Incubo indelebile

Povertà, corruzione, sfruttamento;
classe dirigente contraddittoria e opportunista…
C’è chi rimpiange il regime di Pol Pot.

Ricordo ancora la prima volta che visitai Phnom Penh, verso la metà degli anni ’80: la città contava meno di centomila abitanti, mentre 10 anni prima vi si assiepavano quasi 3 milioni di persone, metà dell’intera popolazione del paese.
Le strade erano deserte, animate solo da rari passanti; i più fortunati arrancavano pedalando su biciclette arrugginite. Il mercato centrale raccoglieva il poco che la nazione potesse offrire: chi vendeva un casco di banane, chi un paio di papaye, chi un copertone d’auto completamente liso; alcuni mettevano in mostra semplici fili di ferro, altri rarissime penne o matite; i più fortunati avevano uno o due chili di riso raggranellati chissà dove.
Il baratto era l’unica forma di commercio accettata; la moneta, introdotta pochi mesi dopo la caduta del regime di Pol Pot, si svalutava di ora in ora e nessuno si sentiva sicuro con quei pezzi di carta che avrebbero potuto trasformarsi in combustibile, come era accaduto il 17 aprile 1975.
Gli edifici della città erano per lo più abbandonati, lasciati all’incuria e alla mercé della vegetazione. Di notte, poi, la capitale era incredibile a vedersi: il buio più completo la avvolgeva; il silenzio, rotto da qualche generatore diesel che alimentava poche fioche luci di lampadine, che variavano continuamente la loro intensità luminosa, contribuiva a creare un’atmosfera irreale.
Lungo le strade deserte le lantee rischiaravano appena i volti di famiglie sedute in circolo a consumare ciò che una giornata di lavoro era riuscita a offrire loro: una manciata di riso, qualche verdura e frutto.
DEMOCRAZIA DEGLI «EX»
Oggi, a 20 anni di distanza, Boulevard Norodom è intasato di macchine e motorini, che strombazzano all’ombra di enormi cartelloni pubblicitari, affiancati da negozi che espongono tutto ciò che il mercato internazionale mette a disposizione.
I bambini, probabilmente figli degli stessi ragazzini che tempo fa avevo visto assaporare con tanto languore pochi chicchi di riso, corrono a piedi nudi sull’asfalto cotto dal sole. I più fortunati leccano un gelato, altri sorseggiano una Mirinda, la Fanta del Sud Est Asiatico. Il mercato centrale, tornato agli antichi splendori, è affollato all’inverosimile.
Si paga in riel: il baratto, almeno qui in città, non è più accettato. Poco distante, i pullman aspettano di riempire gli ultimi posti per poi sfrecciare verso ogni angolo di un paese che, dopo più di tre decenni, non è ancora riuscito a scrollarsi di dosso l’incubo del suo passato: le ferite da questo inferte al popolo sono ancora troppo evidenti e presenti nella vita quotidiana.
La zoppicante democratizzazione della vita politica, iniziata nel 1993 con le elezioni, volute dalle Nazioni Unite e parzialmente fallite per l’opposizione dei khmer rossi, è continuata attraverso altre due consultazioni generali, l’ultima nel giugno scorso: in tutte il leader del Partito del popolo cambogiano, Hun Sen, ha ottenuto schiaccianti vittorie, grazie più alla sfiducia espressa dagli elettori verso i suoi inetti oppositori, che per la fiducia che infonde il premier.
Troppi, infatti, sono i prefissi «ex» che si possono affibbiare alla carriera politica di Hun Sen, perché le sue promesse possano ritenersi attendibili: ex khmer rosso, ex filovietnamita, ex comunista.
Per anni il potere di Hun Sen e la Cambogia stessa non sono crollati solo grazie alla fragile impalcatura di un tacito consenso politico in funzione anti Pol Pot: ai khmer rossi veniva imputato tutto quanto di negativo accadeva nel paese: assassini politici, difficile decollo economico, instabilità, povertà delle campagne, brogli elettorali, burocrazia, inefficienza delle strutture pubbliche, alta percentuale di handicappati fisici e mentali e, dulcis in fundo, il golpe del 1997.
Il dito era immancabilmente puntato verso di loro. «I khmer rossi dominano ancora il paese e le divisioni politiche all’interno del parlamento non fanno che rafforzarli. È ora che la Cambogia abbia un solo leader, capace di far fronte alla barbarie» mi aveva detto Hun Sen subito dopo il putsch del 5 luglio 1997, cercando di giustificare il suo operato. Poi ha aggiunto: «Io ho salvato la Cambogia da un secondo massacro: l’accordo stipulato tra il Funcinpec di Norodom Ranariddh e la dirigenza dei khmer rossi, spianava la strada dalle giungle di Anlong Veng a Phnom Penh per Pol Pot e la sua cricca. Avremmo avuto altri killing fields. Era questo che i cambogiani volevano? Non penso. Ho quindi deciso di agire».
Ma questa facciata di Hun Sen salvatore della patria non regge. Tutti qui ricordano che è stato lui a opporsi energicamente a un eventuale giudizio in tribunale della dirigenza di Kampuchea Democratica; è stato ancora lui a concedere grazia e immunità a Ieng Sary, l’ex ministro degli esteri e «fratello numero tre» di Kampuchea Democratica, cognato di Pol Pot, in cambio di una sottomissione al governo di Phnom Penh.
Oggi Pailin, la regione più ricca della Cambogia grazie alle sue miniere di rubini, è un’entità semiautonoma, amministrata dai transfughi khmer rossi, dove gli emissari governativi non hanno alcun potere. Lì vivono, oltre a Ieng Sary e sua moglie Ieng Thirith, Noun Chea, «fratello numero due» di Kampuchea Democratica, Khieu Samphan e altri dirigenti, scampati alla cattura nel 1998, quando anche l’ultima roccaforte rossa, quella di Anlong Veng, venne occupata dall’esercito governativo.
MORALE DA EX… ROSSI
Mi reco a Pailin, dove riesco a incontrare Ieng Sary. Lui, come tutti i suoi compagni, circola liberamente senza scorta per le vie del villaggio. La gente lo venera, non per paura, ma perché vede in quest’uomo una figura carismatica che vive tra loro, ride con loro, mangia nei loro ristorantini. Insomma, è uno di loro.
Ogni giorno, davanti alla sua casa ci sono numerose persone che chiedono il suo aiuto o il suo consiglio per dirimere contenziosi. La sua parola è legge e tutti l’accettano. «Noi, ex dirigenti di Kampuchea Democratica, ci siamo ritirati da tempo dalla politica. Ci siamo accorti che la nostra politica non si poteva adattare alla società cambogiana, perché gli obiettivi che ci eravamo prefissi a quel tempo erano troppo ambiziosi e noi non potevamo raggiungerli con i mezzi che avevamo. Era solo un sogno, un sogno che non poteva divenire realtà». Quindi, ci si è adattati al nuovo sistema.
La posizione strategica di Pailin, a pochi chilometri dal confine thailandese e il continuo andirivieni di compratori di pietre preziose, hanno indotto Ieng Sary a concedere al magnate cambogiano Theng Bunma di costruire il primo casinò della Cambogia post-khmer rossi, in cambio di una cospicua fetta dei profitti.
Esprimo a Ieng le mie perplessità sulla degradazione morale che locali come questo possono creare nella comunità: per assai molto meno, migliaia di cambogiani erano stati accusati dal suo stesso governo di aver ceduto ai vizi del capitalismo e, per questo, uccisi. Lui capisce e condivide; ma afferma che il casinò servirà per costruire e migliorare le infrastrutture pubbliche della regione.
SFRUTTAMENTO INCONTRASTATO
La decadenza etica della società cambogiana è uno dei problemi principali che chiese e Ong cercano di contrastare. L’arrivo in massa di soldati dell’Onu negli anni ’90, seguiti da agenti di organizzazioni inteazionali e turismo di massa, hanno contribuito ad alimentare l’industria della prostituzione, principalmente infantile.
A Tuol Kork, quartiere periferico di Phnom Penh, ragazze dai 10-12 anni in su, nascoste dietro maschere di trucco, si offrono a chiunque per denaro. La maggioranza viene dalle campagne; altre sono state vendute dalle famiglie; altre ancora provengono dal Vietnam o Laos, attirate dalla promessa di un lavoro decente.
«I khmer rossi hanno creato una nazione in cui corruzione e prostituzione erano virtualmente assenti e questo ha contribuito a creare nei giovani una sorta di mito di purezza che i politici nostrani, con i loro inconcepibili comportamenti, contribuiscono ad alimentare» mi spiega George Ingram, direttore della «Coalizione per l’educazione di base», un’organizzazione formata da sedici Ong statunitensi che lottano per contrastare la diffusione dell’Aids nel paese. Con il 2,8% della popolazione affetta da Hiv, la Cambogia è la nazione del Sud Est Asiatico con la percentuale più alta di sieropositivi.
Ma anche chi riesce a non farsi inghiottire dal racket della prostituzione, non ha vita più facile: da Taiwan, Thailandia, Malesia, Cina, arrivano imprenditori attirati dalla completa mancanza di regole nel campo del lavoro. Nelle fabbriche, soprattutto tessili, si lavora ininterrottamente per 12-14 ore al giorno, per 30 dollari al mese e senza alcun diritto.
Le rappresentanze sindacali, quando esistono, sono messe a tacere con ricatti o con violenza; gli abusi sessuali nei confronti delle donne e dei bambini sono oramai all’ordine del giorno. Sam Rainsy, il politico più anticomunista del parlamento cambogiano e leader dell’omonimo partito, ha avviato una campagna di difesa dei lavoratori e contadini: «Lo sviluppo economico deve andare di pari passo alla giustizia sociale, ma dobbiamo considerare anche i costi sociali e ambientali che dovremmo pagare; abbiamo il dovere di proteggere le nostre risorse naturali e difendere i diritti dei poveri e dei deboli. La Cambogia ha bisogno di investitori stranieri; ma essi devono rispettare i diritti dei lavoratori».
CONTRADDIZIONI E OPPORTUNISMI
Belle parole; ma si scontrano con le difese offerte dallo stesso Rainsy agli imprenditori, quando questi si trovano in conflitto col governo, segno di quanto sia contraddittoria e opportunista la classe politica del paese.
Nella sua campagna elettorale, Rainsy, che dopo aver vissuto 27 anni in Francia è tornato in Cambogia con l’intenzione di trasformare la società seguendo il modello occidentale, ha più volte alimentato l’odio storico esistente tra khmer e viet, usando violente espressioni antivietnamite proprie del vocabolario khmer rosso, come «governo fantoccio del Vietnam»; «strategia dei vietnamiti nel vietnamizzare l’Indocina»… Slogan pericolosi, usati per giustificare mobilitazioni e assalti alle ambasciate del Vietnam o Thailandia, o per incitare veri e propri pogrom contro le etnie minoritarie.
E quando la violenza khmer si scatena, neppure gli appelli del re Sihanouk possono fermarla. Paul Mus, studioso della società cambogiana scriveva: «Si crede che i cambogiani siano miti. Diffidate di questa fama. Conoscete dei miti che hanno costruito qualcosa di altrettanto formidabile di Angkor? Appena le circostanze vi si presenteranno, scoppierà la loro violenza».
Quanta ragione aveva Paul Mus! E allora non è un caso che il personaggio pubblico più longevo del paese sia proprio il più indecifrabile e ambiguo di tutti: re Sihanouk, che oggi occupa il tempo a scrivere canzoni inascoltabili. Anti-tutto e al tempo stesso pro-tutto, Sihanouk è sopravvissuto a se stesso: dopo il fallimento del Sangkum negli anni ’60, è scampato al colpo di stato di Lon Nol, alla furia dei khmer rossi, all’odio dei vietnamiti e di Hun Sen, giungendo sano e salvo al 2004 senza dover rendere conto a nessuno delle sue inconcepibili prese di posizione.
Suo figlio Ranariddh, politico più per raccomandazione che per capacità, non è mai riuscito ad affermarsi sul piano personale, offuscato dalla figura patea nella corte reale e dal rivale Hun Sen in parlamento. Tutte le mosse per conquistarsi una fetta di potere si sono dimostrate disastrose e i suoi sostenitori lo hanno abbandonato in massa.
NOSTALGIE PERICOLOSE
Di fronte a questa disfatta politica, non è una sorpresa giungere ad Anlong Veng e trovare la tomba di Pol Pot coperta da ex-voto e costantemente visitata da cambogiani che rendono omaggio a un leader condannato dall’umanità intera, ma che il suo popolo non ha ancora ricusato.
«Pol Pot è stato un leader esemplare per tutti noi. È vissuto con noi; è morto come noi» mi dice un contadino. Una ragazza lamenta che, con l’arrivo delle autorità di Phnom Penh, le infrastrutture agricole, tanto efficienti sotto i khmer rossi, sono state abbandonate e la regione, una delle più fiorenti della Cambogia prima del 1998, ora sta rapidamente degenerando.
«Ora ci rimangono solo due possibilità – conclude una vedova, madre di quattro figli – trasferirci a Pailin, sotto Ieng Sary, Noun Chea e Khieu Samphan, o andare in Thailandia».•

Piergiorgio Pescali

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