Le mine continueranno ad azzoppare

Battambang è una sonnolenta e graziosa cittadina in stile coloniale, adagiata tra risaie e attraversata dal fiume Sangker, in cui i bambini si divertono a nuotare, schiamazzando e inseguendo le imbarcazioni dei commercianti vietnamiti che, dal Tonlé Sap, giungono fin qui a rivendere il pesce.
Ma accanto a questo spaccato di tradizionale vita asiatica, se ne contrappone un altro meno rassicurante: la città si trova al centro di una delle regioni più devastate dalla guerra civile, che per quasi 20 anni ha visto contrapporre tra loro l’Esercito reale di Hun Sen e i khmer rossi di Ieng Sary, arroccati a Pailin, un villaggio al confine con la Thailandia, nei cui dintorni vi sono ricchi giacimenti di rubini e zaffiri.
L’accordo, siglato tra i due leaders nell’agosto 1996, ha sancito, almeno formalmente, la fine del conflitto, ma non ha impedito che gli strascichi della lunga guerra mietano ancora oggi numerose vittime a causa delle mine disseminate dall’una e dall’altra fazione per tutta la provincia.
Dal cassone del pick-up, che in poco più di due ore mi porta a Pailin, osservo i villaggi che si allineano lungo la strada, attorniati da campi che per chilometri e chilometri il Cmag (Cambodian Mines Advisory Group), il corpo speciale dell’esercito cambogiano preposto allo sminamento, ha recintato con nastri rossi per avvertire la popolazione della presenza dei minuscoli ma micidiali ordigni.
«Non delle grandi cose bisogna aver paura, ma delle piccole» mi diceva un fotografo del National Geographic, conosciuto in Laos l’anno scorso. La frase mi torna in mente ora che vedo bambini, uomini e donne menomati per sempre a causa delle mine. E ogni giorno, proprio qui, nella provincia di Battambang, qualche carica seminata nella fertile terra, che per natura dovrebbe offrire cibo alla popolazione, miete altre vittime.

P er aiutare queste persone, Emergency, l’organizzazione non governativa fondata da Gino Strada, nel 1998 ha aperto un ospedale a Battambang: vi lavorano 125 cambogiani e 10 volontari europei, guidati da uno dei chirurghi di guerra più famosi al mondo: il belga Gustavs Questiaux.
Il centro, dedicato a Ilaria Alpi, ha riscontrato subito la fiducia dei locali, abituati a farsi curare e operare negli ospedali della città, dove non esiste igiene e personale specializzato.
«In tutta la nazione vi sono solo 32 infermiere diplomate; a Battambang la chirurgia è affidata a équipes mediche inesperte, che spesso peggiorano la situazione degli assistiti» lamenta Gino Strada; e porta come esempio un giovane, curato in un ospedale statale, al quale si è dovuto tagliare totalmente una gamba perché incancrenitasi.
In condizioni di tale emergenza i medici dell’Ong hanno deciso di dedicare parte del loro tempo all’insegnamento di tecniche chirurgiche ai colleghi cambogiani, in modo che, nel giro di tre anni, siano pronti a gestire da soli l’intero progetto.
Accanto alla pratica, per Emergency è altrettanto importante l’approccio con cui il personale si propone al paziente. In un paese come la Cambogia, dove la società è oramai priva di fulcri ideologici e valori, l’uomo viene valutato a seconda del prestigio che occupa nella complessa gerarchia sociale.
La filosofia proposta da Emergency vuole, invece, far prevalere il paziente, visto esclusivamente come essere umano, con tutti i diritti al rispetto, cura e assistenza a esso dovuti. Un bel salto di qualità, che costringerà i dipendenti a un drastico cambio di mentalità. «È questa la vera sfida a cui Emergency è chiamata a rispondere» concorda Gino Strada.
Questa riscoperta etica della medicina ha anche richiamato volontari come Donaldo Ciresi, che, dopo anni di lavoro in un famoso ospedale di Milano, ha deciso di imbarcarsi nel volontariato: «Ero stanco di vedere medici lavorare solo per guadagnare il più possibile. Ho studiato medicina per cercare di salvare vite, non per spremere portafogli. Qui, finalmente, ho ritrovato l’etica imposta da Ippocrate e sul cui testamento ho giurato» mi confida entusiasta.

M a vi è un’altra grossa scommessa da vincere: visitando la nazione, non può sfuggire l’alta percentuale di vittime a cui si è dovuto amputare la gamba sino all’altezza dell’anca. «È a causa della quantità di tritolo contenuto nelle mine: in Cambogia essa supera spesso la soglia dei 3 grammi, ritenuta il limite, oltre la quale il danno provocato dalle schegge è tale da costringere l’amputazione totale dell’arto o degli arti» spiega Roberto Bottura.
Questo significa che la preparazione dei chirurghi dovrà essere di qualità più elevata rispetto ad altri paesi che soffrono del medesimo problema.
Chiedo a Gino se, oltre alla riabilitazione fisica garantita dal centro, ne sia contemplata anche una psicologica, per reinserire le vittime nella loro comunità. «In questo paese, dove in media una persona su 200 mila ha subito il trauma dell’esplosione da mine, l’handicap fisico non è un tabù, che esclude chi lo subisce. Non vi è, quindi, una necessità estrema di seguire il paziente nel campo psicologico» mi risponde, peccando forse di ottimismo.

N on sarà un tabù, ma di certo la presenza di persone menomate ripropone in modo costante ed evidente il problema delle mine che, a differenza degli scontri a fuoco tra eserciti, continua a ripercuotersi sulla società anche a distanza di decadi dopo la fine della guerra.
In questo campo sono di poco conforto le statistiche raccolte all’ufficio Unicef di Phnom Penh, le quali notano una diminuzione delle persone che ogni anno incappano nelle mine; e ciò grazie alla mappatura dei terreni effettuata dal Cmag.
E mentre il pick-up sobbalza nelle pozzanghere della strada, osservo la popolazione dei villaggi che coltiva anche le risaie recintate dal fatidico nastro rosso, col rischio di far saltare qualche decagrammo di tritolo.
Lo sminamento, che dovrebbe far seguito alla delimitazione dei terreni, al ritmo attuale durerà decenni: i contadini, già provati dalla guerra, non possono permettersi il lusso di abbandonare le risaie e lasciare l’intera famiglia con lo spettro della fame.
Così rischiano. Quotidianamente.

P.P.

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