Terrore rosso

Sono rare le interviste rilasciate da Pol Pot;
questa fu concessa nel dicembre 1997, quattro mesi prima di morire. Il «fratello numero uno», come si faceva chiamare l’uomo forte di Phnom Penh, si assume le proprie responsabilità, spiega il suo operato e afferma che lo rifarebbe.

E ro stato varie volte nelle zone occupate dai khmer rossi e ad Anlong Veng, loro quartier generale. Avevo avuto modo di conoscere Khieu Samphan e altri dirigenti del movimento, ma Pol Pot continuava a rimanere inavvicinabile.
Alla metà del 1997 successe qualcosa di decisivo. Nel maggio 1998 erano previste nuove elezioni generali in Cambogia e i khmer rossi, oramai isolati politicamente e finanziariamente, sentivano la necessità di rientrare nella politica nazionale, ma la parte ideologicamente più pura e dura, quella impersonificata da Pol Pot, era assolutamente contraria. L’unica soluzione, per il leader comunista, era la continuazione della lotta armata per raggiungere il potere senza compromessi.
Dalla parte opposta stava la fazione più pragmatica, guidata da Son Sen e Ta Mok, che avevano già avuto contatti con esponenti del Funcinpec (Fronte nazionale unito per una Cambogia indipendente, neutrale, pacifica e cornoperativa), il partito del figlio di Sihanouk, Ranariddh, che dal 1993 divideva il posto di primo ministro con il rivale Hun Sen, presidente del Partito del popolo cambogiano.
Il 4 luglio 1997 Funcinpec e khmer rossi firmarono un documento di alleanza in funzione anti Hun Sen; ma questi, il giorno dopo destituì il co-primo ministro Ranariddh, dando inizio a una cruenta faida tra raggruppamenti rivali.
Infine, il 25 luglio, Pol Pot fu processato dagli stessi compagni e condannato all’ergastolo; il suo posto fu preso da Ta Mok.
In due soli mesi la situazione politica dell’intera regione venne sconvolta, ma Hun Sen aveva calcolato tutto: sapeva bene che non si sarebbe ripetuta la ridda di critiche inteazionali che avevano accompagnato la presa di potere nel gennaio 1979, con l’invasione vietnamita. Né l’Onu, né Washington gli rimproverarono il colpo di stato. Gli Usa si limitavano a controllare che la situazione della regione non degenerasse; non se la sentivano di appoggiare un Ranariddh alleato dei khmer rossi.
L’Asean (Associazione delle nazioni del Sud-Est Asiatico), che, più per forma che per reale condanna, aveva rifiutato l’ammissione cambogiana nell’organizzazione, prevista per la fine di luglio, poteva permettersi di prolungare più di tanto l’estromissione della Cambogia. Il suo peso politico e strategico all’interno dello scacchiere internazionale sarebbe stato mutilato pesantemente proprio nel momento in cui l’economia dei suoi paesi fondatori traballava pericolosamente.
Chi poteva trarre maggior profitto dalla nuova instabilità cambogiana era la Cina, che stava tentando faticosamente di riacquistare peso politico nel continente e di colmare il vuoto lasciato da Washington. Ma aveva altri problemi interni e con i paesi vicini a cui badare.
Da parte sua, tagliando i legami con Taiwan, Phnom Penh cercò di disinnescare ogni tensione con Pechino e, soprattutto, di intercedere presso re Sihanouk, da anni rifugiatosi in Cina: dal monarca, infatti, dipendeva la legittimazione del nuovo regime cambogiano.
L’operazione riuscì: alla fine di agosto Hun Sen poté incontrare Sihanouk, che si disse disponibile a rientrare nel suo regno appena la salute glielo avrebbe permesso.

Q uesta, in breve, è la situazione che mi ha permesso di intervistare Pol Pot: i khmer rossi erano preoccupati per la piega che la situazione aveva assunto dopo il colpo di mano di luglio 1997 e cercavano appoggi inteazionali. Volevano mostrare al mondo intero che l’era di Pol Pot era definitivamente tramontata e che la democratizzazione del movimento era una realtà.
Il Pol Pot che trovai era assai differente dalla figura che mi ero immaginato leggendo i resoconti di coloro che lo avevano conosciuto: era un vecchio, il respiro affannoso, gli occhi spenti, i gesti lenti e attentamente studiati. Una bombola provvedeva ad aiutare a rigenerare l’ossigeno che i polmoni affaticati non riuscivano oramai più a rimpiazzare.
Era difficile immaginare che quest’uomo, dall’aspetto più simile a un contadino cambogiano che a un politico, per 3 anni e 8 mesi sia stata la persona più potente della Cambogia.
Per 18 anni le grandi agenzie giornalistiche in cerca di scornop erano arrivate ad offrire sino a 400 mila dollari per una sua intervista. Ma solo nell’agosto del 1997, il corrispondente della Far Easte Economic Review, Nate Thayer, sfruttando il rimpasto di potere avvenuto all’interno dei khmer rossi, riuscì ad avvicinare Pol Pot e a intervistarlo per la prima volta dal 1979.

Come preferisce essere chiamato, col nome di nascita, Saloth Sar, o con quello di battaglia, Pol Pot?
Dato che ho speso gli ultimi 45 anni della mia vita a combattere per il mio paese e per il popolo, preferisco essere chiamato con il nome di battaglia, Pol Pot.
Questo significa che ha dimenticato la sua famiglia?
Affatto! Durante tutti questi anni ho sempre pensato alla mia famiglia.
Però da quando si è dato alla lotta armata, non ha mai voluto incontrare alcuno dei suoi parenti. Anzi, alcuni di loro, tra cui anche suoi fratelli e sorelle, sono morti proprio per le dure condizioni di lavoro a cui erano stati sottoposti.
Ci sono due condizioni storiche e politiche da tener conto: la prima è che subito dopo la liberazione del paese, si era nel caos più completo. Dovevamo procurare il cibo per 5 milioni di cambogiani e 2 di questi erano ammassati a Phnom Penh. L’immediato trasferimento nelle campagne, perché anche loro lavorassero nelle risaie, era una condizione necessaria per la sopravvivenza di tutti. Inoltre c’era sempre il pericolo di bombardamenti da parte americana.
In secondo luogo, cosa avrebbe detto il popolo, se avessi ordinato che i miei parenti ricevessero un trattamento di riguardo? Avrebbe pensato che erano cambiati gli uomini al potere, ma il modo di gestirlo era rimasto identico.
A 22 anni di distanza, analizzando il periodo di potere khmer rosso, ammette di aver commesso degli errori macroscopici?
Sono d’accordo sul fatto che abbiamo commesso degli errori, dovuti soprattutto all’inesperienza. Del resto, chi non ne ha compiuti? Abbiamo basato e costruito la nostra politica continuando a pensare e operare secondo l’esperienza della lotta rivoluzionaria, senza passare alla fase post-rivoluzionaria, che ci avrebbe permesso di accelerare lo sviluppo della Cambogia. Ma considerando tutto, penso che il nostro governo sia stato positivo per il popolo. Penso che rispetto alla Cambogia di oggi, Kampuchea Democratica era molto più libera, democratica, indipendente e progredita.
Quindi non rigetta nulla di ciò che ha fatto.
E perché dovrei?
La maggior parte dei suoi ex compagni, da Ieng Sary a Khieu Samphan, l’ha fatto.
Sono scelte loro. Posso solo dire che la storia non può essere cancellata negando le scelte e le azioni compiute.
Lei però continua a negare la responsabilità della morte di centinaia di migliaia di cambogiani e la stessa esistenza della S-21, dei cosiddetti killing fields…
Come ho detto prima, non nego nulla di quanto mi ritengo responsabile. Non nego che durante il periodo in cui siamo stati al governo abbia personalmente commesso degli errori; ma le cifre che ha appena citato sono decisamente esagerate. Della S-21 non ne ho mai avuto notizia: è stata una messa in scena della propaganda vietnamita per giustificare la loro invasione di Kampuchea Democratica, così come i fantomatici killing fields, invenzione cinematografica di grande effetto.
Mi permetta, però, di ricordarle che gli stessi suoi ex compagni di governo oggi ammettono che tra il 17 aprile 1975 e il 7 gennaio 1979 in Cambogia si era instaurato un clima di terrore di cui lei, come primo ministro e segretario di partito, è stato il solo responsabile.
Posso solo dire che anche loro occupavano, assieme a me, posti di alta responsabilità. È logico che dopo il cambiamento di rotta politica all’interno del movimento tentino di riproporsi in una nuova prospettiva. Ma vorrei evitare di continuare a parlare di questi argomenti.
Quindi, se lei potesse tornare al potere, attuerebbe la stessa politica intrapresa durante il periodo tra il 1975 e il 1978?
Lo ripeto: non ho nulla di cui rimproverarmi. Penso che la nostra linea era giusta allora e lo sarebbe anche oggi. Naturalmente i tempi sono cambiati, ma anche nel 1978 stavamo gradualmente introducendo delle importanti riforme in Kampuchea Democratica.
Quali?
Reintroduzione del denaro, possibilità di gestire mercati privati, apertura delle frontiere, ritorno dei monaci nelle loro pagode. Ma il Vietnam non voleva tutto questo e ha deciso di invadere il nostro paese.
Come giustifica la sua avversione per il Vietnam?
Non è una mia avversione, ma quella di tutto il popolo khmer verso la minaccia youn.
A quanto ho potuto capire, è un contrasto che ha radici più storiche che razziali.
Esattamente. Il Vietnam si è annesso, nei secoli precedenti, la regione del Delta del Mekong, che apparteneva culturalmente, storicamente e etnicamente ai khmer. Nel 1975 si preparava ad annettere il resto della Cambogia. Abbiamo le prove di questo. Ma non avevano previsto la nostra vittoria, e si sono così trovati nell’impossibilità di compiere i loro piani di conquista.
Dice di avere le prove del piano di annessione della Cambogia al Vietnam. Quali sarebbero?
Discorsi all’interno del Partito dei lavoratori del Vietnam, lettere, preparativi militari, attacchi e provocazioni alle frontiere, spostamenti massicci di popolazioni verso il confine cambogiano, per occupare le terre che appartengono ai khmer e, soprattutto, infiltrazioni di elementi vietnamiti nel nostro partito.
Le purghe effettuate durante il suo governo sono quindi da addebitarsi alla politica di purificazione dall’elemento vietnamita all’interno dell’amministrazione di Kampuchea Democratica, per assicurare l’integrità della nazione?
Certamente. E la conferma è che oggi a Phnom Penh c’è una marionetta infiltrata dai vietnamiti nel nostro partito.
C’è oggi un paese che indicherebbe come esempio di modello sociale?
Ogni paese ha una storia e una situazione politica, sociale, culturale propria. Ultimamente non ho viaggiato molto, (ride, nda) quindi non ho diretta esperienza di sistemi sociali in atto…
Si sente ancora marxista?
Non nel senso che voi occidentali date a questo termine. Ho trovato nell’idea marxista degli spunti per condurre la lotta politica in Cambogia. Ma li ho trovati anche leggendo Rousseau, Gandhi, Voltaire.
Leninista?
Lenin ha avuto un ruolo storico d’avanguardia nel dimostrare che le idee di Marx potevano divenire realtà. È stato un grande maestro e grande personaggio storico per tutti, a prescindere dalle idee politiche.
Maoista?
Mao è stato un grande politico e un grande amico. La lotta condotta dal popolo khmer è per molti versi simile a quella condotta dal popolo cinese. Inoltre, la situazione culturale e politica della Cambogia è più assimilabile a quella cinese che a quella europea e sovietica: cinesi e khmer vivono e sono prosperati nelle risaie.
Lei è una sorta di dr. Jeckill e mr. Hyde: estremamente affettuoso e premuroso con la sua famiglia e con i suoi ospiti, ma duro e spietato in politica.
(Pol Pot compie un gesto di stizza e rimane muto nda).
Come si spiega che è più odiato all’estero che in Cambogia?
Perché i cambogiani mi conoscono meglio che all’estero.
Sa che in Occidente viene spesso paragonato a Hitler?
Non vedo alcun nesso tra me e Hitler. Hitler era un pazzo che ha sterminato milioni di ebrei e ha portato il mondo alla ii guerra mondiale.
Ma secondo gli studiosi, anche lei ha sterminato milioni di cambogiani: per l’opinione pubblica occidentale anche lei è un pazzo…
(Pol Pot si altera a tal punto che gli viene meno il respiro. Si porta la maschera d’ossigeno alla bocca. Il medico, allarmato, mi chiede di non continuare a porre altre domande del genere).
Cosa ritiene che sia essenziale in un uomo?
La volontà sincera e profonda di lottare per il bene del proprio popolo, mettendo in secondo piano gli interessi personali.
E lei pensa di aver rappresentato queste qualità?
Non sta a me giudicare. Sono comunque sereno.
Come vorrebbe essere ricordato dai suoi connazionali?
Come un uomo giusto e onesto; come un uomo che ha lottato sino all’ultimo per difendere la Cambogia dalla distruzione a opera dei vietnamiti.

Piergiorgio Pescali

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