Studente palestinese, 23 anni, fisico prestante, Ibrahim ogni giorno scavalca il muro per frequentare la facoltà di ingegneria edile all’Al Quds University di Gerusalemme. È una fatica più mentale che fisica: una rapida occhiata per assicurarsi che non ci siano pattuglie di soldati israeliani, un salto e si trova a un metro dall’entrata dell’università.
Potrebbe passare dal check point; ma bisogna fare code estenuanti, sotto il sole che picchia duro; a volte i soldati hanno ordini di non far passare nessuno; poi, è troppo umiliante ripetere ogni giorno il perché e il percome si voglia raggiungere quella che un tempo era la propria terra.
In questo luogo il muro di separazione tra Israele e i Territori occupati è alto poco più di due metri e corre all’interno di Gerusalemme, isolando il quartiere di Abu-Dis, dove si trova l’Al Quds Jerusalem University, una delle più importanti della Palestina.
Essa conta 6 mila studenti, molti dei quali provenienti da varie nazioni. Fu fondata nel 1984 e terminata nel 1994, periodo nel quale il processo di pace allora in corso portò a notevoli progressi sociali, soprattutto in Palestina, vogliosa di lasciarsi alle spalle decenni di battaglie e lutti.
Campus all’americana, con ampi spazi e vialetti alberati, grandi aule accoglienti, biblioteca con migliaia di volumi e buona tecnologia informatica, l’università offre corsi di laurea in scienze, medicina, legge e ingegneria. Qui si sta formando la futura classe dirigente palestinese.
Si dice che la cultura è un mezzo per avvicinare i popoli e smussare divergenze. Tutto vero, ma tutto inutile, se, per avere una cultura, devi scavalcare una barriera di cemento: ogni salto è una goccia di odio che si aggiunge.
S i rimane interdetti nel vedere docenti universitari affannarsi in gesti ginnici ormai non consoni a persone di cinquanta, sessant’anni. Ma la vita dei palestinesi, donne, bambini, vecchi, giovani, ha dovuto affrontare l’imposizione di una barriera e si è adeguata. Cassette di frutta, agnelli squartati, vestiti, mercanzia varia, anche essi «saltano».
Si assiste a scene grottesche e incomprensibili, come soldati israeliani che, ai piedi del muro, aspettano anziane donne nerovestite, che arrancano nel tentativo di scavalcare, muovendosi come lumache, con i vestiti che rendono i movimenti difficoltosi e spesso s’impigliano nel filo spinato; arrivate a terra i soldati controllano i documenti e le lasciano andare. Ma per avere casi come questi occorre la combinazione migliore: soldato intelligente e donna anziana. Altrimenti può accadere qualsiasi cosa: dall’arresto alla sparatoria.
Ibrahim è un ottimo studente, ma non ha nessun amico tra gli israeliani. Come moltissimi altri, forse tutti, ammira la resistenza armata. Di fatto, oltre a dividere fisicamente, il muro sta creando una barriera d’odio: questa davvero insuperabile, poiché nessuno vuol fare, non già un salto, ma un solo passo per avvicinarsi all’altro. Svastiche e stelle di Davide sono disegnate a profusione lungo il muro: tutte promettono vendetta.
A d Al Qalqiljia, circa 100 mila abitanti, nel nord della Cisgiordania, la «barriera difensiva», come la chiamano gli israeliani, circonda tutta la città, lasciando un unico passaggio, controllato dal check point. È alta otto metri, con ferro spinato e torrette, dalle quali i soldati controllano che nessuno si avvicini, per fare cosa non si sa, dato che è impossibile scalarla.
Hassian, come altri abitanti di questa città, aveva dei terreni agricoli particolarmente pregiati, fertili e non sassosi: sono rimasti dall’altra parte del muro e inglobati nel territorio israeliano.
«Vogliono la terra, ma non le persone» dice Hassian, sconsolato per la situazione in cui si ritrova: la sua casa, a un passo dal muro, è oggetto di frequenti incursioni da parte dei soldati di pattugliamento.
Al danno si aggiunge la beffa: in teoria, per le terre espropriate sono previsti dei rimborsi; ma la riscossione è vietata dall’Anp (Autorità nazionale palestinese, cioè il governo), che non vuole legittimare in alcun modo esproprio e costruzione del muro.
«V ogliamo solo difenderci dagli attacchi dei terroristi palestinesi, che si fanno esplodere nel nostro territorio, uccidendo civili inermi – sostengono i ragazzi israeliani conosciuti a Gerusalemme ovest -. Non è una reazione esagerata la nostra: tutti i giorni rischiamo di venire uccisi».
Teorizzato nel novembre del 2000, dal governo presieduto da Ehud Barak, il muro ha avuto la definitiva approvazione nel giugno del 2002 dal governo Sharon, tuttora in carica. Il progetto completo prevede una lunghezza di circa 350 km; attualmente ne sono stati costruiti 145; i restanti 200 sono stati definitivamente approvati e finanziati l’1 ottobre 2003.
La costruzione ha incontrato forte opposizione da tutta la comunità internazionale, esclusi gli Stati Uniti che, insieme a Israele e due minuscoli stati satelliti Usa, non hanno votato la risoluzione Onu, che condanna la costruzione del muro difensivo.
Nonostante le polemiche, Israele rilancia e propone un muro divisorio anche lungo il confine con la Giordania.
S pesso il muro corre all’interno della «linea verde», lo pseudo confine che dovrebbe dividere Palestina e Israele; a tratti entra all’interno della Cisgiordania per 7 km. A opera compiuta, il 2,9% di territorio palestinese verrà annesso a Israele; 102 mila palestinesi, distribuiti in 45 villaggi, vivranno isolati in enclaves a ovest della barriera, mentre 200 mila residenti di Gerusalemme est saranno divisi dal resto della West Bank; 71 comunità rurali saranno separate dai loro terreni agricoli.
Tale illegale usurpazione di terreno non rispetta la risoluzione Onu 242 del 1968 e ridisegna la carta geografica: le colonie, anch’esse illegali, vengono a trovarsi non più in Palestina, ma in Israele. Più che proteggere, la barriera divisoria esaspera gli animi e alimenta odi eterni.
Ad Al Qalqiljia nessuno si azzarda a scrivere la propria rabbia sul muro: è troppo pericoloso. Ma durante le manifestazioni di protesta, le uniche permesse, con la presenza di osservatori inteazionali, la rabbia trova sfogo, disegnando sul muro bandiere palestinesi scritte in inglese contro la vergogna del muro.
Esso ha spezzato la vita sociale e familiare di molti palestinesi. «Ho due fratelli che abitano al di là della barriera: come faccio a raggiungerli?» si domanda Ali. «Per andare al posto di lavoro devo fare tutti i giorni ore di coda al check point; prima mi bastavano cinque minuti a piedi» racconta un operaio. «Per fare la registrazione presso la segreteria dell’università siamo costretti a scavalcare il muro, mentre prima bastava attraversare la strada» lamentano gli amici di Ibrahim.
Così la vita continua, ognuno con la sua storia e, soprattutto, con la voglia di vendetta che sale giorno dopo giorno.
N on sono solo i palestinesi a criticare il muro e le ingiustizie derivanti da questa guerra assurda. A B’Tselem c’è un centro studi israeliano, che monitora la situazione dei diritti umani in Palestina. Ci tengono a sottolineare che non sono un movimento pacifista. Composto da ricercatori, intellettuali, politici, studenti, è il punto di riferimento per ogni studio di tipo statistico riguardante il conflitto israele-palestinese: territori occupati, colonie, coprifuoco, demolizioni, omicidi…
Tacciati di collaborazionismo da buona parte della società israeliana, i loro studi non sono mai stati smentiti.
Maurizio Pagliassotti
Maurizio Pagliassotti