Lavorare da morire


Il rapporto dell’Organizzazione mondiale del lavoro (Oil)

Lavorare da morire

Per molti avere un lavoro è un miraggio. Per altri può divenire una fonte di pericolo: le cifre degli incidenti e delle malattie professionali sono impressionanti. Se poi la collettività non si fa carico (come suggeriscono i teorici del libero mercato) dei danni patiti, allora per il lavoratore e la sua famiglia la vita può diventare un autentico calvario.

Tre anni fa, Nolberto, il mio amico peruviano, ha avuto un incidente d’auto mentre lavorava. A Villa El Salvador, in Perù, una sera come tante, la sua vita è precipitata. Un pullman, guidato da un ubriaco, ha superato un’auto e, nonostante il tentativo di buttarsi fuori strada, l’ha preso in pieno.
L’auto sulla quale Nolberto viaggiava è andata distrutta: lui e due altri passeggeri sono stati portati in ospedale.
Dopo le prime cure, i medici hanno fatto la lista della spesa e l’hanno passata ai parenti. C’è bisogno di tante sacche di sangue, di tanti donatori, di chiodi per sistemare il femore, fili e aghi da sutura, medicine, esami di laboratorio, radiografie, il vitto, la riabilitazione e così via.
Per fortuna, Nolberto non è uno che si perde d’animo. Ha chiamato a raccolta gli amici; gli amici hanno chiamato altri amici e così si è formata la fila per donare il sangue, hanno raccolto i primi soldi per le cose più urgenti. Lui ha dovuto vendere lo scassato pullmino, che era non solo il suo orgoglio, ma anche e soprattutto lo strumento del suo lavoro, quello che gli permetteva di mantenere la moglie e i tre figli.
Nolberto è sopravvissuto. Gli hanno impiantato un chiodo dopo averlo messo in trazione, ma non aveva i soldi per l’operazione definitiva e la riabilitazione l’ha fatta da solo. Per questo è rimasto zoppo; comunque sia, dopo 6 mesi ne è uscito.
No, non era disperato. Mi ha semplicemente spiegato che, per sopravvivere in quei 6 mesi, si era «mangiato» tutto quello che per anni aveva investito nel pullmino, ma che per fortuna aveva salvato la casa. E poi ha ricominciato. Ha ricominciato da zero. Ha affittato un’auto ed ha iniziato a fare il taxista. Io ho la sua stessa età e non so se sarei in grado di ricominciare da zero.
Mi ha detto che è stato fortunato. Che lui aveva già informato i suoi figli che non avrebbe lasciato loro niente, perché la sua casa è una baracca e il suo lavoro è appeso a un filo che ogni tanto si può spezzare. Ha spiegato loro che la cosa importante era lo studio: questa era l’unica cosa che poteva lasciare loro insieme al suo cognome.

IL RAPPORTO OIL: UN BOLLETTINO DI GUERRA

Nolberto è solo una delle 270 milioni di persone che ogni anno nel mondo subiscono un infortunio sul lavoro e che si sommano ad altri 160 milioni di lavoratori che, sempre in un anno, contraggono una malattia professionale.
Si muore soprattutto di cancro (32% dei decessi, 640 mila morti all’anno), per malattie all’apparato circolatorio (23%), incidenti (19%) e per aver contratto malattie contagiose (17%). L’amianto, da solo, causa ogni anno 100 mila morti. Ogni anno, poi, muoiono 12 mila minori sul lavoro.
È il rapporto dell’Organizzazione mondiale del lavoro (Oil) del 2003, che getta sulle nostre coscienze queste spaventose cifre. Ha avuto la sfortuna di essere pubblicato durante la guerra dell’Iraq ed è passato praticamente sotto silenzio.
Tra i settori più pericolosi spicca l’agricoltura, che occupa più della metà dei lavoratori nel mondo e conta più del 50% di incidenti e morti sul lavoro. La maggior parte delle vittime appartiene ai paesi in via di sviluppo, dove si concentrano le attività del settore primario: l’agricoltura, la pesca, l’estrazione mineraria e la silvicoltura. Ad ogni modo l’Oil rileva che, in generale, in tutto il mondo è carente l’informazione sulle precauzioni da adottare sul lavoro per evitare di contrarre malattie o di rimanere vittime di infortuni.
Secondo l’Oil circa l’80% degli infortuni e delle morti bianche potrebbe essere prevenuto se tutti gli stati membri dell’Organizzazione internazionale del lavoro ricorressero alle migliori e più comuni strategie di prevenzione e sicurezza.
Definire il rapporto Oil un bollettino di guerra è riduttivo perché le vittime del lavoro sono più del doppio di quelle provocate dai conflitti, superano di molte lunghezze quelle causate dall’alcornol e dalla droga. Dei 250 milioni d’infortuni che si verificano ogni anno molti hanno conseguenze permanenti, menomazioni della salute, handicap, perdita del lavoro, povertà.
Alcune cifre: nel mondo, un morto ogni 15 secondi, 5.470 al giorno, 2 milioni all’anno; in Italia, 1.360 morti in un anno.
Il costo degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali è pari al 4% del prodotto interno lordo del pianeta, supera di venti volte il totale degli aiuti ai paesi sottosviluppati. «Tutti gli incidenti sono prevedibili e prevenibili», afferma il rapporto dell’Oil che indica l’agricoltura, l’edilizia e le miniere come i settori più mortiferi, sia nei paesi avanzati che in quelli emergenti.
La media dei morti per infortuni sul lavoro è di 14 decessi per 100 mila lavoratori. Nei paesi ricchi (Nord America, Europa occidentale, Au-stralia, Giappone), il rapporto scende a 5,3; è 11 nei paesi ex socialisti, Cina e India; 13 in America Latina. Il tasso sale a 21 morti per 100 mila lavoratori in Africa subsahariana, 22,5 nel Medio Oriente e tocca il massimo – 23,1 – in Asia, dove, escludendo Cina, Giappone e India, nel ’98 si sono verificati 80.600 incidenti mortali.
Oltre a ciò, vanno aggiunte le vittime della violenza sul lavoro. Secondo stime della Confederazione internazionale dei sindacati (Icftu), nel 2001 sono stati uccisi o fatti scomparire 209 sindacalisti (+50% sul 2000), 8.500 sono stati arrestati, 3 mila sono stati feriti. Circa 20 mila lavoratori sono stati licenziati per la loro attività sindacale.
Il direttore dell’Infocus programme dell’Oil, Jukka Takala, dichiara: «Si riscontra un forte calo dei feriti gravi nei paesi industriali. Questo miglioramento è imputabile sia ai cambiamenti strutturali (diminuzione del numero di lavoratori impegnati nelle attività pericolose del settore agricolo, industriale, minerario e della costruzione) che alle misure concrete d’igiene e sicurezza sul lavoro».
Tanto per cambiare, nei paesi in via di sviluppo (Pvs) la tendenza è ancora meno favorevole. La migrazione delle popolazioni verso le città, l’apparizione di nuove industrie, il ricorso a lavoratori inesperti nel settore industriale imposto dalla globalizzazione, il crescente fabbisogno di nuovi alloggi, l’intensificarsi del traffico stradale, la meccanizzazione dell’agricoltura sono altrettante cause dell’aumento del tasso di malattie e incidenti nei Pvs. Solo nell’Africa subsahariana, si stimano ogni anno 125 mila decessi riconducibili all’attività lavorativa.
Non dimentichiamo che l’indennizzo per le malattie e incidenti legati al lavoro è praticamente inesistente nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo. Soltanto 23 stati hanno ratificato la Convenzione n° 121 sugli indennizzi e riconoscimenti in caso di incidenti sul lavoro o di malattie professionali, adottata nel 1964 e dove sono elencate le malattie che devono essere oggetto di risarcimento.
Bisogna intraprendere, poi, azioni urgenti contro l’Aids. Le ultime valutazioni segnalano 23 milioni di lavoratori che soffrono di questa malattia, con 17,5 milioni in soli 43 paesi africani, tanto da generare una condizione di emergenza che non può essere ignorata.
Per l’Oil, infine, i sindacati non devono mai abbassare la guardia. Imprenditori e lavoratori potrebbero pensare che «capita soltanto agli altri». Non dimentichiamo che per ogni incidente mortale avvengono 1.200 incidenti meno seri, all’origine di una sospensione di lavoro per almeno tre giorni, 5 mila feriti necessitano di una cura e 70 mila incidenti lievi. Per evitare un incidente mortale occorre quindi agire sull’insieme degli altri elementi che sono spesso all’origine di un decesso sul lavoro.
E poi ci sono i bambini, i minori.

ILLEGALE, MA DIFFUSO

Oggi nel mondo un bambino su sei è vittima del lavoro minorile ed è sottoposto a lavori nocivi per la sua salute mentale e fisica o per il suo sviluppo emozionale.
Questi bambini lavorano in vari settori dell’industria in diverse parti del mondo, soprattutto nell’agricoltura dove sono esposti a prodotti chimici e a macchinari pericolosi. Altri bambini lavorano per strada come venditori ambulanti o come fattorini; altri ancora sono lavoratori domestici, operai o sono costretti a prostituirsi. A nessuno di loro vengono offerte reali possibilità di vivere una infanzia normale, di ricevere una vera educazione o di aspirare a delle condizioni di vita migliori.
Dal lavoro di questi bambini dipende la loro sopravvivenza nonché quella delle loro famiglie. Anche se è stato dichiarato illegale, il lavoro minorile persiste tuttora, avvolto spesso da un muro di silenzio, di indifferenza e di apatia.
Inizia tuttavia a sgretolarsi il muro del silenzio. Se l’eliminazione totale del lavoro minorile rimane un obiettivo di lungo periodo per numerosi paesi, alcune forme di esso vanno però fronteggiate senza indugio. Poco meno di 3/4 dei bambini che lavorano operano in attività universalmente riconosciute come forme peggiori di lavoro minorile: traffico di esseri umani, conflitti armati, schiavitù, sfruttamento sessuale, lavori pericolosi. L’abolizione effettiva del lavoro minorile costituisce una delle sfide più urgenti del nostro tempo.

LÀ DOVE TUTTO È UN LUSSO

Quando per un periodo ho lavorato nella zona industriale di Villa El Salvador per impiantare le basi di un programma di medicina del lavoro, i piccoli impresari e artigiani mi dicevano che loro prima di tutto volevano lavorare e che la sicurezza era un lusso.
È proprio così: i maggiori disastri ambientali, le più grandi tragedie del trasporto, i più tremendi incendi nei luoghi pubblici, gli effetti più disastrosi dei fenomeni naturali (terremoti, uragani, inondazioni, ecc.), avvengono nei paesi in via di sviluppo. In quei paesi la prevenzione è un lusso, l’attenzione all’ambiente un altro lusso; è lusso anche avere un lavoro fisso, magari di 12 ore al giorno, senza protezione sociale, senza regole, senza controlli, senza sicurezza.
In quei paesi, al contrario del nostro immaginario collettivo, si lavora tanto, ma proprio tanto: lavorano tanto gli uomini, lavorano tanto le donne, lavorano tanto i bambini. In quei paesi si lavora tanto da morire.

Organizzazione internazionale del lavoro (Oil):
numero di morti per 100.000 lavoratori

America del Nord, Europa Occidentale, Australia, Giappone 5,3
Paesi ex socialisti, Cina e India 11,0
America Latina 13,0
Africa Sub-sahariana 21,0
Medio Oriente 22,5
Asia (escluso India, Cina e Giappone) 23,1Media mondiale 14,0

DATI STATISTICI SUL LAVORO MINORILE

• 246 milioni di bambini sono costretti a lavorare.
• 73 milioni dei quali hanno meno di 10 anni.
• Nessun paese ne è immune: si stimano in 2,5 milioni i bambini che lavorano nei paesi sviluppati e in 2,5 milioni quelli che lavorano nei paesi in transizione, come gli stati dell’ex Unione Sovietica.
• Muoiono ogni anno 12 mila bambini a causa di incidenti sul lavoro.
• La maggior parte (circa 127 milioni) dei bambini di età inferiore ai 14 anni costretti a lavorare, vive nella regione dell’Asia e del Pacifico.
• La proporzione più alta di bambini costretti a lavorare si osserva nell’Africa subsahariana: quasi un terzo (48 milioni) di bambini di età inferiore ai 14 anni.
• Nel mondo, la maggior parte dei bambini che lavorano sono impiegati nel settore informale, dove non sono tutelati da alcuna protezione legale o regolamentare:
• il 70% è attivo nell’agricoltura, caccia e pesca industriali o industria del legno;
• l’8% lavora nelle industrie manifatturiere;
• l’8% è attivo nel commercio all’ingrosso e al dettaglio, ristorazione e settore alberghiero;
• il 7% lavora nei servizi comunitari, sociali e personali, come i lavori domestici;
• 8,4 milioni di bambini sono nella trappola della schiavitù, traffico di esseri umani, asservimento dei figli per ripagare i debiti, prostituzione, pornografia o altre attività illecite;
• tra questi ultimi, sono 1,2 milioni i bambini vittime del traffico di esseri umani.
Guido Sattin



All’ombra dei faraoni

Fuori dai grandi circuiti turistici,
la vita di gente semplice e povera.
Sempre in bilico
tra rivalità religiose,
sforzo di accoglienza e qualche… dispetto.

D opo giorni roventi e afosi, ha piovuto. Una bufera di vento, seguita da enormi goccioloni, presto assorbiti dalla terra. Oggi il cielo è rosato e il mare blu. Una brezza leggera s’infila nei vicoli, dove nessuno si è mai curato di rimuovere mucchi di rifiuti.
Siamo a El Quseir, porto abbandonato sul mar Rosso, da dove solevano partire i pellegrini per La Mecca. Restano le barche in secca e qualche bell’edificio in stile arabo-turco sul lungomare. Un signore svedese si è invaghito di questo posto e vi ha fondato un centro per scambi culturali tra insegnanti.
due santini
Incontro Peter e Alex, due giovani svedesi che stanno finendo il loro stage di sei mesi, entusiasti dell’esperienza, anche se ammettono di avere trovato qualche difficoltà di ambientamento. L’unica ragazza è già ritornata a casa, non ce la faceva più.
Per arrivare quaggiù, dal Cairo, ci sono volute quasi dieci ore di pullman, comprese le fermate: la prima, dopo Suez, lungo la costa arida e vuota; la seconda, per il cambio autista, a Hurghada. Siamo arrivati che era buio, dopo le dieci, ma chi continuava il viaggio fino in Sudan sarebbe giunto alle cinque del mattino.
Sono passata da Teresa, per salutare la famiglia. Il marito era in un angolo, accovacciato sulla sedia. Una gran febbre (forse la polio), da bambino, lo ha lasciato handicappato; ora si sposta solo con una moto speciale, datagli dallo stato. Così può anche andare a lavorare all’ufficio postale; ma oggi è a casa. Una stanzetta sul vicolo, dove parcheggia la moto, e altre due sul retro, tutte dipinte in un bel colore azzurro, per la moglie e due bambine.
Per sposarsi, Edel era andato a Esna, vicino a Luxor, dove c’è una comunità cristiana. Ha trovato Teresa, una ragazza povera, ma bella e molto dolce. Le bambine sono sagge, per la loro età. Marsa e Mariam mi mostrano le immagini incoiciate della Vergine e santa Barbara. Poi Edel mi regala due santini: la Madonna e san Giorgio, che qui chiamano Mar Girgis e venerano molto. Giù nel vicolo ci sono le botteghe del sarto e del ciabattino. Sono tutti cristiani copti. Loro lavorano fino a sera tardi, mentre il resto del paese bighellona tra fumerie e caffè.
La fabbrica italiana di fosfati è chiusa e gli italiani se ne sono andati da molti anni. Restano le case per i tecnici sul lungomare e il complesso di palazzine e capannoni, con la chiesetta. Tutto del 1920, in stile italiano dell’epoca. I camion arrugginiti e il piazzale vuoto mettono malinconia, ma la chiesa è stata ceduta a due abuna copti, che vivono nella casa accanto, con le loro famiglie.
In tutto ci saranno una trentina di famiglie copte in paese, che hanno ottimi rapporti con il resto della comunità. Le tensioni del Cairo e delle città sul Nilo qui sembrano smorzate dalla brezza del mare. Un mare bellissimo, ricco di pesci e meraviglie, ma che rischia di venire sfruttato: tra qualche mese si aprirà un nuovo aeroporto e, forse, questa cittadina perderà l’atmosfera antica.
seduzione… occidentale
Il padre di Nasser, El Sudany, lavorava nella miniera di fosfati. Beduino del Sinai, anche se il nome tradisce un’origine sudanese, ora deve fare molti chilometri per raggiungere l’impianto di Safaga, l’unico ancora in funzione. Nasser, invece, fa il guardiano alla centrale, ma stasera ci ha invitato a casa sua: la moglie preparerà il pesce.
Il matrimonio è stato combinato dalle famiglie, come d’uso, ma Nasser è inquieto e vorrebbe cambiare stile di vita. Lo stato gli ha dato in affitto un appartamento in periferia e lui l’ha arredato con mobili vistosi e lucidi, comprati con i soldi di due stagioni da tassista a Hurghada.
La moglie dovrebbe essere felice, con le due belle bambine, visto il relativo benessere della famigliola. Ma Nasser non è più lo stesso, da quando ha visto la vita degli occidentali. «Le russe sono bellissime», mi dice; ma poi aggiunge: «Hanno uomini mafiosi, sono gelide, cattive». E preferisce gli italiani e, appena può, scende in paese a cercarli.
Lasciamo il mar Rosso con Nasser che, per accompagnarci, si è fatto prestare un’auto quasi nuova. A Safaga ci uniamo al convoglio scortato dalla polizia e andiamo veloci, attraverso le montagne e il deserto.
Prima di Qena, si scatena il finimondo. I grossi pullman pieni di turisti fanno a gara per arrivare primi, superandosi con manovre rischiose, a più di 100 all’ora, senza rispettare le distanze. Questa, per loro, è la gita a Luxor, un breve intervallo culturale durante la vacanza. Molti gli italiani, francesi, tedeschi e russi. Ho notato che le donne sono spesso vestite in modo indecente, con calzoni corti e maglie scollate. Mi pare offensivo e pericoloso, in un paese islamico tradizionalista. Un motivo in più per farsi odiare.
La città di Luxor (antica Tebe, capitale dell’Alto Egitto), con i suoi templi e necropoli, non ha perso il suo fascino, nonostante il turismo di massa. I turisti sono sulle navi da crociera e pochi si avventurano nelle sue strade, piene di vita. La casa di Schiapparelli, il famoso archeologo italiano autore di importanti scoperte, è ora affidata alle suore francescane del Cuore immacolato di Maria. Sono egiziane e alcune di loro giovanissime.
Suor Carmelita è qui da 14 anni, ma è originaria di Malta. Oggi è molto arrabbiata, ma non vuole assolutamente che lo scriva. «La polizia segreta lo verrebbe a sapere e noi passeremmo dei guai. Controllano tutto, chi va e chi viene. Non possiamo fare nulla, neppure dare il bianco in cortile, senza il loro permesso» dice indignata.
Le suore gestiscono una scuola, un dispensario e un piccolo orfanotrofio, dove vengono curati gli orfani dei villaggi cattolici. Ma anche quello è meglio non dirlo. «I villaggi cattolici, sparsi nelle campagne intorno a Luxor, sono molto poveri. Nostro compito è quello di aiutarli a non perdere la fede».
Quello che la scandalizza è lo stile di vita dei musulmani. «Appena hanno due soldi, fanno gli schiavisti: prendono un poveraccio – qui se ne trovano sempre di disgraziati – lo fanno lavorare come una bestia e loro si siedono a far niente!».
una «calda» atmosfera
Accanto alle suore, la chiesa e la casa dei padri. Due i frati, un anziano italiano e l’egiziano padre Cyrillus: un viso da faraone con barba e occhi vivaci dietro le lenti spesse.
Per tanti anni Cyrillus ha vissuto ad Assyut, una città più a nord, sul Nilo, dove c’è una chiesa bellissima e un vescovo che porta il suo stesso nome. Ma è impossibile andarci: la polizia non permette agli stranieri di viaggiare fuori Luxor, eccetto che con un convoglio scortato. Ci sono stati disordini e uccisioni di cristiani, ma Cyrillus minimizza. «Ho sempre avuto un ottimo rapporto con musulmani e polizia. Bisogna fare le cose alla luce del sole. Chiedo, spiego i lavori che intendo fare e loro me lo permettono. Anzi, sono contenti. Noi lavoriamo per la popolazione».
Anche coi copti le cose vanno bene; anzi, sono proprio le suorine copte del monastero di san Taddeo che preparano e ricamano le tonache al padre francescano.
Accompagno padre Cyrillus nel deserto, in un pomeriggio rovente: il termometro supera i 38°. Attraversiamo il nuovo ponte sul Nilo. Il paesaggio è stupendo: i campi rigogliosi sono bordati da palmeti e le fattorie sembrano castelli di fango.
Lasciamo la strada asfaltata che conduce a Medinet Habu, il tempio di Ramses iii, e troviamo con qualche difficoltà la pista che conduce alla bassa costruzione di fango, oata da numerose, piccole cupole.
L’interno del monastero richiama la struttura di un’antica moschea: il cortile è circondato da celle a cupola; la chiesa è un labirinto di archi bassi come tende beduine; i tappeti logori e polverosi sul pavimento di pietra. Suor Anastasia ci apre il portone e madre Eufemia ci accoglie con grandi sorrisi. Hanno abito, tonaca e copricapo neri, col velo che incoicia il volto, stretto al mento. Luce e aria provengono da fori al centro delle cupole; il caldo sfinisce e, nell’attesa, ci viene offerta l’acqua del pozzo, nelle anfore di coccio, fresche e umide. Il padre scherza e l’atmosfera è serena. Non sento la tensione che pare vi sia tra ortodossi e cattolici.
Emil, il tassinaro
La moglie è mancata da pochi mesi e lui si occupa delle bambine. Sono tre, molto carine, bene educate e si chiamano Maryam, Mariana e Madonna. Quest’ultima ha un sorriso grande più di lei, che ha solo 10 anni. Gli occhi sgranati della mamma, quasi spaventati, mi guardano da una foto grande, appesa alla parete del piccolo soggiorno della loro casa, nel centro di Luxor. La povera donna soffriva da alcuni anni, ma solo da pochi mesi avevano scoperto il tumore allo stomaco che l’ha stroncata. Emil è rimasto solo e in casa ha pure mamma e suocera anziane da accudire. Ma è un uomo in gamba, si è fatto tutto da solo. Da niente, ora ha due pullman e tre taxi. I rapporti con la polizia sono ottimi e si fa stimare da tutti.
Emil è cattolico, ma in chiesa nessuno l’ha mai visto. Ci andava sua moglie alla messa, regolarmente, e ci portava le bambine. «Una donna molto pia», mi aveva detto padre Cyrillus. Questa sera sono invitata a cena e le ragazze mi circondano e premono con le loro domande ingenue. Studiano l’inglese, ma è chiaro che non hanno mai fatto una vera conversazione. Il pollo è buonissimo e l’insalata pure; così pure le banane, mature e dolcissime.
Passiamo nella stanza di famiglia, anch’essa decorata con tante foto del padrone di casa. Qui incontro il professore che dà ripetizioni di inglese alle ragazze. Un modo per arrotondare il magro stipendio di insegnante e dare una mano a Emil, che è preoccupato per le figlie e vuole dare loro una buona educazione.
Domani partirò e mi dispiace. Mi sono sentita bene, accolta come amica anche in questo paese. Ho visto cose bellissime. La tomba di Nefertari, la grazia delle immagini della regina e delle divinità, i colori vivi, i templi grandiosi. Ne avrò certamente nostalgia.
la culla dei faraoni
Assuan si trova in Nubia, una regione desertica tra Alto Egitto e Sudan, fino al xv secolo tutta cristiana.
Nel museo della Nubia, da poco inaugurato da Mubarak sulla collina che domina la prima cateratta del Nilo, vi sono le foto dei resti di numerose chiese e monasteri, risalenti ai primi secoli. Il museo è riparatore dell’ultima delle violenze subite da questo popolo fiero e bello. Il lago Nasser, creato con la grande diga, ha costretto gli abitanti delle rive del Nilo a migrare al nord, lasciando gli antichi villaggi di case di fango.
La bellezza della prima cateratta mi era rimasta nel cuore, dalla mia prima visita in Egitto, 15 anni fa. Ora il paesaggio è stato aggredito dalla speculazione edilizia: su una delle preziose isole, dalla vegetazione rara, è stato costruito un enorme albergo a cinque stelle, pare di proprietà del figlio del presidente.
Su una feluca, tradizionale e bella imbarcazione a vela, sospinta dalla brezza del mattino e guidata da due marinai nubiani, risaliremo fino all’isola di Sehel, sotto la vecchia diga. I massi di granito portano i segni dell’acqua che si è ritirata. L’isola, un tempo, era verde e coltivata; ora è un deserto, con le belle case nubiane dipinte di giallo e blu. La gente è povera; i giovani lavorano in città e il villaggio sopravvive come un museo all’aperto.
Sulla via del ritorno, mi fermo sull’isola Elefantina, che si trova nel centro di Assuan. Qui le case nubiane sono ancora più povere e la sporcizia invade le strade polverose. Eppure, è un luogo importante nell’antica storia d’Egitto: da qui vennero i faraoni della quinta dinastia.
la sfida
Oggi sono riuscita a sentire le campane. Mi hanno dato gioia: erano le sei del mattino. Di solito sento solo il richiamo del muezzin, che mi angoscia. Ho dovuto attraversare la città per arrivare nella piccola chiesa dei comboniani, nel cuore della città e del mercato.
È la domenica delle palme e i cristiani li riconosci per via di quelle sottili foglie che da ieri portano sottobraccio. Trovo padre Vittorio assorto, in piedi davanti al portone, sorvegliato da due giovani poliziotti col mitra.
Originario di Padova, dopo un periodo in Libano e 20 anni in Sudan, è approdato qui, in Alto Egitto. Le sue parole sono soffocate dal grido del muezzin. L’altoparlante della moschea vicina è posizionato in direzione della chiesa. «Fanno sempre così: lo fanno apposta, quasi per sfida».
Padre Vittorio è molto polemico e mi invita a entrare nel suo ufficio. Parliamo della guerra dimenticata, in Sudan, dove si continua a bombardare qualsiasi cosa, mandrie e villaggi. «In Sudan sono stati uccisi tre milioni di persone, una vera pulizia etnica. Le cause? Il paese è ricco di petrolio, uranio e altri minerali». Naturalmente sono sempre i cristiani i primi a essere perseguitati. Devono sparire, deve vincere l’islam, come vuole il governo fondamentalista.
Vittorio poi mi indica, accanto alla chiesa cattolica, la scuola tenuta dalle suore. Alcune sono italiane. «I maggiorenti della città iscrivono qui i loro figli e gli allievi sono per metà musulmani. Non ci sono problemi tra i ragazzi; ma l’islam rivela presto il suo lato aggressivo. Una sposa cristiana è molto ambita nelle ricche famiglie islamiche. Ma i figli devono crescere nella fede del padre; anche la sposa finisce poi per perdere i contatti con la chiesa».
Il missionario mi fa anche notare un altro problema. I cristiani sono pochissimi e, non potendosi sposare che tra di loro, rischiano pure di avere generazioni segnate da tare ereditarie. Anche i rapporti con i copti sono difficili, per i cattolici; migliori sono quelli con i musulmani, di cui condividono una certa mentalità. •
(continua)

Claudia Caramanti




Il mago del fil di ferro

N el cuore del Burkina Faso, Ouagadougou si estende in tutte le direzioni, come una macchia d’olio su un piano senza barriere naturali. Da alcune centinaia di migliaia di abitanti degli inizi anni ’80 si stima oggi superi il milione e duecentomila, il 10% dell’intero paese. Continua l’esodo dei contadini dalle campagne in cerca di fortuna verso l’antica capitale dell’impero Mossì. Così i quartieri periferici si allargano, si gonfiano in una distesa di case basse, quasi tutte a un piano, massimo due.
La polvere è l’elemento onnipresente e, quando si solleva l’harmattan (il vento che soffia dal Sahara), avvolge ogni cosa. L’aria è resa irrespirabile da quel centinaio di migliaia di moto e motorini che sono diventati una caratteristica imprescindibile di questa città.
Solo in centro, alcuni palazzi a più piani, uffici amministrativi, banche, si elevano sul panorama urbano. Molti di questi edifici si concentrano lungo l’avenue Kwamé Nkrumah, la via dei grandi hotel e negozi con le vetrine della capitale. Ma intorno al corso a due carreggiate, girato l’angolo di una qualsiasi traversa, ci troviamo su strade sterrate, in un quartiere in cui molte case sono ancora in banko intonacato (mattoni di fango essiccato).
Siamo a Zangoetin, quartiere storico di Ouaga (come gli abitanti chiamano famigliarmente la città), che il governo ha deciso di demolire per edificarvi una zona commerciale, di strade asfaltate e palazzi con l’aria condizionata. È l’operazione Zaca, che porterà allo sfratto degli abitanti di cinque quartieri storici che, è previsto, saranno indennizzati.
Nei meandri
Entriamo in una di queste vie, a due passi dalla Nkrumah: è così stretta che due macchine non ci passano. Un’entrata sulla strada apre in una corte intea, piccola e piena di vita. Diverse porte di altrettante stanze danno sullo spazio aperto, ognuna è la dimora di una o più persone.
Ci accoglie un uomo di media corporatura, con le orecchie a sventola e un largo sorriso, a cui mancano un paio di denti. È Tasseré Derrà e questa è la casa di suo padre, dove la famiglia ha sempre vissuto per decenni. Il vecchio ha oggi più di cento anni.
Tasseré parla un buon francese, oltre che la sua lingua madre, il moore. Ha un problema a un piede, che lo costringe a camminare zoppicando. «Da piccolo – ricorda – ebbi una malattia e al dispensario mi fecero un’iniezione che mi paralizzò la gamba. Mia madre, allora, mi portò al suo villaggio di origine e qui i medici tradizionali, quelli che usano le erbe, riuscirono dopo vari giorni a farmi camminare».
Tasseré è un artista. Non solo. Con l’arte si guadagna la vita, sostiene la famiglia e dà lavoro ad alcuni ragazzi. È conosciuto nel paese e all’estero e tutto quello che fa, in pratica, lo costruisce con un solo semplice elemento: il fil di ferro.
«Sono nato a Ouaga nel 1962 e, all’età di 5 anni, mio padre mi mandò in Mali a frequentare la scuola coranica. Sono tornato nel ’74, a causa della guerra tra il Mali e l’Alto Volta, come si chiamava fino al 1984 il Burkina Faso. Qualche anno più tardi ho frequentato la scuola franco-araba di Ouaga, dove ho imparato il francese. Mi sono reso conto che stavo crescendo; mio padre invecchiava ed eravamo molto poveri. Decisi di lavorare e incominciai ad aiutare mio fratello commerciante a vendere al mercato».
La bicicletta
È qui, a Rood Woko, il grande mercato centrale di Ouagadougou, fatto costruire da Thomas Sankarà, il presidente rivoluzionario, negli anni ’80 e distrutto da un incendio lo scorso maggio, che il giovane vede macchinine fabbricate con il fil di ferro. Quasi ovunque, in Africa, i giochi per bambini sono semplici oggetti che sovente loro stessi ricavano con materiali di recupero: filo, scatolette di latta, strisce di camere d’aria. Un cerchione di bicicletta, un aquilone, le macchinine sono classici esempi.
Tasseré, per scherzo, inizia a copiare quanto vede, poi crea la moto e inventa una bicicletta giocattolo, con le parti meccaniche in movimento. «Alcuni amici francesi mi dissero che non avevano mai visto nulla di simile in Africa dell’ovest. Mi incoraggiarono e iniziai a produrre biciclette in fil di ferro».
Un giorno Pierre Ouedraogo, giornalista della televisione nazionale burkinabè, si mette sulle tracce dell’artigiano che fa biciclette. Un suo amico straniero gli aveva chiesto di trovarlo. «Philippe Chatela, dell’ong Enfants du Monde aveva visto una delle mie bici: dal 1991 al ’97 ne ordinò 650 pezzi».
Sotto tale stimolo, Tasseré inventa altri oggetti: portacandela, animali, portabiglietti da visita, oamenti, lampade, tutto rigorosamente in fil di ferro e si organizza per venderli.
Nel frattempo aveva insegnato ad alcuni bambini a fare le bici, e l’oggetto aveva invaso i mercati e chioschi di artigianato della capitale. «Ma non è la stessa qualità: oggi, come dieci anni fa, io faccio al massimo quattro bici in un giorno di lavoro. Gli altri ne fanno otto o dieci: e la differenza si vede».
Un ragazzo, Adama Zongo, resta a lavorare con lui. «Aveva 12 anni e, durante le vacanze scolastiche, suo padre lo affidava a me. Io gli ho insegnato tutto quello che so». Oggi Adama ha aperto il suo atelier e i due amici continuano a collaborare.
Incontro fatale
Nel ’98, l’artigiano incontra una coppia di padovani: Andrea e Federica Pozza, all’epoca residenti a Ouagadougou. «Andrea cercava un elefante in fil di ferro un po’ speciale. Piacque loro la mia realizzazione e ne ordinarono 100 per il loro matrimonio».
Inizia un’amicizia che avrà un certo peso nella vita di Tasseré. «Videro quello che producevo e portarono vari amici a comprare i miei oggetti. Ma, ancor più importante, mi insegnarono come meglio organizzare il lavoro. Per esempio, ad avere prodotti finiti in magazzino da proporre ai clienti, invece di lavorare solo su ordinazione, investire subito i ricavi in materiale. Federica mi ha insegnato l’uso del computer e della posta elettronica, strumento importante per avere ordini dall’estero. Nasce Artifer-creation».
Ma sono soprattutto i contatti umani e quella sua vivacità nel saperli sempre cogliere, che fanno la fortuna del mago del fil di ferro. Federica gli presenta Christophe.
Personaggio emblematico, direttore di grandi hotel a Parigi, questo francese ha lasciato tutto per creare, con un gruppo di artisti africani, la Fondazione Olorum a Ouagadougou. La fondazione crea arte modea africana che esporta in Europa.
Christophe aiuta Tasseré a esporre al Salone internazionale dell’artigianato di Ouagadougou (Siao), spazio dove ogni due anni artigiani e artisti di tutta l’Africa si ritrovano per mostrare i loro prodotti, vendere, scambiare contatti. «Era il Siao dell’anno 2000 e portai le mie opere al “padiglione della creatività”. Mi ero organizzato e lasciai una presentazione con numero di telefono e indirizzo di posta elettronica». Il talento fa il resto. Le opere piacciono e molti sono quelli che iniziano a contattare l’artigiano. Ma non basta. Christophe porta gli oggetti di fil di ferro fino alla Galerie Lafayette a Parigi.
Commercio… equo
Oggi Tasseré vende prevalentemente a stranieri, o a burkinabè che poi rivendono all’estero. Espone in modo permanente al Villaggio Artigianale di Ouagadougou, in alcuni mercati e in una boutique a Zogona, quartiere bene della capitale.
Grazie ancora a Federica e Andrea è entrato nel circuito del commercio equo in Italia: distribuisce attraverso la bottega La Tortuga di Padova; i suoi candelabri e animali in fil di ferro si possono trovare anche all’ong Cisv di Torino.
C’è poi una squadra ciclistica di Padova, la «Castellana», che continua ad acquistargli partite di biciclettine con i pedali che fanno girare la ruota posteriore.
Con lui lavorano in modo permanente quattro ragazzi di 16 e 17 anni, di cui uno è suo figlio. Gli altri sono della famiglia allargata e lui li alloggia e li nutre. Si è trasferito in una zona periferica di Ouaga, dove ha costruito una casa per sé e la famiglia con una piccola sala esposizione-vendita e un atelier per la fabbricazione.
I materiali sono sempre gli stessi: fil di ferro galvanizzato da 2 millimetri è il più usato.
Altre sezioni di fil di ferro (o di rame, come quello recuperato dai motori elettrici), bombolette di insetticidi, da cui ricava parti per i portacandele, perline di terracotta che produce suo fratello, vernice di vario colore.
«Cerco di migliorare sempre, aggiungendo piccoli particolari, come la terracotta». Studia nuove forme e sta sperimentando lavori con ferri più grossi, per i quali deve utilizzare la saldatura.
Continua a seguire la sua vocazione di insegnante: tiene corsi di «atelier di fil di ferro» ai bambini delle elementari di una nota scuola francese da ormai cinque anni e corsi privati a chi vuole cimentarsi con il filo.
Nella sua attività oggi pensa e realizza le nuove creazioni, tiene i contatti con i clienti (varie ambasciate, privati e vendita all’estero), partecipa a mercati natalizi e promuove il suo prodotto. Non è mai fermo: o muove le mani o è in sella del suo motorino per le vie della capitale. •

Marco Bello




Se la bistecca è politicamente scorretta

A proposito della campagna della Cafod «Flyng Cows», oggetto dell’ultima parte dell’editoriale di Missioni Consolata, maggio 2003 e della relativa vignetta, desidero fare alcune osservazioni.

1. Condivido il giudizio negativo sul sussidio giornaliero medio di 2,20 euro agli allevatori europei per ogni capo di bestiame posseduto (non ha tutti i torti Noam Chomsky quando dice che «i paesi ricchi fanno i socialisti a casa loro e i capitalisti nei paesi poveri»). Ma aggiungo: se molti paesi in via di sviluppo sono nei guai (tanto che il numero degli affamati e assetati, anziché diminuire, aumenta) è perché anche i governi di queste nazioni hanno creato un sistema di concorrenza sleale, che favorisce spudoratamente certi allevatori e certi tipi di allevamento, penalizzandone altri.
Il caso più inquietante è forse quello del Brasile. Qui una delle principali cause del degrado economico, sociale e ambientale è stato proprio il sistema delle sovvenzioni che i governi locali hanno erogato a volontà, affinché le mucche avessero a disposizione tutto lo spazio possibile, senza star tanto a pensare alla qualità morale delle persone che beneficiavano di tali agevolazioni e al destino di coloro che avrebbero dovuto sloggiare per far posto ai bovini.
In altre parole: un qualunque latifondista, dimostrando di avere delle mucche, acquisiva il diritto di proprietà delle terre di cui diceva di aver bisogno, anche quelle dell’Amazzonia profonda, anche quelle abitate da «caboclos e indios» e sostanzialmente inadatte al pascolo.
I latifondisti approfittarono della situazione da par loro: misero a ferro e fuoco la foresta; fecero massacrare indios, caboclos, seringueiros dai loro sicari; provocarono alterazioni dell’ecosistema amazzonico che ebbero ripercussioni a livello planetario. Inoltre minacciarono, uccisero e straziarono alcuni missionari, che avevano «osato» suggerire un uso della terra più responsabile e più rispettoso dell’uomo e dell’ambiente. L’elenco è lungo: don Josimo de Moraes Tavares, suor Adelaide Molinari, padre Ezechiele Ramin, ecc. E non dimentichiamo il sacerdote modenese Francesco Cavazzuti, che la scarica di proiettili la ricevette in pieno volto e perse completamente la vista.
Verso la fine degli anni ’80, altri missionari, considerata anche la disarmante facilità con cui killers e mandanti riuscivano a farla franca con la giustizia, pensarono che l’unica strada praticabile fosse quella di dimostrare alle autorità che: anche gli indios avevano delle mandrie e, quindi, anch’essi avevano diritto ad un po’ di terra!
Partì così il famoso progetto «una mucca per l’indio». Non era il massimo, ma qualche vantaggio ad alcune comunità indigene lo portò, anche perché poté contare sull’entusiastica adesione del vescovo di Ravenna (poi cardinale) Ersilio Tonini, sull’appoggio di Famiglia Cristiana e sul beneplacito di Giovanni Paolo II, che sborsò il denaro necessario all’acquisto dei primi capi di bestiame.
Ciò però non ha significato la fine delle prepotenze, degli attentati e delle stragi. I latifondisti sono potenti, riescono a farsi ubbidire da tanti e l’Amazzonia hanno continuato a saccheggiarla, anche perché il governo e l’esercito li hanno lasciati fare. Li lascerà fare anche il presidente Lula? Sarebbe una beffa veramente atroce per il Brasile (e non solo).
Ndr Il progetto «una mucca per l’indio» fu ideato e lanciato a Roraima (Brasile) dai missionari della Consolata, per iniziativa di padre Giorgio Dal Ben. Il progetto ebbe una vasta eco in Europa, specialmente durante una Campagna promossa dai missionari della Consolata (1988-89), e si è rivelato vincente per gli indios macuxi, wapixana, ingarikó e taurepang di Roraima.

2. Nella stragrande maggioranza dei casi i latifondisti sono gente straniera, che opera per conto di grandi imprese multinazionali, o comunque persone che hanno legami scarsi o nulli con la vita, la cultura e le tradizioni delle comunità presenti nelle terre dove mettono in piedi i loro super-allevamenti.
È il caso di Edward Luttwak, famoso politologo-scrittore-imprenditore. In Bolivia è padrone di una tenuta di 118 kmq e si vanta di produrre una carne di qualità incomparabilmente superiore a quella prodotta dagli allevatori italiani. È il caso di tutti quei fazendeiros che, come Luttwak e più di Luttwak, hanno approfittato della «mucca pazza» per costruire i miti della «carne verde», della «bistecca politicamente corretta», del «bovino allevato nell’ambiente più sano e adatto alle sue esigenze»…
In realtà, rispetto agli anni in cui (anche in Italia) un po’ tutte le organizzazioni ecologiste e pacifiste invitavano a non consumare la carne dei fast food, perché ottenuta da bestie allevate con metodi criminali, incompatibili con le più elementari istanze etiche, è cambiato ben poco. Infatti in tutta l’America Latina, dal Messico al Brasile, dall’Honduras all’Argentina, allevare grandi mandrie su pascoli estesi equivale a distruggere le foreste, alterare il ciclo dell’acqua, affamare le persone, impoverire economie già fragilissime, sfruttare il lavoro minorile, ridurre in schiavitù individui, famiglie, villaggi che fino a non molto tempo fa godevano di condizioni di relativo benessere.
È esagerato dire che chi mangia questa carne, seguendo la moda del fast food, o magari perché ha simpatia per Luttwak e per le belle cose che dice in televisione sul grande impegno degli Stati Uniti in favore della libertà, della democrazia, della lotta contro il comunismo e il terrorismo… diventa corresponsabile di questi scempi?

3. Quando parliamo di allevamenti e di sovvenzioni agli allevamenti, non possiamo intendere solo quelli di bovini e degli altri animali terricoli. Oggi un contributo assai rilevante all’involuzione economica, al degrado ambientale, allo sfilacciamento di tutta quanta la rete delle relazioni familiari e sociali, viene anche dall’allevamento di animali acquatici, piccoli e apparentemente innocui.
Oltre alle giungle tropicali propriamente dette, vi sono anche i mangrovieti costieri: cioè formazioni forestali composte da specie arboree dotate di particolari radici che crescono verso l’alto (tale modalità di crescita si chiama «geotropismo negativo») e in grado, grazie appunto a queste radici, di tollerare l’acqua dell’alta marea e il sale. Ebbene, se i paesi del terzo mondo perdono tutto questo, è per l’incredibile espansione conosciuta dall’industria dei gamberi, che vengono allevati in enormi vasconi ottenuti a spese degli alberi di mangrovie, delle lagune naturali e delle comunità locali, per le quali la pesca costituisce l’unica vera fonte di sostentamento.
Già una quindicina d’anni fa, monsignor Enrico Bartolucci, vescovo di Esmeraldas (Ecuador occidentale), esprimeva profonda inquietudine di fronte ai soprusi perpetrati dai proprietari delle camaroneras (così in Ecuador vengono chiamati gli impianti per l’allevamento di crostacei). Qualche tempo dopo, nell’estate del 1995, grazie a un altro missionario, padre Enzo Amato, si venne a sapere che, sempre nel territorio di Esmeraldas, l’autorizzazione a disboscare altri 2.406 ettari era venuta addirittura dall’Istituto ecuadoriano di aree naturali e silvestri.
Della cosa si occupò anche la rubrica televisiva «Geo», che, tra l’altro, denunciò le inumane condizioni di lavoro imposte dai proprietari e l’aumentata vulnerabilità della costa disboscata dinanzi alle tempeste e ai furiosi venti oceanici.
Il problema però non riguarda solo l’Ecuador. Gli sfavillanti crostacei bianco-arancio, sotto varie sigle («insalata di mare», «polpa di granchio», ecc.), oano i banchi dei supermercati: anche quelli della Coop, che da sempre dice di essere dalla parte dell’uomo, dell’ambiente, della solidarietà, dei diritti, contro gli organismi geneticamente modificati, contro tutte le svolte autoritarie… Gli sfavillanti crostacei sono il risultato di assassinii, stragi, rapine ed altre nefandezze ai danni di piccole comunità di pescatori in Sudan, Bangladesh, India, Indonesia, Cina, Vietnam, Filippine, Thailandia, Messico, Brasile e nel già citato Ecuador.
Astenersi dall’acquisto di queste «squisitezze» dovrebbe essere avvertito come un dovere morale, così come lo sono le campagne di informazione sugli abusi della Nestlé, della Del Monte e degli altri colossi del settore agroalimentare. Inoltre si sappia che, come ha denunciato l’Organizzazione non governativa inglese Environmental Justice Foundation, nelle camaroneras si fa un uso sconsiderato di antibiotici proibiti, che non sono proprio l’ideale per chi è alla ricerca di cibo sano.

Giovanni De Tigris – Urbino (PU)

Giovanni de Tigris




Fratelli “costruttori”

Missionari a tutti gli effetti che, nel silenzio,
offrono un esempio di laboriosità,
spirito di servizio e dedizione alla gente

Nella realizzazione dei vari progetti dei missionari della Consolata, i «fratelli», nonostante la loro modestia, diventano artigiani essenziali, veri «costruttori» del regno di Dio di cui bisogna riconoscere i meriti. Ecco ciò che abbiamo potuto constatare nel nostro viaggio in Tanzania.

Fr. Paolino Rota
All’inizio della nostra visita in Tanzania, ci siamo fermati qualche ora alla procura di Dar es Salaam, prima di intraprendere la strada per Morogoro, ultima destinazione del nostro itinerario. Poco prima della partenza, per caso, fratel Paolino ci viene incontro e ne approfitto per chiedergli qualche informazione.
«Da 41 anni mi sposto qui e là nel paese – mi risponde – per dirigere gli operai e i lavori di costruzione nelle missioni, quelle dei padri come quelle delle suore».
Un numero così alto di anni mi impressiona, ma il racconto delle opere realizzate da questo fratello ancora di più. Gioo dopo giorno, anno dopo anno, ha reso immensi servizi alla missione costruendo, con l’aiuto di muratori tanzaniani, una mateità, due dispensari, la residenza dei padri nella parrocchia di Kibiti, la clinica delle suore a Mbagala, l’ospedale di Ikonda (10 anni di intenso lavoro), il centro educativo «Stella del mattino» delle suore a Ilamba, il convento di Mafinga… La lista delle opere non finisce qui: ne ha costruite talmente tante, che certamente qualcuna è stata dimenticata.
È felice, ancora pieno di energia e sempre pronto a iniziare nuovi progetti.

Fr. Liduino Lanzi
Incontro a Dar es Salaam anche fratel Liduino. Mi racconta che, dopo aver lavorato in Italia dal 1948 al 1956, è giunto in Tanzania dove è stato in dieci posti, tra il 1956 e il 1983 come falegname. A Ikonda, aggiunge con fierezza, ha pure partecipato al progetto della costruzione dell’ospedale.
Da 20 anni lavora alla procura di Dar es Salaam, rendendo ancora immensi servizi con una devozione e generosità, senza alcuna ostentazione. Oltre agli incarichi relativi al funzionamento della casa, è prezioso per missionari e visitatori che arrivano in Tanzania oppure che la lasciano: problemi di passaporti, biglietti aerei, permessi di soggiorno, viaggi per l’aeroporto… Liduino è diventato l’indispensabile punto di riferimento per tutti.
Non solo fa onore alla comunità, ma anche al suo paese: l’Italia. Per questo gli è stata attribuita una medaglia al merito del lavoro, piccolo segno di riconoscimento per tutti i servizi resi in questi 48 anni. E non pensa ancora di andare in pensione.

Fr. Nahashon Njuguna
È nel 1986 che fratel Nahashon Njuguna, di origine kenyana, scopre la sua vocazione. Influenzato dai missionari della Consolata della sua parrocchia, in particolare dal lavoro dei fratelli, esprime il desiderio profondo di diventare uno di loro. Termina le scuole superiori e si specializza in carpenteria.
Sempre in Kenya, studia filosofia prima di entrare in noviziato. Arriva, poi, in Italia dove ottiene il diploma di geometra e, con tutte queste conoscenze, pronuncia i voti perpetui nell’ottobre 1994.
Sempre in quell’anno viene inviato in Tanzania, dove comincia a realizzare i vari progetti che gli vengono assegnati. Ha già al suo attivo la costruzione di un salone parrocchiale, due chiese, alcuni locali amministrativi a Dar es Salaam, una scuola, un progetto di installazione d’acqua nella diocesi di Singida, un dispensario a Iringa. Lo abbiamo trovato intento alla costruzione di un dispensario-mateità a Ng’ingula.
Davanti agli immensi bisogni dei più poveri, il fratello sente il bisogno di costruire, e con spirito missionario, lavora con gioia nel suo servizio al popolo tanzaniano. Mi confessa di non aver mai desiderato diventare prete, ma di essere sempre stato felice come fratello. Ascoltandolo mentre parla, quando accoglie chi ha bisogno di lui o mentre lavora, è evidente che non ricerca nessuna gloria, ma compie il suo lavoro per amore di Dio e dei poveri della missione. «Mi piace essere utile alla gente» – è stata la sua conclusione al nostro incontro.
Fr. G. Franco Bonaudo
Arrivando a Ikonda, incontro fratel Gianfranco, anch’egli nella lista dei «costruttori» della missione, in Tanzania. Dopo quattro anni di volontariato in Italia, ha scelto di entrare tra i fratelli della Consolata. Inviato in Tanzania, ha già accumulato 10 anni di esperienza, lavorando a diversi progetti di costruzioni: Dar es Salaam, Kigamboni, Ubungo, Iringa e, ora, Ikonda.
I progetti di approvvigionamento d’acqua e di elettricità sono diventati la sua specialità e ne parla con entusiasmo, pensando soprattutto alla loro utilità nel servizio dei poveri della regione.

Fr. Boniface Mutisya
Tra i fratelli non ci sono soltanto falegnami o costruttori. A Mgongo ho incontrato fratel Boniface Mutisya Kyalo, di origine kenyana, che lavora attualmente come direttore del Centro di formazione professionale: una scuola dove si insegnano i mestieri di falegname, meccanico e calzolaio (non solo per riparare scarpe, ma anche fabbricarle).
Tocca a lui selezionare gli studenti, che devono aver concluso il settimo anno delle scuole elementari; saranno accolti se dimostrano desiderio e interesse per questi mestieri e sono disposti ad accettare il regolamento della scuola. Inoltre, fratel Boniface controlla che la scuola tecnica funzioni bene, occupandosi della disciplina e vegliando sull’impegno degli studenti. Dopo tre anni, gli studenti sono invitati a cercarsi un lavoro e il suo sogno sarebbe di fondare due cornoperative, per impiegare coloro che hanno terminato gli studi al Centro.

Concludendo, vorrei sottolineare il lavoro meraviglioso che i fratelli, troppo spesso dimenticati, compiono con generosità, devozione e impegno nei paesi di missione.
A tutti loro, che mettono i talenti al servizio dei più poveri, noi rendiamo omaggio, esprimendo la nostra gratitudine e ammirazione!

Ghisline Crete




Il buddhismo impegnato

Continua il viaggio nel buddismo (Cfr M.C. dicembre
2003), attraverso l’incontro con due grandi«movimenti» impegnati
nella pace,nella nonviolenza
e nel sociale.
Seguirà nei prossimi mesi l’inchiesta su islam, cristianesimo, ebraismo.

SOKA GAKKAI
SCUOLA DI PACE

«Q uando gli esseri viventi assistono alla fine di un kalpa1 e tutto arde in un grande fuoco, questa, la mia terra, rimane salva e illesa, costantemente popolata di dèi e di uomini.
Le sale e i palazzi nei suoi giardini e nei suoi boschi sono adoati di gemme di varia natura.
Alberi preziosi sono carichi di fiori e di frutti e là gli esseri viventi sono felici e a proprio agio.
Gli dèi suonano tamburi celesti creando un’incessante sinfonia di suoni.
Boccioli di mandarava piovono dal cielo posandosi sul Budda e sulla moltitudine.
La mia pura terra non viene distrutta, eppure gli uomini la vedono consumarsi nel fuoco: ansia, paura e altre sofferenze predominano ovunque» 2.

I l mondo sofferente è la «pura terra» del buddismo mahayana: la felicità non è in un luogo lontano e futuro, ma qui e ora, mentre si soffre, si lotta e si giornisce. Cioè, semplicemente, si vive. E tutti ne sono degni: uomini e donne, grandi e piccini, deboli e potenti, e di tutte le nazionalità. Il mondo intero, dunque. Tutti hanno la «buddità» e possono farla emergere dal profondo della propria esistenza, dovunque si trovino e in qualunque momento lo decidano, senza attendere momenti migliori, altre vite o altri mondi. È una condizione innata, permanente, ma… nascosta nelle profondità dell’essere. E va tirata fuori.
Questo è il messaggio «rivoluzionario» del monaco giapponese vissuto nel 1200: Nichiren Daishonin, un importante riformatore della corrente buddista mahayana.
Sul Sutra del Loto, uno dei testi sacri tramandati dal Buddha Shakyamuni (vedi M.C. dicembre 2003), il Daishonin incentrò la propria dottrina e insegnamento, sia a livello pratico sia teorico, basato sull’incoraggiamento, diretto a uomini e donne di ogni ceto sociale, a far riemergere la «buddità», l’illuminazione, dalla propria vita e a intraprendere così una rivoluzione umana, che porta anche a un profondo cambiamento nella società.
«Nel secolo xi il Giappone fu percorso da una serie di guerre tra monasteri che, diventati centri di potere economico, erano protetti da monaci guerrieri (sohei).
Dall’anno Mille il buddismo cominciò a conoscere un periodo di decadenza, mentre il paese era scosso da disastri di vario tipo; per questo motivo si svilupparono correnti di riformatori: lo Zen (con le due scuole di Soto e Rinzai), l’Amidismo e la scuola del monaco Nichiren Daishonin.
Quest’ultimo merita una speciale rivalutazione, perché la sua opera di riformatore (basata sul Sutra del Loto), molto decisa nelle confutazioni dottrinali e assolutamente nonviolenta nella pratica, per lungo tempo è stata giudicata, anche su importanti testi di storia del buddismo, intollerante e violenta. Lo spirito che animava il Daishonin era quello di restaurare il corretto insegnamento buddista, che si era perso anche per il connubio dei monasteri con il potere economico-politico»3.
A causa delle proprie idee, subì persecuzioni, esili, condanne. Ciononostante continuò la predicazione insegnando la strada verso l’illuminazione.
Nato in Giappone nel 1222, Nichiren aveva iniziato a studiare giovanissimo, com’era tradizione, in un tempio, divenendo monaco. Nel 1253 aveva proclamato che l’unico modo per raggiungere l’illuminazione e portare la pace nel paese era recitare il titolo del Sutra del Loto (in sanscrito, Saddharma-pundarica sutra, in giapponese Myo ho renge kyo) facendolo precedere dal titolo devozionale di Nam. Questo mantra si può tradurre con «Mi dedico alla mistica legge del Loto» (dove il Loto simboleggia la legge di «causa-effetto» presente nell’universo).
Come pratica, era ed è prevista la recitazione di questo mantra, e di due capitoli del Sutra: Hoben e Juryo. In Hoben «Shakyamuni afferma che la buddità è accessibile a tutti gli esseri e che ci si arriva solo con la fede (non con la conoscenza); in Juryo viene rivelato il Budda originale, cioè l’essenza e la saggezza cui tutti i budda partecipano.
Qual è la differenza tra un budda e una persona normale? Nessuna, secondo il Daishonin: «Quando una persona è illusa – scrive Nichiren – è chiamata comune mortale, ma una volta illuminata è chiamata Budda. Anche uno specchio appannato brillerà come un giorniello se viene lucidato. Una mente annebbiata dalle illusioni, derivate dall’oscurità innata della vita, è come uno specchio appannato, che però, una volta lucidato, diverrà chiaro e rifletterà l’illuminazione alla verità immutabile. Risveglia in te una profonda fede e lucida il tuo specchio notte e giorno. Come puoi lucidarlo? Solo recitando: Nam myo ho renge kyo».
«Oggetto di culto» davanti a cui recitare sutra e mantra è il gohonzon, «oggetto perfettamente dotato», il mandala che egli incise nel 1279 «per osservare la propria mente».

L a Soka Gakkai (Società per la creazione di valore) è uno dei movimenti del buddismo mahayana giapponese che si rifà alla scuola Nichiren. Fu fondata nel 1930 dal pedagogo Tsunesaburo Makiguchi (1871-1944), insegnante, direttore scolastico e saggista. Egli fu perseguitato per i suoi modelli pedagogici, che si opponevano all’autoritarismo della scuola giapponese e per la sua avversione alla guerra. Morì in carcere nel 1944.
Oggi i membri della scuola da lui fondata sono presenti in tutto il pianeta e ammontano a oltre 14 milioni (30 mila in Italia). Essi provengono dalle più diverse esperienze esistenziali, culturali e sociali.
L’attuale presidente della Soka Gakkai internazionale, lo scrittore e pacifista giapponese Daisaku Ikeda, è promotore di messaggi di nonviolenza, tolleranza e difesa dei diritti umani e sociali in tutto il mondo.
Obiettivo di questo movimento è l’incoraggiamento a compiere la propria auto-riforma interiore, vincere limiti e paure e raggiungere i propri obiettivi nel pieno rispetto della dignità della vita e dell’ambiente.
Caro alla Soka Gakkai è il principio di kosen rufu: atteggiamento di compassione, tolleranza e lotta per i diritti dell’uomo e dell’ecosistema e diffusione della pace a livello planetario. Una pace che, prima di tutto, parte dal superamento dei conflitti interiori, delle lacerazioni intee e si estende all’ambiente circostante.

Thich Nhat Hanh
sfida alla violenza
dei singoli e nazioni

«Q uando siamo arrabbiati, lo sappiamo, dovremmo evitare di reagire, in particolare di fare o dire qualunque cosa. Non è saggio dire o fare qualcosa quando sei in collera; è più urgente tornare a te stesso per prenderti cura della tua rabbia.
La rabbia è un campo di energia, fa parte di noi, è un bambino che soffre di cui dobbiamo prenderci cura. Il modo migliore di farlo è generare un altro campo di energia che possa abbracciare la rabbia e prendersene cura. Questo secondo campo è l’energia della presenza mentale. È l’energia del Budda; ne possiamo disporre perché siamo capaci di generarla con il respiro e la camminata consapevoli. “Il Budda dentro di noi” non è un mero concetto, non è una teoria o una nozione, è una realtà: noi tutti siamo capaci di generare l’energia della presenza mentale.
Presenza mentale significa essere presenti, essere consapevoli di ciò che sta accadendo» 4.

M onaco buddista-zen, vietnamita,Thich Nhat Hanh è famoso in tutto il mondo per il coraggioso impegno contro le guerre, le violenze e ogni forma di intolleranza religiosa, politica e culturale. Ha circa 80 anni, ma ne dimostra molti di meno.
Pacifista instancabile, negli anni della guerra in Vietnam si è adoperato senza sosta per la riconciliazione tra il nord e il sud del paese; ha soccorso i boat people e ha presieduto la delegazione buddista ai colloqui di pace di Parigi. E ancora oggi si schiera a favore dell’umanità sofferente, senza distinzione di fedi, di nazionalità o di ceto. Coraggiose sono le sue posizioni contro lo sfruttamento delle risorse terrestri, degli esseri umani e contro ogni forma di conflitto.
Negli anni ’60, a causa dell’impegno contro la violenza che stava colpendo la sua gente, è stato bandito sia dal governo non comunista sia da quello comunista; dal 1966 vive in esilio in Francia, dove, agli inizi degli anni ’80, ha fondato una piccola comunità. Qui insegna, scrive, lavora la terra e opera in favore dei rifugiati di tutto il mondo.
È molto attivo nel condurre training di «pienezza mentale» in Europa e Nordamerica, in aiuto di veterani, bambini, psicoterapeuti, artisti e migliaia di persone alla ricerca di pace interiore e planetaria.
Thich Nhat Hanh è monaco dall’età di sedici anni. È conosciuto in molti paesi sia come scrittore (in Italia sono decine i libri pubblicati da varie case editrici), relatore e, soprattutto, come leader religioso di un movimento noto come buddismo impegnato, che unisce le tradizionali pratiche di meditazione con la disobbedienza civile attiva nonviolenta. Da questo movimento, a Saigon, è sorto il più importante centro di studi buddisti: An Quang Pagoda.
Tra le sue tante iniziative ricordiamo la creazione di un’organizzazione di raccolta fondi per la ricostruzione dei villaggi vietnamiti distrutti; l’istituzione di una «Scuola giovanile per il servizio sociale» e di un corpo di pace per buddisti che lavorano in questo ambito; la pubblicazione di una rivista dedicata a tematiche pacifiste. È inoltre molto attivo nell’incoraggiare i leaders mondiali a usare lo strumento della nonviolenza nella risoluzione dei conflitti.
Lasciando il Vietnam, Thich Nhat Hanh si era posto l’obiettivo di diffondere il buddismo in tutto il mondo: nel 1966 si era recato negli Stati Uniti e, durante discorsi in campus universitari, incontri con politici e amministratori, aveva spiegato quale strada percorrere per porre fine alla guerra con il Vietnam. L’anno seguente, il premio nobel per la pace, Martin Luther King, lo aveva candidato per la stessa onorificenza.
Il vecchio sogno di Thich Nhat Hanh, realizzare una comunità dove la gente impegnata in opere di trasformazione sociale possa trovare momenti di riposo e nutrimento spirituale, si è concretizzato nel Plum Village, costruito nel cuore dei vigneti di Bordeaux, sud-ovest della Francia, che ospita una trentina di monaci, suore e laici. Migliaia sono anche i residenti transitori, uomini e donne, provenienti da tutto il mondo (e delle più diverse nazionalità, religioni e culture) a cui il monaco zen spiega come vivere in armonia e piena consapevolezza il momento presente e come apprezzare la vita.
La sua filosofia non è limitata a strutture religiose preesistenti, ma si rivolge al desiderio di pienezza e di calma interiori dell’individuo.

«V orrei soffermarmi sulle “cinque facoltà”, così come vengono insegnate e praticate nella tradizione buddista.
La prima è la fede. È una facoltà che abbiamo dentro di noi; e sappiamo che la fede è molto importante. La fede è un’energia che ci rende pienamente vivi. Prova a guardare negli occhi una persona senza fede: non ha vita. Se invece quella persona è animata dall’energia della fede, i suoi occhi scintillano; gliela leggi sul viso o nel sorriso. Quindi non possiamo permetterci di non avere fede. È una forma di energia, di potere.
Talvolta le “cinque facoltà” vengono presentate come cinque poteri. La fede è un potere. Con il potere della fede diventi molto attivo, non ti fermi davanti ad alcuna difficoltà o stanchezza, puoi far fronte a qualsiasi avversità.
L’energia della fede porta alla seconda facoltà: la diligenza. Sei attivo e hai in te energia e gioia. Ti piace… uscire e andare tra la gente per aiutarla a trasformare la propria sofferenza e cominciare ad assaporare la gioia del praticare. Ti piace innaffiare i semi positivi della consapevolezza e lasciare inaridire quelli negativi.
Spinto dalla fede, diventi una persona attiva e, praticando con diligenza, sviluppi dentro di te un altro tipo di energia chiamata presenza mentale, che è la terza facoltà…
La presenza mentale ti aiuta a guardare alle meraviglie della vita come fonte di nutrimento e guarigione. Ti aiuta anche ad abbracciare le tue afflizioni e a trasformarle in gioia e libertà.
Secondo gli insegnamenti del Budda, la vita può essere vissuta solo nel momento presente. Se sei distratto, se la tua mente non è lì con il corpo, perdi il tuo appuntamento con la vita…
Se c’è presenza mentale, allora c’è anche un altro tipo di energia, quella della concentrazione: la quarta facoltà… Quando vivi con concentrazione entri in contatto profondo con il mondo che ti circonda e inizi a comprenderne la profondità. Questa si chiama visione profonda…
Questo genere di comprensione è chiamata visione profonda, ed è l’ultima delle “cinque facoltà”. La visione profonda è frutto di un’esperienza diretta… Se vivi con una persona e non sai molto di lei, significa che non vivi con la realtà di quella persona, ma con il concetto che tu hai di lei…
Sei passato attraverso la sofferenza, la felicità, il confronto diretto con ciò che esiste, ed è su questo che si basa la tua fede. Nessuno te la può portare via. Può solo continuare a crescere. Se alimenti questo tipo di fede dentro di te, non diventerai mai un fanatico, perché la tua fede è una fede vera e non l’aggrapparsi a un concetto»5.

I suoi scritti. Sono più di settantacinque, tra saggi, raccolte di poesie e preghiere. Tra quelli pubblicati in Italia, ricordiamo il bellissimo volume Spegni il fuoco della rabbia, edito negli oscar Mondadori; Il segreto della pace. Trasformare la paura, conoscere la libertà e La luce del Dharma. Dialogo tra cristianesimo e buddhismo, sempre per la Mondadori; Insegnamenti sull’amore, per la Neri Pozza; Il Buddha vivente, il Cristo vivente, Editrice Tea; Perché un futuro sia possibile. Il Sutra per i discepoli laici del Buddha, Astrolabio; Essere pace, Ubaldini. •

Note

(1) Un lunghissimo periodo di tempo.
(2) Capitolo «durata della vita del Tathagata, ne Il Sutra del Loto, Milano 1998, e in «Felicità in questo mondo», ne Gli scritti di Nichiren Daishonin, cap. 4.
(3) Da Buddismo, a cura di R. Minganti, Firenze 1996.
(4) Thich Nhat Hanh, Spegni il fuoco della rabbia, Mondadori, Milano 2002, pag. 53.
(5) Thich Nhat Hanh, La luce del Dharma. Dialogo tra cristianesimo e buddhismo, Milano, 2003, pagg. 61-63.

Angela Lano




Ma quanto mi costi!

Il dono nuziale, o dote, sigilla la conclusione del matrimonio
nella società siriana. Ma le pretese sono troppo alte per tante famiglie:
sposarsi rimane un sogno irraggiungibile.

La laurea in lingue e letterature orientali e il lavoro mi hanno portata a soggioare per lunghi periodi in Medio Oriente. Soprattutto la Siria è stata una delle mie mete più frequentate. Il mondo delle donne in particolare mi ha sempre affascinata e incuriosita.
La vita di una donna in Siria, come in altri paesi musulmani, ruota attorno al matrimonio, alla procreazione e alla creazione di una famiglia, vista come pilastro della società. Mi sono dedicata molto allo studio delle tradizioni e consuetudini matrimoniali, che riguardano non solo la comunità musulmana, ma anche quella cristiana. Infatti uno dei miei approfondimenti è stato proprio quello di tracciare dei paralleli tra le due comunità.
SICUREZZA PER LA SPOSA
Per concludere un matrimonio, nei paesi di religione musulmana, occorre la stipulazione di un contratto bilaterale privato. Non è necessario solennizzarlo con un rito religioso: basta che i due futuri sposi si scambino la promessa di matrimonio alla presenza di due testimoni qualificati, solitamente due notai, abilitati a redigere atti del genere e obbligati a trasmettee copia allo stato civile.
La stipulazione del contratto viene generalmente accompagnata dalla recita della fatiha (il primo capitolo del Corano). Ma il contratto risulta valido solo se sono rispettate alcune condizioni. Una di queste è il pagamento di una dote o dono nuziale (mahar).
La dote non è un costume introdotto dall’islam; nei paesi musulmani si parla di dote molto tempo prima dell’arrivo di Maometto.
In Mesopotamia, durante la dinastia babilonese, Hammurabi (1792-1750 a.C.) compilò il primo codice legislativo, ispirandosi a vari testi giuridici più antichi. Riguardo al matrimonio, il codice prescriveva un contratto in cui il fidanzato doveva fare una donazione, in denaro o in natura, al futuro suocero; questi, in compenso, costituiva una dote alla figlia, di cui la donna avrebbe goduto personalmente i benefici.
Oggi, come all’epoca di Hammurabi, la dote è un dono, un’offerta, una concessione; non è, come si è portati a pensare, un prezzo per la donna. Non è una tariffa per poter godere della donna, ma è un segno del rispetto a lei dovuto.
La dote è un diritto legittimo della sposa; al tempo stesso è una prova di fedeltà dell’uomo. Come dice un versetto del Corano: «Date spontaneamente alle donne la dote e se a loro piace farvene partecipi, godetevela pure in pace e tranquillità (Sura iv, versetto 4).
Purtroppo, non è l’esistenza della dote in sé a creare un problema, quanto piuttosto il suo ammontare. In molti paesi musulmani l’eccessivo prezzo della dote è di ostacolo alla conclusione di matrimoni. Per alcuni, come la Siria, sta diventando addirittura un enorme problema sociale, in quanto i matrimoni diminuiscono sempre più.
Ma che cosa esattamente comprende la dote? Che cosa comporta la dote per la famiglia di uno sposo?
«Normalmente, la dote consiste nel versamento di una somma di denaro» cerca di spiegarmi il trentenne Firas, che vive a Damasco e gestisce con il padre un negozio di antichità. «Questa somma è divisa in due parti, una pagata prima della consumazione del matrimonio, generalmente durante la stipulazione del contratto, l’altra versata in caso di divorzio o al decesso del marito».
La scissione in due parti della dote è usuale nel mondo islamico. Nata inizialmente per facilitare lo sposo non ricco, questa usanza ha assunto in seguito altre due valenze. Poiché rimane nelle mani della donna, la metà della dote diventa una sorta di arma contro il pericolo del ripudio: la minaccia di un reclamo della seconda parte di dote serve infatti a dissuadere l’uomo da potenziali intenzioni di separazione.
Questa quota di dote serve inoltre ad assicurare l’assistenza della donna dopo la fine del matrimonio, sia per decesso del marito, sia per divorzio. Molte famiglie esigono una seconda parte alquanto sostanziosa, di modo che il marito sia costretto a riflettere a lungo prima di volere la separazione dalla moglie.
La sharia, la legge islamica, non fissa un limite massimo o minimo, ma lascia questo aspetto materiale allo sposo, che calcola il poco e il tanto da sborsare; soprattutto tale calcolo dipende da consuetudini e tradizioni, diverse da paese a paese; l’importante è la reciproca intesa.
SOLO SE LA SPOSA… È RICCA
«Purtroppo il prezzo della dote ha assunto delle proporzioni vertiginose – prosegue Firas – in rapporto ai nostri redditi. Per noi musulmani la dote è obbligatoria, non come per i cristiani; essa viene segnata nel contratto matrimoniale. Durante il primo incontro tra le famiglie dei due futuri sposi si stabiliscono, oltre alle date di fidanzamento e matrimonio, anche l’ammontare delle due somme. Ed è la famiglia della sposa che fissa le cifre da pagare».
«Nella forma siriana – aggiunge Firas con rammarico – vengono completamente tradite le intenzioni del profeta, che in uno dei suoi hadith (detti) aveva affermato: “Sposatevi e moltiplicatevi; io mi glorificherò di voi il giorno del giudizio universale”. Attualmente la dote è diventata un grosso ostacolo al matrimonio.
Per noi siriani la procreazione e il matrimonio sono i fattori più importanti nella vita di un uomo. È il modo di vivere al quale tutti aspirano, non esiste una vita serena al di fuori della realtà matrimoniale. Una donna per essere completa deve avere al suo fianco un uomo, che si occupi di lei, del suo futuro, che le dia una casa, dei figli. Purtroppo, per motivi economici spesso ci è impossibile aspirare a formare una famiglia.
Io ho 30 anni e vorrei tanto potermi sposare; ma al momento mi è impossibile: la mia famiglia non ha sufficiente denaro; unica soluzione è che trovi una donna ricca, che possa pagare tutto lei» conclude Firas sorridendo.
Certamente non è un caso sentire parlare di matrimoni in cui la donna, anzi la sua famiglia, paga tutto. I genitori, pur di non tenere una figlia zitella, si sobbarcano a tutte le spese, anche al pagamento della dote.
NELLE FAMIGLIE CRISTIANE
L’usanza di dare una dote alla sposa esiste anche presso i cristiani, anche se non fa parte del contratto matrimoniale. Me lo conferma Raife, una cristiana (massihiyya: da al-masyh, il messia). Non si è mai sposata, perché scelta dalla famiglia a restare nella casa patea, a Bab Tuma nel quartiere cristiano di Damasco, per accudire la madre molto anziana. In compenso si è occupata del matrimonio di tutti i suoi fratelli e parecchi nipoti.
«Mio fratello Attaf ha tre figli maschi – dice Raife preoccupata -, ma a causa dell’eccessivo prezzo della dote non riesce a sposarli tutti. La dote, considerata presso i musulmani come somma da versare al padre della sposa, esiste anche presso noi cristiani, benché essa non venga inserita nel contratto di matrimonio. È una consuetudine molto antica e ancora molto rispettata anche nelle famiglie cristiane».
Un matrimonio in Siria ha dei costi considerevoli, che superano spesso i redditi medi di una famiglia. «Sulla famiglia dello sposo pesa l’onere più alto – spiega Raife -. Oltre alla dote da versare, deve sobbarcarsi alle spese per l’organizzazione del matrimonio e della festa di fidanzamento. Tra l’altro, presso noi cristiani, vi è la consuetudine che il padre dello sposo regali alle parenti più prossime dei vestiti per festeggiare il matrimonio del figlio».
Anche per i cristiani la dote viene pagata in due volte. «La prima parte viene consegnata al padre o a un rappresentante legale della futura sposa – riprende Raife -. Ma ciò non significa assolutamente che il genitore consideri la dote come prezzo di sua figlia; ma è semplicemente indice della cultura patriarcale della famiglia. Inoltre, considerata la sua giovane età, la ragazza è spesso poco esperta e poco qualificata per fare gli acquisti per le nozze e per gestire l’ingente somma. La seconda parte viene pagata, come per i musulmani, in caso di divorzio o di decesso del marito».
«A volte in alcune famiglie cristiane della Siria – aggiunge Raife – viene pagata la dutta o ba’ina, una dote alla rovescia, in quanto è il padre della sposa a versare denaro al genitore dello sposo. Tuttavia, a parte casi rari, le spose cristiane pretendono le doti dai futuri mariti, alla maniera musulmana».
In base alla legge, la donna è libera di disporre della sua dote. Sia tra i cristiani che tra i musulmani, una parte della somma viene utilizzata per comprare il corredo, che la sposa porterà nella casa nuziale. Per tradizione, esso dovrebbe comprendere vestiti, biancheria e giornielli per la sposa, mobili e oggetti per la casa, materassi, coperte e cuscini.
Attualmente, però, buona parte della dote viene spesa per l’acquisto di vestiti e, soprattutto, giornielli. È molto importante che nel giorno del matrimonio la ragazza indossi molto oro, per valorizzare la sua avvenenza, ma anche per dimostrare il suo stato di sposa.
Anche se nel Corano l’oro non è sempre tollerato, la bramosia è tale da contagiare anche i musulmani, di tutti i livelli sociali.
PREZZI DA ABBASSARE
I giuristi musulmani contemporanei dedicano molte pagine a questo argomento. Pur confermando l’importanza della dote, essi ne contestano l’elevatezza del prezzo, sottolineano le difficoltà che essa crea per i giovani desiderosi di sposarsi e rivendicano un ridimensionamento al ribasso.
Dai loro studi è emerso che già agli inizi del ’900 in Siria vi erano dibattiti sull’eccessivo valore del dono nuziale. A Damasco, negli anni ’30, fu addirittura creato un comitato d’azione per l’abbassamento del prezzo della dote: in un bollettino vennero esposte le cause del problema, denunciati gli effetti negativi e invitate le famiglie siriane a combattere tale tradizione.
Questo bollettino fu pubblicato sui giornali; le idee furono diffuse attraverso il comitato, con l’appoggio dei capi religiosi di Damasco, ma senza portare molto frutto. Il loro appello alla riduzione della dote si scontrava con la mentalità dei siriani, che vedono la felicità di una sposa solo nella ricchezza e opulenza, con la conseguenza di dissipare il valore del dono nuziale nell’acquisto di lussuosi corredi per le spose. Anzi, molti genitori, come sottolinea il comitato, si considerano umiliati se accettano doti basse.
A quasi 80 anni di distanza la situazione in Siria non è cambiata. I matrimoni diminuiscono sempre più, soprattutto nelle città, dove il tenore di vita è più alto. Nella società siriana contemporanea la dote è forse ancora più consistente di quanto non fosse in passato. È diventato un reale problema sociale, che balza agli occhi leggendo il giornale, ascoltando la radio o guardando la televisione.
Parlando con ragazzi e ragazze, prima o poi si arrivava ad affrontare questo argomento. Il matrimonio per alcuni giovani è quasi un sogno. Impossibile per molti riuscire a racimolare almeno una piccola parte di quello richiesto dalla famiglia della ragazza.
La situazione delle ragazze non è tanto migliore; spesso si vedono proporre uno sposo molto più attempato di loro: un uomo che, per accumulare una dote, si sposa in età più che matura.

Elisabetta Bondovalli




Le mine continueranno ad azzoppare

Battambang è una sonnolenta e graziosa cittadina in stile coloniale, adagiata tra risaie e attraversata dal fiume Sangker, in cui i bambini si divertono a nuotare, schiamazzando e inseguendo le imbarcazioni dei commercianti vietnamiti che, dal Tonlé Sap, giungono fin qui a rivendere il pesce.
Ma accanto a questo spaccato di tradizionale vita asiatica, se ne contrappone un altro meno rassicurante: la città si trova al centro di una delle regioni più devastate dalla guerra civile, che per quasi 20 anni ha visto contrapporre tra loro l’Esercito reale di Hun Sen e i khmer rossi di Ieng Sary, arroccati a Pailin, un villaggio al confine con la Thailandia, nei cui dintorni vi sono ricchi giacimenti di rubini e zaffiri.
L’accordo, siglato tra i due leaders nell’agosto 1996, ha sancito, almeno formalmente, la fine del conflitto, ma non ha impedito che gli strascichi della lunga guerra mietano ancora oggi numerose vittime a causa delle mine disseminate dall’una e dall’altra fazione per tutta la provincia.
Dal cassone del pick-up, che in poco più di due ore mi porta a Pailin, osservo i villaggi che si allineano lungo la strada, attorniati da campi che per chilometri e chilometri il Cmag (Cambodian Mines Advisory Group), il corpo speciale dell’esercito cambogiano preposto allo sminamento, ha recintato con nastri rossi per avvertire la popolazione della presenza dei minuscoli ma micidiali ordigni.
«Non delle grandi cose bisogna aver paura, ma delle piccole» mi diceva un fotografo del National Geographic, conosciuto in Laos l’anno scorso. La frase mi torna in mente ora che vedo bambini, uomini e donne menomati per sempre a causa delle mine. E ogni giorno, proprio qui, nella provincia di Battambang, qualche carica seminata nella fertile terra, che per natura dovrebbe offrire cibo alla popolazione, miete altre vittime.

P er aiutare queste persone, Emergency, l’organizzazione non governativa fondata da Gino Strada, nel 1998 ha aperto un ospedale a Battambang: vi lavorano 125 cambogiani e 10 volontari europei, guidati da uno dei chirurghi di guerra più famosi al mondo: il belga Gustavs Questiaux.
Il centro, dedicato a Ilaria Alpi, ha riscontrato subito la fiducia dei locali, abituati a farsi curare e operare negli ospedali della città, dove non esiste igiene e personale specializzato.
«In tutta la nazione vi sono solo 32 infermiere diplomate; a Battambang la chirurgia è affidata a équipes mediche inesperte, che spesso peggiorano la situazione degli assistiti» lamenta Gino Strada; e porta come esempio un giovane, curato in un ospedale statale, al quale si è dovuto tagliare totalmente una gamba perché incancrenitasi.
In condizioni di tale emergenza i medici dell’Ong hanno deciso di dedicare parte del loro tempo all’insegnamento di tecniche chirurgiche ai colleghi cambogiani, in modo che, nel giro di tre anni, siano pronti a gestire da soli l’intero progetto.
Accanto alla pratica, per Emergency è altrettanto importante l’approccio con cui il personale si propone al paziente. In un paese come la Cambogia, dove la società è oramai priva di fulcri ideologici e valori, l’uomo viene valutato a seconda del prestigio che occupa nella complessa gerarchia sociale.
La filosofia proposta da Emergency vuole, invece, far prevalere il paziente, visto esclusivamente come essere umano, con tutti i diritti al rispetto, cura e assistenza a esso dovuti. Un bel salto di qualità, che costringerà i dipendenti a un drastico cambio di mentalità. «È questa la vera sfida a cui Emergency è chiamata a rispondere» concorda Gino Strada.
Questa riscoperta etica della medicina ha anche richiamato volontari come Donaldo Ciresi, che, dopo anni di lavoro in un famoso ospedale di Milano, ha deciso di imbarcarsi nel volontariato: «Ero stanco di vedere medici lavorare solo per guadagnare il più possibile. Ho studiato medicina per cercare di salvare vite, non per spremere portafogli. Qui, finalmente, ho ritrovato l’etica imposta da Ippocrate e sul cui testamento ho giurato» mi confida entusiasta.

M a vi è un’altra grossa scommessa da vincere: visitando la nazione, non può sfuggire l’alta percentuale di vittime a cui si è dovuto amputare la gamba sino all’altezza dell’anca. «È a causa della quantità di tritolo contenuto nelle mine: in Cambogia essa supera spesso la soglia dei 3 grammi, ritenuta il limite, oltre la quale il danno provocato dalle schegge è tale da costringere l’amputazione totale dell’arto o degli arti» spiega Roberto Bottura.
Questo significa che la preparazione dei chirurghi dovrà essere di qualità più elevata rispetto ad altri paesi che soffrono del medesimo problema.
Chiedo a Gino se, oltre alla riabilitazione fisica garantita dal centro, ne sia contemplata anche una psicologica, per reinserire le vittime nella loro comunità. «In questo paese, dove in media una persona su 200 mila ha subito il trauma dell’esplosione da mine, l’handicap fisico non è un tabù, che esclude chi lo subisce. Non vi è, quindi, una necessità estrema di seguire il paziente nel campo psicologico» mi risponde, peccando forse di ottimismo.

N on sarà un tabù, ma di certo la presenza di persone menomate ripropone in modo costante ed evidente il problema delle mine che, a differenza degli scontri a fuoco tra eserciti, continua a ripercuotersi sulla società anche a distanza di decadi dopo la fine della guerra.
In questo campo sono di poco conforto le statistiche raccolte all’ufficio Unicef di Phnom Penh, le quali notano una diminuzione delle persone che ogni anno incappano nelle mine; e ciò grazie alla mappatura dei terreni effettuata dal Cmag.
E mentre il pick-up sobbalza nelle pozzanghere della strada, osservo la popolazione dei villaggi che coltiva anche le risaie recintate dal fatidico nastro rosso, col rischio di far saltare qualche decagrammo di tritolo.
Lo sminamento, che dovrebbe far seguito alla delimitazione dei terreni, al ritmo attuale durerà decenni: i contadini, già provati dalla guerra, non possono permettersi il lusso di abbandonare le risaie e lasciare l’intera famiglia con lo spettro della fame.
Così rischiano. Quotidianamente.

P.P.




Incubo indelebile

Povertà, corruzione, sfruttamento;
classe dirigente contraddittoria e opportunista…
C’è chi rimpiange il regime di Pol Pot.

Ricordo ancora la prima volta che visitai Phnom Penh, verso la metà degli anni ’80: la città contava meno di centomila abitanti, mentre 10 anni prima vi si assiepavano quasi 3 milioni di persone, metà dell’intera popolazione del paese.
Le strade erano deserte, animate solo da rari passanti; i più fortunati arrancavano pedalando su biciclette arrugginite. Il mercato centrale raccoglieva il poco che la nazione potesse offrire: chi vendeva un casco di banane, chi un paio di papaye, chi un copertone d’auto completamente liso; alcuni mettevano in mostra semplici fili di ferro, altri rarissime penne o matite; i più fortunati avevano uno o due chili di riso raggranellati chissà dove.
Il baratto era l’unica forma di commercio accettata; la moneta, introdotta pochi mesi dopo la caduta del regime di Pol Pot, si svalutava di ora in ora e nessuno si sentiva sicuro con quei pezzi di carta che avrebbero potuto trasformarsi in combustibile, come era accaduto il 17 aprile 1975.
Gli edifici della città erano per lo più abbandonati, lasciati all’incuria e alla mercé della vegetazione. Di notte, poi, la capitale era incredibile a vedersi: il buio più completo la avvolgeva; il silenzio, rotto da qualche generatore diesel che alimentava poche fioche luci di lampadine, che variavano continuamente la loro intensità luminosa, contribuiva a creare un’atmosfera irreale.
Lungo le strade deserte le lantee rischiaravano appena i volti di famiglie sedute in circolo a consumare ciò che una giornata di lavoro era riuscita a offrire loro: una manciata di riso, qualche verdura e frutto.
DEMOCRAZIA DEGLI «EX»
Oggi, a 20 anni di distanza, Boulevard Norodom è intasato di macchine e motorini, che strombazzano all’ombra di enormi cartelloni pubblicitari, affiancati da negozi che espongono tutto ciò che il mercato internazionale mette a disposizione.
I bambini, probabilmente figli degli stessi ragazzini che tempo fa avevo visto assaporare con tanto languore pochi chicchi di riso, corrono a piedi nudi sull’asfalto cotto dal sole. I più fortunati leccano un gelato, altri sorseggiano una Mirinda, la Fanta del Sud Est Asiatico. Il mercato centrale, tornato agli antichi splendori, è affollato all’inverosimile.
Si paga in riel: il baratto, almeno qui in città, non è più accettato. Poco distante, i pullman aspettano di riempire gli ultimi posti per poi sfrecciare verso ogni angolo di un paese che, dopo più di tre decenni, non è ancora riuscito a scrollarsi di dosso l’incubo del suo passato: le ferite da questo inferte al popolo sono ancora troppo evidenti e presenti nella vita quotidiana.
La zoppicante democratizzazione della vita politica, iniziata nel 1993 con le elezioni, volute dalle Nazioni Unite e parzialmente fallite per l’opposizione dei khmer rossi, è continuata attraverso altre due consultazioni generali, l’ultima nel giugno scorso: in tutte il leader del Partito del popolo cambogiano, Hun Sen, ha ottenuto schiaccianti vittorie, grazie più alla sfiducia espressa dagli elettori verso i suoi inetti oppositori, che per la fiducia che infonde il premier.
Troppi, infatti, sono i prefissi «ex» che si possono affibbiare alla carriera politica di Hun Sen, perché le sue promesse possano ritenersi attendibili: ex khmer rosso, ex filovietnamita, ex comunista.
Per anni il potere di Hun Sen e la Cambogia stessa non sono crollati solo grazie alla fragile impalcatura di un tacito consenso politico in funzione anti Pol Pot: ai khmer rossi veniva imputato tutto quanto di negativo accadeva nel paese: assassini politici, difficile decollo economico, instabilità, povertà delle campagne, brogli elettorali, burocrazia, inefficienza delle strutture pubbliche, alta percentuale di handicappati fisici e mentali e, dulcis in fundo, il golpe del 1997.
Il dito era immancabilmente puntato verso di loro. «I khmer rossi dominano ancora il paese e le divisioni politiche all’interno del parlamento non fanno che rafforzarli. È ora che la Cambogia abbia un solo leader, capace di far fronte alla barbarie» mi aveva detto Hun Sen subito dopo il putsch del 5 luglio 1997, cercando di giustificare il suo operato. Poi ha aggiunto: «Io ho salvato la Cambogia da un secondo massacro: l’accordo stipulato tra il Funcinpec di Norodom Ranariddh e la dirigenza dei khmer rossi, spianava la strada dalle giungle di Anlong Veng a Phnom Penh per Pol Pot e la sua cricca. Avremmo avuto altri killing fields. Era questo che i cambogiani volevano? Non penso. Ho quindi deciso di agire».
Ma questa facciata di Hun Sen salvatore della patria non regge. Tutti qui ricordano che è stato lui a opporsi energicamente a un eventuale giudizio in tribunale della dirigenza di Kampuchea Democratica; è stato ancora lui a concedere grazia e immunità a Ieng Sary, l’ex ministro degli esteri e «fratello numero tre» di Kampuchea Democratica, cognato di Pol Pot, in cambio di una sottomissione al governo di Phnom Penh.
Oggi Pailin, la regione più ricca della Cambogia grazie alle sue miniere di rubini, è un’entità semiautonoma, amministrata dai transfughi khmer rossi, dove gli emissari governativi non hanno alcun potere. Lì vivono, oltre a Ieng Sary e sua moglie Ieng Thirith, Noun Chea, «fratello numero due» di Kampuchea Democratica, Khieu Samphan e altri dirigenti, scampati alla cattura nel 1998, quando anche l’ultima roccaforte rossa, quella di Anlong Veng, venne occupata dall’esercito governativo.
MORALE DA EX… ROSSI
Mi reco a Pailin, dove riesco a incontrare Ieng Sary. Lui, come tutti i suoi compagni, circola liberamente senza scorta per le vie del villaggio. La gente lo venera, non per paura, ma perché vede in quest’uomo una figura carismatica che vive tra loro, ride con loro, mangia nei loro ristorantini. Insomma, è uno di loro.
Ogni giorno, davanti alla sua casa ci sono numerose persone che chiedono il suo aiuto o il suo consiglio per dirimere contenziosi. La sua parola è legge e tutti l’accettano. «Noi, ex dirigenti di Kampuchea Democratica, ci siamo ritirati da tempo dalla politica. Ci siamo accorti che la nostra politica non si poteva adattare alla società cambogiana, perché gli obiettivi che ci eravamo prefissi a quel tempo erano troppo ambiziosi e noi non potevamo raggiungerli con i mezzi che avevamo. Era solo un sogno, un sogno che non poteva divenire realtà». Quindi, ci si è adattati al nuovo sistema.
La posizione strategica di Pailin, a pochi chilometri dal confine thailandese e il continuo andirivieni di compratori di pietre preziose, hanno indotto Ieng Sary a concedere al magnate cambogiano Theng Bunma di costruire il primo casinò della Cambogia post-khmer rossi, in cambio di una cospicua fetta dei profitti.
Esprimo a Ieng le mie perplessità sulla degradazione morale che locali come questo possono creare nella comunità: per assai molto meno, migliaia di cambogiani erano stati accusati dal suo stesso governo di aver ceduto ai vizi del capitalismo e, per questo, uccisi. Lui capisce e condivide; ma afferma che il casinò servirà per costruire e migliorare le infrastrutture pubbliche della regione.
SFRUTTAMENTO INCONTRASTATO
La decadenza etica della società cambogiana è uno dei problemi principali che chiese e Ong cercano di contrastare. L’arrivo in massa di soldati dell’Onu negli anni ’90, seguiti da agenti di organizzazioni inteazionali e turismo di massa, hanno contribuito ad alimentare l’industria della prostituzione, principalmente infantile.
A Tuol Kork, quartiere periferico di Phnom Penh, ragazze dai 10-12 anni in su, nascoste dietro maschere di trucco, si offrono a chiunque per denaro. La maggioranza viene dalle campagne; altre sono state vendute dalle famiglie; altre ancora provengono dal Vietnam o Laos, attirate dalla promessa di un lavoro decente.
«I khmer rossi hanno creato una nazione in cui corruzione e prostituzione erano virtualmente assenti e questo ha contribuito a creare nei giovani una sorta di mito di purezza che i politici nostrani, con i loro inconcepibili comportamenti, contribuiscono ad alimentare» mi spiega George Ingram, direttore della «Coalizione per l’educazione di base», un’organizzazione formata da sedici Ong statunitensi che lottano per contrastare la diffusione dell’Aids nel paese. Con il 2,8% della popolazione affetta da Hiv, la Cambogia è la nazione del Sud Est Asiatico con la percentuale più alta di sieropositivi.
Ma anche chi riesce a non farsi inghiottire dal racket della prostituzione, non ha vita più facile: da Taiwan, Thailandia, Malesia, Cina, arrivano imprenditori attirati dalla completa mancanza di regole nel campo del lavoro. Nelle fabbriche, soprattutto tessili, si lavora ininterrottamente per 12-14 ore al giorno, per 30 dollari al mese e senza alcun diritto.
Le rappresentanze sindacali, quando esistono, sono messe a tacere con ricatti o con violenza; gli abusi sessuali nei confronti delle donne e dei bambini sono oramai all’ordine del giorno. Sam Rainsy, il politico più anticomunista del parlamento cambogiano e leader dell’omonimo partito, ha avviato una campagna di difesa dei lavoratori e contadini: «Lo sviluppo economico deve andare di pari passo alla giustizia sociale, ma dobbiamo considerare anche i costi sociali e ambientali che dovremmo pagare; abbiamo il dovere di proteggere le nostre risorse naturali e difendere i diritti dei poveri e dei deboli. La Cambogia ha bisogno di investitori stranieri; ma essi devono rispettare i diritti dei lavoratori».
CONTRADDIZIONI E OPPORTUNISMI
Belle parole; ma si scontrano con le difese offerte dallo stesso Rainsy agli imprenditori, quando questi si trovano in conflitto col governo, segno di quanto sia contraddittoria e opportunista la classe politica del paese.
Nella sua campagna elettorale, Rainsy, che dopo aver vissuto 27 anni in Francia è tornato in Cambogia con l’intenzione di trasformare la società seguendo il modello occidentale, ha più volte alimentato l’odio storico esistente tra khmer e viet, usando violente espressioni antivietnamite proprie del vocabolario khmer rosso, come «governo fantoccio del Vietnam»; «strategia dei vietnamiti nel vietnamizzare l’Indocina»… Slogan pericolosi, usati per giustificare mobilitazioni e assalti alle ambasciate del Vietnam o Thailandia, o per incitare veri e propri pogrom contro le etnie minoritarie.
E quando la violenza khmer si scatena, neppure gli appelli del re Sihanouk possono fermarla. Paul Mus, studioso della società cambogiana scriveva: «Si crede che i cambogiani siano miti. Diffidate di questa fama. Conoscete dei miti che hanno costruito qualcosa di altrettanto formidabile di Angkor? Appena le circostanze vi si presenteranno, scoppierà la loro violenza».
Quanta ragione aveva Paul Mus! E allora non è un caso che il personaggio pubblico più longevo del paese sia proprio il più indecifrabile e ambiguo di tutti: re Sihanouk, che oggi occupa il tempo a scrivere canzoni inascoltabili. Anti-tutto e al tempo stesso pro-tutto, Sihanouk è sopravvissuto a se stesso: dopo il fallimento del Sangkum negli anni ’60, è scampato al colpo di stato di Lon Nol, alla furia dei khmer rossi, all’odio dei vietnamiti e di Hun Sen, giungendo sano e salvo al 2004 senza dover rendere conto a nessuno delle sue inconcepibili prese di posizione.
Suo figlio Ranariddh, politico più per raccomandazione che per capacità, non è mai riuscito ad affermarsi sul piano personale, offuscato dalla figura patea nella corte reale e dal rivale Hun Sen in parlamento. Tutte le mosse per conquistarsi una fetta di potere si sono dimostrate disastrose e i suoi sostenitori lo hanno abbandonato in massa.
NOSTALGIE PERICOLOSE
Di fronte a questa disfatta politica, non è una sorpresa giungere ad Anlong Veng e trovare la tomba di Pol Pot coperta da ex-voto e costantemente visitata da cambogiani che rendono omaggio a un leader condannato dall’umanità intera, ma che il suo popolo non ha ancora ricusato.
«Pol Pot è stato un leader esemplare per tutti noi. È vissuto con noi; è morto come noi» mi dice un contadino. Una ragazza lamenta che, con l’arrivo delle autorità di Phnom Penh, le infrastrutture agricole, tanto efficienti sotto i khmer rossi, sono state abbandonate e la regione, una delle più fiorenti della Cambogia prima del 1998, ora sta rapidamente degenerando.
«Ora ci rimangono solo due possibilità – conclude una vedova, madre di quattro figli – trasferirci a Pailin, sotto Ieng Sary, Noun Chea e Khieu Samphan, o andare in Thailandia».•

Piergiorgio Pescali




Il processo può attendere

N ell’intervista concessami nel dicembre 1997, l’ultima rilasciata a un giornalista, Pol Pot mi confidò di voler essere ricordato «come un uomo giusto e onesto; un uomo che ha lottato sino all’ultimo per difendere la Cambogia dalla distruzione ad opera dei vietnamiti».
Queste parole mi tornano in mente quando, quest’anno, in una Cambogia devastata da corruzione, violenza, povertà e miseria morale, ho visitato la tomba in cui furono tumulate le sue ceneri. Non ho faticato a trovarla: ogni giorno piccole folle di pellegrini si radunano attorno al luogo di sepoltura, lasciando piccole offerte ed ex voto. Prima di andarsene, tutti fanno il sompieh, saluto a mani giunte chinando la testa fino a toccare terra.
Mentre in tutto il mondo il nome di Pol Pot è associato a massacri di massa, i nuovi politici cambogiani sono riusciti, con la loro inefficienza e inettitudine, a creare attorno a Pol Pot e ai khmer rossi un alone di benevolenza, trasformatasi in una sorta di santificazione.
«I khmer rossi, e Pol Pot in particolare, sono visti come esempio di onestà e, paradossalmente, di giustizia: Pol Pot non si è arricchito ed è morto in povertà, come gli stessi sudditi che trucidava» mi dice David P. Chandler, il più insigne studioso della figura del leader khmer e autore di Brother Number One: A Political Biography of Pol Pot.
La maggioranza dei cambogiani è nata dopo il crollo del regime di Pol Pot e non conosce gli orrori da lui perpetrati, perché chi li ha subiti, genitori o nonni, ne sono ancora talmente scioccati che si rifiutano di parlarne. Ma sentono affermare, da chi ha vissuto e visitato le aree controllate dal movimento dopo gli anni ’80, che la qualità della vita e le strutture agricole erano migliori di quelle che trovano nella Cambogia attuale, governata da un altro ex khmer rosso: Hun Sen.

L a morte di Pol Pot (1998) ha inferto un colpo forse mortale a chi si batte affinché si istituisca un tribunale internazionale che giudichi i crimini commessi dai khmer rossi.
Ma sono in molti, a Phnom Penh e nel mondo politico internazionale, a rallegrarsene in segreto. L’inchiesta che ne seguirebbe porterebbe a svelare gravi responsabilità di quegli stessi elementi che oggi sbraitano contro le colpe commesse tra il 1975 e il 1979. Primi tra tutti Hun Sen e Chea Sim che, dopo essere convolati tra le braccia del Vietnam, oggi spadroneggiano e tiranneggiano il paese.
Ma la stessa famiglia reale è coinvolta nell’opera di Pol Pot: Sihanouk è stato capo di stato di Kampuchea Democratica e ne ha difeso all’Onu il seggio, all’indomani dell’invasione vietnamita, mentre suo figlio Ranariddh ha tessuto legami con la dirigenza guerrigliera.
Inoltre, che dire della Francia, il cui colonialismo si è dimostrato ottimo fertilizzante per la nascente guerriglia, o degli Usa, la cui ottusa politica, culminata con il colpo di stato di Lon Nol (1970), ha spianato la strada al potere dei khmer rossi?
E poi la Thailandia, da sempre principale sostenitrice finanziaria di Pol Pot, la Cina, foitrice di armi, la Gran Bretagna, che ha spedito i suoi soldati ad addestrare la guerriglia cambogiana, completano solo la parte più evidente della rosa di complicità, che un processo equo e giusto ai danni dei khmer rossi dovrebbe coinvolgere.
Non è certo un caso che quasi tutto quanto è stato scritto sui khmer rossi è frutto di conoscenza superficiale della situazione storica indocinese, così come ciò che è stato scritto di Pol Pot è spesso irriflessivo e avventato, come i parallelismi con Hitler e Stalin.
«Per capire l’uomo e quello che è accaduto in Kampuchea Democratica è cruciale recuperare il contesto cambogiano e le influenze che ha avuto dall’esterno. Tutti noi ci dobbiamo mettere in discussione» afferma David P. Chandler. Ma abbiamo il coraggio di farlo?

P.P.