Il sorriso di Angkor
Popolazioni e culture indiane e aborigene si sono fuse pacificamente,
dando origine a una civiltà propria, testimoniata dai monumenti del passato e vivente nelle tradizioni religiose e culturali del presente.
Il piccolo aereo della Air Cambodge vira, cercando di allinearsi alla striscia d’asfalto dell’aeroporto di Siem Reap. All’improvviso, quasi sulla linea dell’orizzonte, tra la folta vegetazione della giungla cambogiana, vedo ergersi le inconfondibili torri di Angkor Wat. Negli anni ’20, il pittore Paul Claudel le aveva paragonate ad ananas. L’artista francese non amò Angkor Wat: lo descrisse come «uno dei luoghi più maledetti e malefici che abbia mai visitato in vita mia».
Io, al contrario, ne sono rimasto affascinato, tanto da volerlo visitare per la quarta volta. E lo debbo confessare: ogni visita inietta in me nuove emozioni e nuovi sentimenti, che si mischiano a reminiscenze storiche che permeano ogni pietra di questo luogo, cuore politico e religioso della Cambogia per oltre 500 anni.
ORIGINI LEGGENDARIE
C’era una volta… il regno di Funan, antico nome dell’attuale Cambogia. Primo re della dinastia, secondo fonti cinesi e cham, fu Kaundinya, un bramino di origine indiana, proveniente dagli arcipelaghi indonesiani o dalla penisola malese. A seguito di un sogno, egli trovò un arco appeso all’albero sacro dedicato al suo dio personale; lo prese e si imbarcò, lasciando che la nave venisse trasportata dai venti mandati dallo spirito divino. Raggiunse la terra Funan, governata da Soma, figlia del re dei Naga, ostile a Kaundinya.
Per nulla intimorito, Kaundinya scoccò una freccia, che si conficcò nel vascello reale: impressionata da tale potenza, la sovrana si arrese e accettò di sposare il nuovo venuto. La stirpe generata da questa unione, oltre a dare inizio alla dinastia funanese, fu considerata come l’origine del popolo cambogiano.
La leggenda ha un fondamento storico, che risale al 357 d.C., quando, come re del Funan, venne incoronato un membro della famiglia Kushan, del clan indiano dei Kanishka. Sembra che si debba a questo nuovo sovrano il rapporto tra il regno di Funan e la cultura indiana, in particolare iranica. L’abbigliamento e le acconciature delle statue del tempo, richiamano evidenti influssi sassanidi e zoroastrici, come, ad esempio, le immagini di Vishnu.
Proseguendo nella leggenda, il regno di Funan, nel vi secolo d.C. fu invaso da popolazioni calate dal medio Mekong, che diedero vita al regno di Chenla. Pur avendo legami con la dinastia indiana funanese, i sovrani del nuovo regno conservarono i propri miti sull’origine del loro popolo, generato dall’unione dell’asceta indiano Kambu, con la ninfa celestiale Mera, legata al culto di Shiva.
I due, oltre a costituire il nucleo del regno di Chenla, furono i capostipiti del nuovo popolo da essi generato: i kambuja, figli di Kambu, da cui vengono fatti risalire sia i khmer, che il nome Kampuchea, Cambogia.
L’IMPERO DEL SERPENTE
Nella penisola indocinese, secondo fonti sanscrite e khmer, nei secoli vi-ix esistevano numerosi regni vassalli di Giava. Alla fine del secolo viii, un principe cambogiano, educato alla corte giavanese, si autoproclamò discendente dei principi Funan e dichiarò l’indipendenza del popolo khmer, diventando re col nome di Jayavarman ii.
In una decina d’anni egli estese il suo dominio verso il nord e, per dare consistenza alla sua dinastia e ottenere il riconoscimento popolare, nell’802 si fece incoronare devaraja (dio-re), secondo la filosofia proveniente dall’India, che voleva i re incarnazioni di dei.
E tali si ritennero i suoi discendenti. Per alimentare tale credenza, il monarca si ritirava ogni notte in una stanza del palazzo reale, per unirsi con un naga, serpente a nove teste, che per l’occasione assumeva le sembianze di leggiadra fanciulla.
Il serpente, che in Oriente simboleggia il ritorno alla natura, è il motivo più ricorrente ad Angkor, sin dalle sue origini, quando Yasovarman i, secondo successore di Jayavarman ii, fondò nell’877 Yashodharapura (città splendente, la nuova capitale del regno. Di questo stanziamento rimangono pochi ruderi del Bakheng, il mausoleo del re, dalla cui sommità lo sguardo può abbracciare l’intera piana sino al Tonlè Sap (Grande Lago).
Sempre da qui ci si rende conto dell’imponenza delle opere agricole, i cosiddetti baray, bacini idrici da cui si diramava la fitta rete di canali d’irrigazione delle risaie, che alimentavano la società angkoriana.
Sulla convenienza o meno di tali sistemi, vi sono due scuole di pensiero: una è propensa a valutare positivamente l’impatto sociale delle monumentali opere; l’altra demitizza l’opulenza della comunità cambogiana dell’epoca, affermando che i costi umani, sacrificati per realizzare e mantenere in attività tali progetti, sarebbero stati spropositati e a beneficio di una ristretta cerchia di privilegiati.
Ma la magnificenza del complesso e il fascino che traspare dalle fredde pietre riescono, almeno per un attimo, a far scordare le immani fatiche e i drammi sopportati da migliaia di persone durante la costruzione.
Abbandonata Yashodharapura, iniziò la vera edificazione di Angkor, sotto la guida di Rajendravarman (944-968), il quale progettò il Phimeanakas (Palazzo delle dee celesti), come residenza reale per la dinastia.
Camminando lungo il corridoio che un tempo attraversava le piscine, dove le ancelle reali si bagnavano, immagino lo splendore del palazzo, al cui centro si ergeva una piramide ricoperta d’oro, sede del naga.
Il cerimoniale all’interno delle sale reali era estremamente sofisticato e ritualizzato nei minimi particolari, secondo quanto è raccontato dal diplomatico cinese Chou Ta-kuan, che visitò Angkor nel 1296. Il monarca, oltre a doversi unire ogni notte con la creatura celeste, possedeva cinque mogli: la principale e altre quattro, a cui erano associati altrettanti punti cardinali. I sacerdoti, a seconda della posizione degli astri, indicavano con quale delle concubine il re si sarebbe dovuto assopire.
Il primo drastico mutamento della società angkoriana, avvenne dopo il 1000, durante il regno di Suryavarman i, quando il buddismo iniziò a espandersi, accettato senza problemi dalla corte, che ne assimilò anche le influenze artistiche.
Sotto la guida di Suryavarman i, il regno fu esteso al Laos e Thailandia, ma alla sua morte, nel 1050, l’impero si disgregò e la capitale fu occupata dai cham provenienti dall’attuale Vietnam.
Passarono 80 anni prima che un nuovo re khmer si installasse ancora ad Angkor, nel 1131: e la Cambogia iniziò a conoscere l’era più gloriosa della sua storia.
IL MISTERO DI ANGKOR WAT
Nei suoi diciannove anni di regno, Suryavarman ii costruì il più famoso monumento del Sud Est Asiatico: l’Angkor Wat (tempio della capitale, da angkor=capitale e wat=tempio).
Sebbene non tutti i misteri di questo complesso siano stati svelati (ad esempio, l’orientamento verso ovest farebbe supporre che sia stato concepito come edificio funerario), gli archeologi ne hanno in gran parte decifrato il significato simbolico.
Coprire il tragitto dall’esterno verso l’interno significa ripercorrere la cosmologia hindu, sulle cui dottrine l’edificio è stato progettato e costruito. I naga mi accompagnano lungo il ponte che permette di avvicinarsi al tempio propriamente detto, ricostruzione allegorica dell’arcobaleno che congiunge i cieli e la terra. Attraverso l’oceano cosmico, rappresentato dal fossato che circonda il complesso religioso, si approda sui lidi terrestri, le gallerie che immettono nel recinto interno.
Gli altorilievi che abbelliscono l’intero perimetro dell’arcata, descrivono scene del Mahabharata, l’epopea indiana. Tra di essi famosissima è la parte che illustra il Mescolamento dell’Oceano, con gli dei da una parte e i demoni dall’altra, nel tentativo di rimestare le acque lattiginose, usando il Monte Meru come mestolo e Sesha, il serpente, come corda. Vishnu, il dio creatore a cui il costruttore di Angkor Wat ha originariamente dedicato il tempio, dirige tutta l’operazione al centro del rilievo.
La planimetria stessa di Angkor Wat riproduce il risultato di questa immane fatica. Addentrandomi ancora lungo il ponte celeste, giungo finalmente al tempio propriamente detto: qui alcuni gradini ricordano che il raggiungimento della liberazione e della pace eterna non è né lineare né semplice. Inoltre la stanchezza, sia fisica che mentale, aumenta più ci si avvicina alla meta: i gradini si fanno più fitti e le salite irte, tanto da doversi aiutare con le mani, nel tentativo di raggiungere la vetta del Monte Meru, dimora del pantheon hindu.
Questa, rappresentata dalla torre centrale del complesso (l’ananas di Paul Claudel), ospita il sancta sanctorum di tutto l’edificio e, attorno, altre quattro torri emulano i picchi del monte, abitati da dei minori.
Nato come tempio hinduista, in fase di cambiamento religioso, Angkor Wat si è in seguito trasformato in monastero buddista, abitato ininterrottamente sino a oggi. Ciò ha permesso di mantenere l’intera struttura in ottimo stato, a differenza degli altri monumenti dell’area, anche più recenti, abbandonati dopo la caduta del regno nel xv secolo.
SPLENDORE DI UN IMPERO
Alla morte del grande Suryavarman ii (1177), una seconda invasione di cham saccheggiò la capitale, presto ricacciati dal nuovo re khmer, Jayavarman vii, ex monaco buddista. In 37 anni (1181-1218) egli estese il suo regno sul Vietnam centrale e le regioni del Laos, Thailandia, Birmania; con la costruzione di Angkor Thom, la Grande Capitale, l’opera più imponente dell’intera storia cambogiana, impresse al suo impero il massimo splendore.
Edificata secondo i canoni classici della mitologia hindu, già visti ad Angkor Wat, la città è inclusa in un quadrato di tre chilometri di lato e protetta da poderose mura con quattro porte d’accesso. Il fossato attorno ai bastioni, largo fino a cento metri e popolato da coccodrilli, la rendeva pressoché imprendibile.
Sebbene in parte diroccate, la vista di queste mura è ancor oggi impressionante: passeggiando per i viali, non posso fare a meno di immaginare quale splendida città potesse essere Angkor Thom, con i suoi giardini, palazzi, canali, piscine all’aperto, ma soprattutto i templi, anzi il tempio per eccellenza: il Bayon.
Posto al centro geografico della capitale – e quindi dell’impero – il Bayon racchiude la nuova concezione religiosa, introdotta da Jayavarman vii: egli rimpiazza il culto di Shiva e Vishnu col buddismo Mahayana, forse per sfiducia nei confronti delle prime due divinità, che non erano riuscite a proteggere i khmer dall’invasione vietnamita.
Ogni volta che visito il Bayon, mi assale un senso di inquietudine, di agitazione mentale. Girovagando tra i ruderi, sorvegliato attentamente da decine di sguardi di un volto sempre uguale, non posso non ricordare le angoscianti frasi di Pierre Loti, il pittore che nel 1912, dopo aver visto il luogo, scrisse: «Tutto a un tratto il mio sangue raggelò appena vidi un enorme sorriso guardarmi verso il basso. E poi un altro sorriso su un altro muro, poi tre, poi cinque, poi dieci… apparivano in ogni direzione».
«Sorriso di Angkor», così è stato chiamato questo enigmatico atteggiamento divenuto simbolo, assieme alle torri di Angkor Wat, dell’intero sito archeologico. Secondo l’interpretazione più accettata, sarebbe raffigurato il volto di Jayavarman stesso, rappresentato in veste di bodhisattva, il fedele buddista che, raggiunta l’illuminazione, decide di reincarnarsi per salvare l’umanità.
RIVINCITA DELLA NATURA
Stretta fra il regno thai a ovest e quello cham a est, l’impero khmer cercò di barcamenarsi tra le due potenze; ma nel 1431 l’avanzata dei thai costrinse il re Ponhea Yat e la sua corte a rifugiarsi verso oriente e stabilirsi a Phnom Penh, in attesa di un’ennesima rivincita.
Ma la dinastia khmer non ebbe più alcun Jayavarman vii e il regno, ridotto all’osso, rimase alternativamente sotto la tutela thailandese e vietnamita per 400 anni, finché re Norodom firmò un trattato di protettorato con la Francia (1864) e la Cambogia fu inglobata nella regione indocinese insieme a Laos e Vietnam.
Saccheggi e abbandono sprofondarono Angkor nell’oblio della memoria, aiutata dalla voracità della giungla tropicale, che in pochi anni ricoprì i favolosi monumenti, compresi i monasteri (eccetto quello di Angkor Wat), che ospitavano migliaia di monaci buddisti.
Il più famoso è il Ta Phrom, costruito nel 1186 in piena giungla, a tre chilometri dalla capitale: la fitta vegetazione si è ripresa la rivincita sulle aride pietre, avviluppando con le forti radici ogni anfratto e spiraglio della costruzione, sino a divenire un tuttuno con la laterite. La simbiosi è giunta a un punto tale che la morte della pianta determinerebbe la disgregazione del monumento.
Molti descrivono l’atmosfera che si respira al Ta Phrom ricordando Indiana Jones; io preferisco ricordare la frase che mi ha rivolto un giovane monaco, seduto su una radice che si diramava incuneandosi tra le crepe di una parete: «L’uomo distrugge la natura, pensando di costruire cose etee; ma se venisse qui, al Ta Phrom, imparerebbe che agendo in questo modo distrugge ciò che lui stesso ha costruito». •
Piergiorgio Pescali