ripristini gli alberi sradicati; abbatta il muro della vergogna, con cui sta violentando ancora una volta la carne viva della terra di Palestina, terra a vocazione mondiale. La storia non insegna proprio nulla, se, appena caduto un muro, se ne costruisce un altro, per dividere due popoli che storia e religione condannano a vivere insieme.
Bisogna ricominciare dalla scuola: costruire classi miste di ebrei e musulmani (e cristiani), farli studiare sugli stessi libri, crescere insieme, aprendoli alla conoscenza vera della storia, cultura e religione dell’altro.
Durante la sua visita, il papa compì un gesto altamente simbolico: a Gerusalemme piantò un albero di ulivo, innaffiato da tre caraffe portate da tre bambini, un ebreo, un arabo e un cristiano. Acqua ebraica, acqua araba e acqua cristiana mescolate insieme, per fare crescere un solo ulivo, simbolo della nuova Palestina.
In questo nuovo contesto, Gerusalemme, capitale d’Israele, capitale dei palestinesi, capitale cristiana, sarebbe governata con uno statuto speciale da una commissione mista di garanzia, perché è la città di Dio e per questo a vocazione universale, aperta a quanti vogliono adorare Iddio in spirito e verità (Gv 4,23).
«Possa tu, Gerusalemme, vedere i figli dei tuoi figli. Pace su Israele!» (Sal 128,6). Pace sulla Palestina! «Sia pace fra le tue mura, Gerusalemme» (Sal 122,7), sgabello della gloria di Dio. •
Paolo Farinella