Nessun ponte di cadaveri

Signor direttore,
ha ragione Giulietto Chiesa (Missioni Consolata, gennaio 2004) quando scrive che «servono ponti non muri»; ma si è dimenticato di dire ciò che dicono Sharon e la maggioranza dei cittadini di Israele: che i ponti non devono essere fatti con i cadaveri degli ebrei.
Nello stesso giorno in cui avveniva lo scambio di 400 prigionieri palestinesi con tre bare di ebrei, una giovane mamma (si fa fotografare con un figlio in braccio che ha in mano una bomba) si è fatta esplodere procurando nuovi «mattoni» per il ponte.
Almeno l’attuale papa condanna anche i terroristi e ritiene gli ebrei «nostri fratelli», anche se è meglio sorvolare sull’atteggiamento assunto nel passato dalla chiesa verso gli ebrei. La parola «deicidio» non l’ha inventata Hitler.
Ha ancora ragione Chiesa quando dice che il terrorismo in Iraq prima non c’era, perché prima i curdi e gli sciiti morivano gasati (le famose armi, che ora non si trovano, sono volate in cielo?). Anche gli iracheni morivano a migliaia, dopo la tortura patita nelle prigioni sotterranee di Saddam Hussein.
Prima, Saddam ha potuto fare la guerra per otto anni all’Iran, occupare il Kuwait, farsi decine di palazzi favolosi e, per ultimo, dopo la cattura, dichiarare di aver 40 miliardi in Svizzera (cfr. Corriere della Sera, 30 dicembre 2003) e così permettere agli ipocriti di dire che, se il popolo era in miseria, la colpa era degli Usa (vedi embargo). Era meglio prima per gli orfani di Saddam!
Tutti questi fatti quando li ha descritti Giulietto Chiesa?

I «ponti» non si fanno con cadaveri, né israeliani, né palestinesi, né…
I «ponti», come le chiese, si costruiscono con «pietre vive» (cfr. 1 Pt 2, 5).

Rinaldo Banti




Perché siamo così

Egregio direttore,
le sarò grato se tenterà di rispondere a questa domanda: perché il Creatore dell’uomo, fatto a sua immagine e somiglianza e il cui corpo è tempio dello Spirito Santo, lo ha costretto a non assimilare completamente i liquidi e i solidi di cui deve nutrirsi, e, peggio, lo ha costretto alla fastidiosa umiliazione di subire l’ultima fase della digestione e di espellere sostanze repellenti?
Anche Gesù Cristo, risorto col suo corpo (benché trasfigurato), e la Madonna, trasferita col corpo in una condizione esistenziale superiore, hanno avuto bisogno di nutrirsi: quindi hanno subìto la conseguenza dell’ultima fase della digestione?
Gesù, per dimostrare ai discepoli che era veramente risorto col corpo e non era un fantasma, chiese loro qualcosa da mangiare e mangiò realisticamente uno o più pesci. Pertanto si sottopose, pur avendo un corpo trasfigurato, alla dura legge del metabolismo chimico, fisiologico e alle fasi finali della digestione.
O è tutto un mistero? Così come la forma e l’essenza della risurrezione del nostro corpo?

Lettera anomala, sotto alcuni aspetti… La risurrezione dai morti è «soprattutto» un mistero, un mistero da credere, ma anche da «aspettare», secondo il nostro credo.
Perché Dio ci abbia creati «così» è pure un mistero, anche oscuro. Forse, per renderlo più «chiaro», il filosofo-teologo Karl Barth ha suggerito di mutare il famoso cogito ergo sum di René Descartes in «cogitor» ergo sum. Cioè: esisto, perché sono pensato, sono amato (da Dio).

Aaldo Simonetta




Una garbatissima protesta

Egregio direttore,
fermo restando il giudizio positivo già espresso sul vostro lavoro, mi spiace dover segnalare il mio disappunto per come è avvenuta la pubblicazione di una mia lettera.
A parte le modifiche del testo originario (che comunque non incidono sul contenuto), mi sembra spiacevole l’effetto complessivo. A distanza di mesi il lettore potrebbe legittimamente non ricordare l’intervento di G. Chiesa e tanto meno le obiezioni del lettore di Perugia. L’impressione, quindi, è che il giornale pubblichi un intervento polemico un po’ gratuito e che prenda le distanze da chi pensa di poter dare dell’idiota ad altri con una certa leggerezza…
In compenso, proprio in seguito a questo episodio, ho scoperto quanti sono i lettori attenti di Missioni Consolata! Scrivo con una certa frequenza anche altrove e non mi era mai capitato che tanta gente insospettabile venisse a chiedermi se sono io «quello che…». E quest’ampia diffusione fa piacere a tutti noi.
Egregio direttore,
fermo restando il giudizio positivo già espresso sul vostro lavoro, mi spiace dover segnalare il mio disappunto per come è avvenuta la pubblicazione di una mia lettera.
A parte le modifiche del testo originario (che comunque non incidono sul contenuto), mi sembra spiacevole l’effetto complessivo. A distanza di mesi il lettore potrebbe legittimamente non ricordare l’intervento di G. Chiesa e tanto meno le obiezioni del lettore di Perugia. L’impressione, quindi, è che il giornale pubblichi un intervento polemico un po’ gratuito e che prenda le distanze da chi pensa di poter dare dell’idiota ad altri con una certa leggerezza…
In compenso, proprio in seguito a questo episodio, ho scoperto quanti sono i lettori attenti di Missioni Consolata! Scrivo con una certa frequenza anche altrove e non mi era mai capitato che tanta gente insospettabile venisse a chiedermi se sono io «quello che…». E quest’ampia diffusione fa piacere a tutti noi.

Signor Claudio, grazie dell’attaccamento a Missioni Consolata, espresso dal finale «tutti noi», che la rende in un certo senso parte della nostra «famiglia». Grazie anche della sua garbatissima protesta. Soprattutto, apprezziamo che lei non dia ad alcuno dell’«idiota» con leggerezza e gratuità.

Claudio Belloni




Dopo 30 anni

A Missioni Consolata sono interessata per:
1°, perché mi è molto utile come strumento di informazione e documentazione per le attività di educazione allo sviluppo nella scuola, date le tematiche di carattere globale che affronto;
2°, perché ho conosciuto e apprezzato la rivista durante un’esperienza estiva fatta presso alcuni missionari della Consolata, in Tanzania, una trentina di anni fa.
Oggi ho provveduto a fare il versamento per il 2004. Sono impegnata pure come volontaria in una Ong sarda (Osvic).

E così ci ritroviamo… dopo 30 anni. Che bello

Giulia Polloni




Aids in Africa

aro direttore,
ho letto l’articolo di G. Ferro sull’Aids in Africa nell’ambito della rubrica «Come sta Fatou?» (Missioni Consolata, dicembre 2003). Esprimo alcune perplessità al riguardo.
L’approccio tipico dei media, come di gran parte del mondo sanitario «istituzionale», al problema dell’Aids in Africa è concentrato sul comportamento sessuale individuale. Per spiegae l’enorme diffusione, si parla di promiscuità e di eccessiva attività sessuale, con un’implicita condanna morale per abitudini «esotiche».
Questo approccio compare anche nell’articolo di Ferro, per altri aspetti ottimo, con il folcloristico racconto del re dello Swaziland o della diffusione di poligamia e relazioni extraconiugali (certamente non peculiare degli africani). La soluzione è, quindi, una politica di prevenzione, basata solo sulla sfera individuale (sesso sicuro, preservativi, ecc.).
Alcune pubblicazioni (per esempio: A. Katz, «Aids in Africa», in Zmagazine, 9/03) evidenziano i limiti di questo approccio. Infatti, poiché il 25% di africani subsahariani è colpito dall’Aids, contro lo 0,01-0,1% occidentale, significherebbe per i primi un’attività sessuale 250-2.500 volte superiore! Le ragioni per tale abnorme diffusione devono essere anche e, soprattutto, altre.
È noto che malnutrizione e infezioni croniche (malaria, tbc, parassiti, ecc.) incidono sulle funzioni immunitarie. Ciò probabilmente rende le persone «sane» molto più vulnerabili all’infezione e quelle Hiv positive più contagiose. Questo potrebbe spiegare il tasso di trasmissione enormemente più alto di quello delle comunità benestanti occidentali.
Accettare queste considerazioni significherebbe, per le istituzioni coinvolte, intervenire, oltre a quanto già in atto, anche sulla povertà delle popolazioni africane per prevenire l’Aids.
Infatti solo con una migliore disponibilità di cibo, acqua corrente, fognature, alloggi ed assistenza sanitaria si potrebbe avere un netto incremento delle condizioni igienico-sanitarie. E magari le ragazze, per sopravvivere, non sarebbero più costrette a vendersi ai vari «paparini» e non accorrerebbero in 50 mila davanti al re dello Swaziland.
Tutto questo, per un congresso internazionale sull’Aids in hotel a 5 stelle, forse potrebbe sembrare troppo fuori dal coro.

Condividiamo le osservazioni del lettore. Missioni Consolata le ha espresse anche sul numero di febbraio 2004, dove si afferma: «La causa principale di Aids, malaria e tubercolosi è l’impoverimento progressivo delle popolazioni» (p. 15).
Tuttavia anche il comportamento sessuale non deve essere sottovalutato. Spesso è l’ultima goccia che fa traboccare il vaso.

Dario Selvaggi




Signore, benvenute!

Cari missionari,
desidero abbonare anche mia figlia alla bellissima rivista Missioni Consolata. Noi, in famiglia, la riceviamo da anni: è davvero un documento straordinario, da conservare sempre e da meditare.
Pertanto vi prego di mandarmi il conto corrente postale o di comunicarmi il numero per fare il versamento di denaro.
Carla Pavese
Casorzo (AT)

Cara signora Carla, per abbonare sua figlia a Missioni Consolata, può usare il conto corrente postale (ccp), allegato alla rivista stessa, che porta il suo nome; oppure può servirsi del ccp
numero 33.40.51.35
intestato a
Missioni Consolata Onlus
Corso Ferrucci 14
10138 Torino
Speriamo che sua figlia resti soddisfatta, almeno come lei… Così pure la nuova abbonata, signora Angela, appena ritornata dal Kenya.

Sono arrivata da pochi giorni dal Kenya, dove sono stata per due mesi nella missione di Wamba. Ho letto anche molti numeri della rivista Missioni Consolata, trovandola stupenda e subito mi sono abbonata. Ho trovato molto giusto quello che scrivete sui missionari. Veramente io non immaginavo che si adoperassero così tanto.
Stando due mesi, ho capito un po’ di cose; prima ero molto scettica e non pensavo (sono reduce da un grave lutto) di trovare nelle suore un amore così grande sia verso di me sia verso la gente locale.
Gli italiani, che magari sono come me (prima), sappiano che ogni soldo ricevuto dai missionari va veramente a buon fine. Sapeste quanta gente non muore di fame proprio perché ci sono i missionari. A Wamba c’è un bellissimo ospedale, e quanta gente si aiuta! Io sono tornata meno egoista e un po’ più serena.
Per favore, pubblicate questa lettera: è anche un ringraziamento. Grazie, zia Giordana Pia, grazie suor Micarnelita! Grazie a tutte le altre missionarie, delle quali non vorrei sbagliare il nome.
Angela Tosco
Bra (CN)

Anna Avanzi, Angela Tosco




Spudoratamente di sinistra

«Spudoratamente
di sinistra»

Spettabile redazione,
ho letto con molta attenzione gli articoli sulla guerra irachena e ho constatato con amarezza che tutti i commentatori appartengono solo ad un’area politica ben definita (cfr. Missioni Consolata, gennaio 2004).
La pagina di Giulietto Chiesa, poi, mi ha fatto rabbrividire: come può fare tanto il moralista, lui, che prendeva 300 rubli al mese dal Pcus, per raccontarci che in Urss c’era il paradiso e oggi considera venduti i giornalisti di centro-destra?
Un’informazione eticamente corretta doveva dare voce anche ad autori che la pensano in modo diverso, così da dare ai lettori una visione pluralistica del problema, consentendo loro di farsi liberamente una loro idea sul problema, e non solo quella imposta dalla vostra rivista.
Dal prossimo anno non rinnoverò più l’abbonamento (era da parecchi anni che lo facevo) e lo rifarò solo quando sarete informatori super partes, non portavoci soltanto di un’area politica (spudoratamente di sinistra).
Lucia Salvador

Certamente la lista dei commentatori della guerra irachena (tre sacerdoti diocesani, un missionario e un vescovo) poteva essere diversa; e le idee espresse possono essere anche errate. Ma bisogna provarlo con fatti e persone, come i nostri autori hanno argomentato il loro intervento, appellandosi a sant’Ilario di Poitier, a fatti di vita parrocchiale, ecc.
Non basta dire: appartengono tutti solo ad un’area politica. La politica partitica non è garanzia di verità.

Pieve di Soligo (TV)




La croce dell’Islam fondamentalista

Anche l’islam fondamentalista ha imparato a fare la croce. Ma è un segno di maledizione e sterminio.
In un tour attraverso l’Africa sono passato a Khartoum, in Sudan, paese dominato dall’integralismo islamico. Paese dove si discute il trattato di pace, dominato dai musulmani del nord, che volevano dare al sud cristiano, che poggia sul petrolio, il 15% dei proventi: il fatto che sia stato firmato il 50/50 è già positivo.
Con amici ho potuto vedere ciò che grida vendetta al cospetto di Dio: i campi profughi intorno a Khartoum; una guerra che dura da 20 anni e ha fatto oltre 2 milioni di morti e obbligato 4 milioni di persone a lasciare il loro verde e fruttuoso villaggio al sud, la loro capanna con gli animali e, su camion da bestiame o con marce forzate di 800 km, portati e buttati come animali da macello nella sabbia rovente intorno alla capitale dove manca tutto.
Per il cibo devono dipendere dalle organizzazioni umanitarie; mancano pozzi e l’acqua viene trasportata con gli asini e venduta in taniche; medicinali e medici sono un sogno.
Nel 2003, mi diceva un’amica, per 2 mesi la temperatura non è mai scesa sotto i 55° e una mosca, come le nostre, a questo calore, diventa velenosa e una sua puntura scava fino all’osso e lacera per 6 mesi.

M a è ciò che ho visto al campo di Geberona (700.000 profughi) che mi spinge a farmi voce di chi non ha voce.
L’Esodo parla dell’angelo sterminatore che risparmiava le case segnate col sangue dell’agnello. A Geberona, invece, ho visto lo sterminio dei poveri più poveri: una spianata di catapecchie, che la gente, in diversi anni e con infiniti sforzi e sacrifici, era riuscita a costruirsi con le proprie mani.
Con la scusa del futuro sviluppo della città, un grosso bulldozer opera la distruzione: vengono date 24 ore per sloggiare e prendere il nulla che hanno e poi le case segnate con una croce bianca vengono rase al suolo, e quella povera gente deve ricominciare da capo.
Ho pensato a un’altra croce, quella uncinata: stessa persecuzione, stessa crudeltà, stessa logica di morte.
Mi ha colpito la dignità di quei fratelli calpestati.
I miei amici cercano di aiutare i giovani dei campi profughi, offrendo loro il trasporto, un pasto (l’unico al giorno), l’istruzione e l’apprendimento di un mestiere. E un loro fratello fa da ponte per gli aiuti umanitari e la realizzazione di progetti per una preparazione adeguata e modea.
Sentivo il bisogno di far sapere tali atrocità, affinché nessuno possa dire: «Io non lo sapevo!».
Il popolo sudanese, il musulmano comune è buono, rispettoso e cortese. Il veleno del fanatismo è morte. Uno dei miei amici ha sognato, una notte, che stava difendendo gli agnelli, attaccati da lupi ringhiosi e decisi a sbranarli.
Sta costruendo la pace.
Sudan, sia pace su di te!
John

John