Il processo può attendere

N ell’intervista concessami nel dicembre 1997, l’ultima rilasciata a un giornalista, Pol Pot mi confidò di voler essere ricordato «come un uomo giusto e onesto; un uomo che ha lottato sino all’ultimo per difendere la Cambogia dalla distruzione ad opera dei vietnamiti».
Queste parole mi tornano in mente quando, quest’anno, in una Cambogia devastata da corruzione, violenza, povertà e miseria morale, ho visitato la tomba in cui furono tumulate le sue ceneri. Non ho faticato a trovarla: ogni giorno piccole folle di pellegrini si radunano attorno al luogo di sepoltura, lasciando piccole offerte ed ex voto. Prima di andarsene, tutti fanno il sompieh, saluto a mani giunte chinando la testa fino a toccare terra.
Mentre in tutto il mondo il nome di Pol Pot è associato a massacri di massa, i nuovi politici cambogiani sono riusciti, con la loro inefficienza e inettitudine, a creare attorno a Pol Pot e ai khmer rossi un alone di benevolenza, trasformatasi in una sorta di santificazione.
«I khmer rossi, e Pol Pot in particolare, sono visti come esempio di onestà e, paradossalmente, di giustizia: Pol Pot non si è arricchito ed è morto in povertà, come gli stessi sudditi che trucidava» mi dice David P. Chandler, il più insigne studioso della figura del leader khmer e autore di Brother Number One: A Political Biography of Pol Pot.
La maggioranza dei cambogiani è nata dopo il crollo del regime di Pol Pot e non conosce gli orrori da lui perpetrati, perché chi li ha subiti, genitori o nonni, ne sono ancora talmente scioccati che si rifiutano di parlarne. Ma sentono affermare, da chi ha vissuto e visitato le aree controllate dal movimento dopo gli anni ’80, che la qualità della vita e le strutture agricole erano migliori di quelle che trovano nella Cambogia attuale, governata da un altro ex khmer rosso: Hun Sen.

L a morte di Pol Pot (1998) ha inferto un colpo forse mortale a chi si batte affinché si istituisca un tribunale internazionale che giudichi i crimini commessi dai khmer rossi.
Ma sono in molti, a Phnom Penh e nel mondo politico internazionale, a rallegrarsene in segreto. L’inchiesta che ne seguirebbe porterebbe a svelare gravi responsabilità di quegli stessi elementi che oggi sbraitano contro le colpe commesse tra il 1975 e il 1979. Primi tra tutti Hun Sen e Chea Sim che, dopo essere convolati tra le braccia del Vietnam, oggi spadroneggiano e tiranneggiano il paese.
Ma la stessa famiglia reale è coinvolta nell’opera di Pol Pot: Sihanouk è stato capo di stato di Kampuchea Democratica e ne ha difeso all’Onu il seggio, all’indomani dell’invasione vietnamita, mentre suo figlio Ranariddh ha tessuto legami con la dirigenza guerrigliera.
Inoltre, che dire della Francia, il cui colonialismo si è dimostrato ottimo fertilizzante per la nascente guerriglia, o degli Usa, la cui ottusa politica, culminata con il colpo di stato di Lon Nol (1970), ha spianato la strada al potere dei khmer rossi?
E poi la Thailandia, da sempre principale sostenitrice finanziaria di Pol Pot, la Cina, foitrice di armi, la Gran Bretagna, che ha spedito i suoi soldati ad addestrare la guerriglia cambogiana, completano solo la parte più evidente della rosa di complicità, che un processo equo e giusto ai danni dei khmer rossi dovrebbe coinvolgere.
Non è certo un caso che quasi tutto quanto è stato scritto sui khmer rossi è frutto di conoscenza superficiale della situazione storica indocinese, così come ciò che è stato scritto di Pol Pot è spesso irriflessivo e avventato, come i parallelismi con Hitler e Stalin.
«Per capire l’uomo e quello che è accaduto in Kampuchea Democratica è cruciale recuperare il contesto cambogiano e le influenze che ha avuto dall’esterno. Tutti noi ci dobbiamo mettere in discussione» afferma David P. Chandler. Ma abbiamo il coraggio di farlo?

P.P.

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