BENIN – Odore di futuro

In Benin dal 1987,
i cappuccini marchigiani promuovono attività
di evangelizzazione, promozione umana
e vocazionale; già
si vedono i primi frutti:
frati beninesi seguono
le orme di Francesco, camminando
accanto agli ultimi.La gente sembra molto rilassata. E sorride. Alcuni bambini sguazzano in un grande acquitrino, fuscelli neri accanto al grande fiume Niger. Sopra le loro piccole teste si allunga il ponte che collega le due dogane. Delle donne trasportano legna sul capo. Arriva a bassa velocità una vecchia auto, stracarica e ammaccata. Il conducente ci saluta con il clacson. Il doganiere abbassa la corda, fa un cenno con la mano, sembra scherzare, e li lascia passare.
Abbandoniamo Malanville in direzione sud, per ritornare sulla costa. Percorriamo una pista sterrata che fende tutta la grande distesa di savana. Se si lascia la via principale si possono prendere i sentirneri che portano diritti all’Africa vera, quella dei villaggi di capanne con i muri di terra rossa e i tetti di paglia.
Qui si parla il bariba e l’odore non è più quello di animali sgozzati sui banconi, ma di erba bruciata.

STREGONI… MANCATI

Siamo a Ina, diocesi di N’Dali, a 250 chilometri dal confine. Qui, nel novembre 2003, i cappuccini hanno inaugurato la parrocchia di Sant’Andrea. La nuova casa è stata affidata a padre Giansante, affiancato da un giovane frate africano. Insieme a loro si trovano anche quattro suore indiane. Tutti coinvolti in questa terra di evangelizzazione, dove i problemi non mancano.
Anzitutto la cronica mancanza di acqua potabile spinge a realizzare nuovi pozzi. Inoltre, questa è una zona in cui la disponibilità di elettricità è molto scarsa, per cui si fa ancora più rilevante la costruzione di un ambulatorio attrezzato e di una mensa per i poveri.
Tuttavia, le basi per iniziare un lavoro proficuo ci sono tutte. Le scuole liceali, agricole e tecniche, sono piene di giovani e la loro disponibilità sembra calda e sincera. Certo, gli ostacoli sul piano sociale e culturale non possono essere minimizzati. La lingua prima di tutto. Infatti le sacre scritture sono tradotte negli idiomi locali e le fatiscenti chiesette dei villaggi avrebbero bisogno di urgenti ristrutturazioni.
Padre Giansante se la sta cavando egregiamente. Il suo bariba migliora e la sua efficacia comunicativa sta ottenendo i primi risultati: i catechisti, formati dalla diocesi, sono già stati attivati per allacciare un bel rapporto tra la parrocchia e i vari villaggi. Perché lo scopo è formare una comunità unita e serena.
Infine, al frate marchigiano non guasterebbe una nuova jeep con gli assi rinforzati, per coprire la strada piena di buche che circonda le sue otto nuove stazioni, i nuovi piccoli mattoni della sua parrocchia, dove il tempo sembra essersi fermato in qualche ovattata cavità.
Le donne impastano la manioca o il mais, i bimbi sbadigliano avviluppati alla schiena delle madri, mentre gli uomini vanno a tagliare la legna nella boscaglia e i ragazzi più grandi tirano frustate alle poche vacche magre, intontite dal sole e lente sul sentirnero nascosto tra la sterpaglia.
Qualcuno, ai bordi della via principale, vende gli igname, un tubero simile alla patata. Non si muore per fame, sebbene l’alimentazione sia insufficiente. Superare i primi cinque anni di vita, però, è una battaglia vera: la mortalità infantile è ancora pesante.
Sulla via principale è stato costruito un modesto ambulatorio, dove incontriamo delle donne che aspettano di essere visitate. Comunichiamo a gesti. Loro fanno parte dell’etnia peul, una popolazione semi-nomade. Sulla porta del medico c’è un manifesto in cui si ricorda l’importanza delle vaccinazioni. È scritto in francese e sfortunatamente non tutti vanno a scuola. Le donne ancora di meno, costrette ad arrangiarsi, in una società patriarcale in cui la poligamia è una pratica molto diffusa.
Il capo del villaggio è da millenni maschio e anche lo stregone, al quale si può affiancare una sacerdotessa nella celebrazione del rito. Lo stregone ha il potere, parla con gli spiriti e confeziona le fatture, i grigri, per le quali gli viene corrisposta una lauta parcella.
Qui è terra di vudù, attraverso il quale, sin dall’alba dei tempi, gli uomini invocano gli dei per ottenere ricchezza, salute e prosperità.
Spesso, all’ingresso del villaggio, si può trovare una sorta di basso tabeacolo fatto in terracotta, contenente i feticci che rappresentano gli spiriti degli antenati e del mondo soprannaturale. I tabeacoli sono i guardiani, non fanno entrare la malasorte.
Ogni piccolo insediamento ha una capanna-feticcio dove su una pietra allungata, che funge da altare, si offrono piccoli sacrifici animali e libagioni, per rendere propizie le forze del mondo invisibile. Un tempo venivano fatti anche sacrifici umani.
A Oenou, una piccola frazione nella diocesi di N’Dali, si sta inaugurando un centro per bambini in difficoltà. Alcuni di essi sono stati diseredati dalla famiglia, perché accusati di essere bambini-stregoni. La superstizione detta che soltanto famiglie prescelte possono mettere al mondo gli autentici stregoni.
Se il neonato di una famiglia a cui è precluso procreare stregoni manifesta certi segni, come mettere prima i dentini superiori rispetto a quelli inferiori, o uscire dalla pancia con i piedi, significa che è uno stregone, ma spuntato nel posto sbagliato, e perciò rischia di essere eliminato. Molti vengono abbandonati, lasciati fuori dal villaggio in preda ai crampi allo stomaco.
Il centro che li ospita consta di dormitorio, refettorio e scuola elementare. Il progetto è andato in porto grazie anche alla generosità di una signora italiana che lo ha finanziato.
Alla cerimonia sono presenti autorità civili e religiose. Insieme al vescovo, partecipano i rappresentanti della comunità islamica. Prendono il microfono anche i capi del villaggio, custodi dell’eredità del passato: nell’elogiare la bontà dell’opera sociale, riconoscono il cinismo di alcuni precetti della tradizione.

BABELE RELIGIOSA

Salutiamo Oenou, inseguiti da una nuvola di bambini festanti, e ci dirigiamo verso la capitale economica, Cotonou, città portuale affacciata sull’oceano Atlantico. Le impronte del colonialismo francese sono ancora visibili: innanzitutto l’idioma, che si mescola tuttavia con la lingua del sud, il fon; poi l’organizzazione sociale, in quanto la cultura tribale è stata sconvolta da febbrili attività commerciali, inquinamento, traffico senza regole e, infine, da una crescente baraccopoli strapiena di poveri, che sopravvivono con pochi franchi al mese.
Sono gli esclusi, che si trascinano ai margini dei quartieri destinati ai signori della burocrazia ministeriale, corrotta e inconcludente, o davanti alle ville dei mercanti, che fanno affari con l’euro, l’occhio patealistico che sorveglia su tutto ciò che si muove, laddove un tempo sventolava la bandiera di Parigi.
Ma a Cotonou si tocca anche un altro aspetto della cultura dell’Africa modea: il sincretismo. In ogni angolo si erge un luogo di culto. Oltre a quelle cattoliche, ci sono chiese ortodosse e protestanti e poi numerose moschee: imponenti edifici, alcuni tutt’ora in costruzione, dove tranquillamente i musulmani pregano il Corano.
Di tanto in tanto, nella babele di motorini-taxi e macchine che sfrecciano da tutte le parti, si intravedono i templi dei cristiani celesti, seguaci di una setta che lega elementi del vangelo con spicchi di animismo. Questo pentolone, in cui ribolle il muezzin, il suono ossessivo del tam-tam e la preghiera cristiana, rispecchia la mentalità di perpetuare un rapporto magico con il mondo spirituale e la grande sensibilità del popolo africano per i segni della natura.
Quindi durante la messa i canti e le danze della tradizione si fondono con la liturgia, perché da queste parti l’incontro con il divino è pur sempre una festa.
Lo abbiamo constatato partecipando alle cerimonie di professione perpetua di tre giovani del luogo e di ordinazione del primo frate cappuccino del Benin, Aubin Aguessy. Le chiese erano stracolme, vive e pulsanti di tanti colori, segno di una comunità che si stringe e si impegna intorno ai simboli della parrocchia.
I missionari cappuccini, a cui abbiamo fatto visita, operano in questa striscia di continente dal 1987. Dove un tempo c’era solo un’enorme e desolante discarica, ora sorge un funzionante convento, accogliente , tra palmeti e alberi di mango, che ospita non solo religiosi e postulanti, ma anche viaggiatori che vengono dall’Italia.

ACCANTO AGLI ULTIMI

Intoo al convento ruotano le attività legate alla Caritas, alle corali che animano le funzioni religiose e alla gioventù francescana, un gruppo di ragazzi che portano conforto in giro per la città alle persone che stanno male.
Nella stessa area si trovano le comunità delle clarisse e delle suore terziarie francescane. Quest’ultime hanno lasciato circa 10 anni fa il Sud America, ora gestiscono un ambulatorio e un istituto femminile, dove si insegna il mestiere della sarta.
L’aids avanza drammaticamente e la malaria continua inesorabilmente a mietere vittime. Davanti all’ambulatorio le donne con i bambini fanno la fila per qualche farmaco, mentre a scuola si lavora in laboratorio, lentamente, perché il caldo sfianca.
Le alternative alla prostituzione non sono tante: la parrucchiera o la sarta. In Benin l’arte del pettine e delle forbici ha un grosso peso culturale. Infatti dal tipo di taglio si può dedurre se la ragazza è libera, quindi in cerca di un compagno, o se è impegnata. A occhio e croce il giro d’affari che si accumula intorno ai capelli è fortissimo, almeno dal punto di vista sociale, se si contano i numerosi «negozi di bellezza» disseminati per tutto il paese.
Le trecce forse leniscono la durezza dell’arrangiarsi; ma per chi dai villaggi giunge nella metropoli la vita non è affatto facile. Le ragazzine che sfuggono all’usanza dei matrimoni combinati trovano spesso la violenza della strada.
Per le donne, in generale, i diritti non sono estesi. Le mamme non hanno la tutela dei figli e, soprattutto nel clan familiare, contano zero, molto meno delle sorelle del marito. Il risultato di questa discriminazione è che molte ragazze scelgono di lasciare la famiglia per cercare fortuna in città. Dove spesso non la trovano. Alcune, invece, trovano i due orfanotrofi che i cappuccini hanno inaugurato da poco tempo, in cui sostegno e affetto ci sono sempre. Qui possono studiare, ricevere le cure adeguate, dormire al sicuro e mangiare tutti i giorni.
I presupposti per un intervento serio nel settore sociale ci sono, sebbene la prova del nove sarà quando il testimone passerà nelle mani dei frati africani, di chi, nato in questa terra, dovrà portare avanti il magistero e l’esempio vivo dei missionari venuti dalle Marche.
E i successori già sono stati designati o, per lo meno, si apprestano a esserlo. Sono i novizi, ragazzi non solo del Benin, ma anche del Camerun e Costa d’Avorio, che si preparano al sacerdozio nella terza casa dei cappuccini, quella di Ouidah, a 40 chilometri da Cotonou, sulla strada verso il Togo. A loro è affidata la costruzione di un ponte ideale tra Assisi e l’Africa, al fine di proseguire concretamente l’opera di occuparsi degli ultimi, in un continente che è davvero trattato a bastonate, ma che odora di futuro.
Verso il domani corrono i suoi bambini: ogni giorno si alzano per un tozzo di pane sempre amaro. Poi ineluttabilmente giunge la notte. La città si spegne, i mercati diventano silenziosi. Chi ha guadagnato, chi ha rubato, chi ha rimesso, chi ha comprato: ormai tutto si confonde nel buio.
Dalla foresta di palmeti volano in alto le strida degli uccelli e il rumore dei tamburi. Si fa festa, si fa il vudù. L’oceano ruggisce in lontananza, si espande il cielo nero violato qua e là da qualche luce.
Certo, non è la notte eterna del nord, dove le stelle sono l’energia elettrica, eppure anche stavolta la magia ha fatto la sua parte per rendere quel pezzo di pane meno amaro.

Paolo Brunacci

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