Gesù subisce violenza, e non solo
perché viene crocifisso. Per esempio: riceve uno schiaffo dal servo del sommo sacerdote. Però non ritorce il gesto
e neppure presenta l’altra guancia,
ma chiede ragione dell’ingiusta
offesa subita (cfr. Gv 18,22-23).
Un comportamento emblematico
di nonviolenza del figlio di Dio.
C’é dio e… dio
La bibbia è parola di Dio, ma con espressioni umane. Il messaggio di salvezza ci giunge attraverso immagini prodotte da uomini e donne, secondo vari contesti storico-culturali. Pertanto, anche nella bibbia, è necessario distinguere «Dio» dalle «immagini su Dio», perché il Signore è sempre altro e non può essere ritratto da alcuna raffigurazione.
Noi conosciamo Dio attraverso le esperienze che altri ci hanno trasmesso: Mosè, Davide, i profeti, gli apostoli… Si pone, allora, il problema dell’autenticità e della verità delle immagini: in quale misura esse esprimano la vera identità di Dio. Il problema si fa cruciale quando la bibbia (specie l’Antico Testamento) presenta un «dio violento».
L’Eteo appare come il Giano bifronte, avvolto in un mysterium tremendum: dona la vita ad alcuni (popolo d’Israele) causando la morte ad altri (egiziani); offre la terra a Israele strappandola ai cananei; salva il popolo d’Israele a spese di altre genti… Però queste violenze non sono opera di Dio, ma gli sono attribuite da uomini violenti in situazioni violente.
L’immagine di un «dio guerriero» risponde, in fondo, all’intimo bisogno dell’uomo che sulla terra si faccia finalmente giustizia. Quindi, per una causa giusta, non si esita a giustificare la violenza anche da parte di Dio e del suo popolo eletto.
Questa visione è superata da Gesù Cristo. Le pagine dell’Antico Testamento, che presentano Dio come amore e misericordia, trovano pieno compimento nella rivelazione di Gesù, immagine del Dio vivente (cfr. Col 1,15): un Dio che preferisce gli ultimi, i poveri, gli oppressi, i peccatori; un Dio che ricostruisce le persone dal di dentro e le reintegra nella società; un Dio che non usa violenza, mai e con nessuno. Anzi, egli stesso ne è vittima.
Alla luce della morte di Gesù (l’innocente) e della sua risurrezione, si intende meglio il senso della passione del giusto: egli accetta su di sé le sofferenze degli altri; non annienta i suoi carnefici, ma li perdona; abbatte con il suo martirio il muro che divide i popoli, per fare di tutti una sola nuova famiglia (cfr. Ef 2,14). Pertanto si inaugura un nuovo stile di vita; si rifiuta la violenza come mezzo per risolvere i conflitti.
Il giudizio finale e universale, impostato su «avevo fame e mi avete dato da mangiare» ecc. (cfr. Mt 25, 35-40), è molto più di un’esortazione morale. L’identificazione di Gesù con i poveri impone alla chiesa una scelta preferenziale per essi (cfr. Giovanni Paolo ii, Novo millennio ineunte, 49).
Da qui scaturiscono alcune direttrici per il comportamento del cristiano:
– essere persone mosse dal Creator Spiritus, che costruiscono e portano ovunque immagini positive di Dio, amore-grazia-pace-misericordia, che rifiuta la violenza;
– essere chiesa-comunità più povera e libera, senza troppi appoggi ufficiali, senza cedere agli integralismi;
– resistere alle attrazioni distruttive, all’inganno delle soluzioni sbrigative, inservibili per la pace.
La vera immagine
Gesù Cristo rivela l’immagine vera e definitiva di Dio. Dio è proprio come Gesù ce lo mostra. Gesù è la guida che conduce a Dio. Fidarsi di Gesù è garanzia di verità, autenticità e identità su Dio, prima ancora di essere impegno morale di sequela.
In Gesù, con il quale i cristiani si identificano, l’ideale e la prassi della nonviolenza assumono una solida consistenza. In tal modo si supera il rischio di fermarsi solo ad un programma, sia pur generoso, per seguire una persona.
Gesù è un facitore nonviolento di pace, oltre che un ispiratore di nonviolenza. Il regno di Dio in bocca a Gesù è nonviolento. Il «siate perfetti» di Matteo (5,48), comprensibile all’ambiente giudaico, viene espresso da Luca con «siate misericordiosi» (6,36), in termini più universali di benevolenza e gratuità.
La shalom di Gesù è radicata nella bibbia, soprattutto nell’identificazione tra giustizia e pace, sorelle gemelle. La prassi di Gesù rivela l’agire di Dio: un agire misericordioso verso i peccatori e gli infelici, che tende continuamente a ristabilire il diritto di giustizia e che è forza liberante (non spiritualista) degli oppressi e diseredati.
Gesù è lontano dal messianismo degli esseni di Qumran, suoi contemporanei. Questi, insieme all’assoluta purezza interiore, propugnavano la condanna del peccatore e teorizzavano sulla guerra santa. Invece Gesù, oltre alla beatitudine della pace, offre la sua «pace», diversa da altre: il suo programma coniuga la gloria di Dio e la pace in terra.
Ecco alcune prospettive per un’azione globale di pace e nonviolenza:
– più consistente deve essere la riflessione nella teologia, spiritualità e pastorale, nelle pubblicazioni, nei circoli di studio e nelle assemblee;
– la nonviolenza diventi spiritualità incarnata, aderente alla storia, senza evadere dai problemi veri;
– pace e nonviolenza sono frutti che maturano nel tempo; la loro acquisizione è un lento cammino verso le sorti dell’umanità (cfr. Giovanni Paolo ii, Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2004);
– bisogna riscoprire la Pacem in terris di Giovanni xxiii (1963), che definì la guerra «alienum a ratione». «La guerra è roba da matti» disse il compianto vescovo Tonino Bello.
Oltre a predicare la nonviolenza, come ha chiesto Giovanni Paolo ii nell’Angelus del 30-11-03, vi sono scelte operative quotidiane, quali: il consumo critico, la banca etica, l’adesione alle campagne e dichiarazioni a favore di pace e nonviolenza.
Fondamenti storici e culturali
«La verità e nonviolenza sono antiche come le montagne» (Gandhi), ma è altrettanto vero che la violenza è la regina della storia. Tuttavia la gente continua a lavorare e soffrire per la pace. La speranza della nonviolenza risiede nel popolo.
I modelli di nonviolenza sono tanti e ricchi. Accanto a personaggi e avvenimenti celebri (Martin Luther King, Nelson Mandela, la resistenza nelle Filippine nel 1986, il crollo del muro di Berlino nel 1989, ecc.), vi sono altri casi significativi, anche se meno noti: casi di non collaborazione, disubbidienza civile, obiezione di coscienza, disarmo.
La nonviolenza è una galassia, un ecosistema. È interessante esplorae i fondamenti culturali e antropologici:
– trovare in se stessi qualcosa che ci fa sentire vicini all’altro;
– applicare la regola d’oro (di tutte le religioni): «Fai agli altri ciò che vuoi sia fatto a te» e «non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te»;
– uccidere è la ragione della guerra e «non uccidere» (presente in tutti i codici dei popoli) è il motivo della non guerra;
– prendere e far prendere coscienza che «uccidere» va contro il Creatore, che è l’atto più irreligioso; per la guerra vale «mors tua vita mea», per la pace conta «vita tua vita mea»;
– «non uccidere e non lasciare uccidere» era già un insegnamento di Budda; se è il sistema che porta alla distruzione, è necessario fermarlo;
– capire il senso e il limite del potere, di qualunque potere, per evitare che, «scambiando il mondo per un chiodo da battere» (F. W. Nietzsche), si compiano violenze fisiche, economiche, culturali, religiose;
– il potere legittimo, nato dal voto, non è matematicamente sinonimo di democrazia; questa è tale solo se favorisce la circolazione di idee e valori per la ricerca del bene comune (Amartya Sen, premio Nobel per l’economia);
– essere testimoni di un monoteismo garante di convivialità fra tutti i popoli; il mistero di Dio è così sfaccettato che nessuna religione può esaurirlo; tutte le religioni si completano a vicenda (possono scambiarsi doni) nella comprensione dell’unico Dio; allora nasce una visione tollerante verso le religioni quali vie a Dio, senza però cadere nel relativismo secondo il quale una religione vale l’altra;
– vincere l’intransigenza religiosa, per cui si vorrebbe far scendere il fuoco dal cielo o strappare subito la zizzania (cfr. Lc 9,54; Mt 13,28);
– opporsi alla rassegnazione di chi considera la guerra come un male inevitabile, essendo parte del sistema.
«Tra mezzi e fine esiste lo stesso rapporto che c’è fra seme e albero: non ci si può aspettare frutti buoni se si semina violenza» (Gandhi). La pace si costruisce con mezzi pacifici.
trasformare i conflitti
Alla base dei comportamenti violenti c’è un «nemico» in ciascuno di noi: pregiudizio, rifiuto degli altri, odio. In ognuno c’è aggressività dovuta pure a stress, corse, orari. Basta poco per «saltare» in famiglia, sul lavoro, nel traffico.
Emerge il nocciolo fondamentale: non c’è pace estea senza quella intea, se il cuore non è in pace. E non ci sarà pace senza il coinvolgimento personale nei valori dell’accoglienza verso tutti, del perdono e della riconciliazione.
Tuttavia l’amore ai nemici è alieno da sentimentalismi; può convivere con l’indignazione, il dispiacere, la preghiera. È pure necessario distinguere fra «ricordare» e «odiare»: non si ha un potere assoluto sulla memoria, mentre si può controllare gli atti di volontà. È possibile ricordare senza odio.
I conflitti si possono trasformare in opportunità di vita. Il conflitto non è sinonimo di guerra, né di violenza. I conflitti vanno guidati, tenendo presente che le vittime della violenza strutturale sono più numerose di quelle della violenza fisica (il rapporto è di 24 a 1).
È possibile intervenire sul conflitto, prima che degeneri in violenza, grazie a metodi di prevenzione e progetti socioculturali; durante il conflitto, operare con forze nonviolente, per ridurre i mali; dopo il conflitto, favorire la riconciliazione e costruzione (vedi i casi di Sudafrica, Mozambico, Perú, Rwanda, Guatemala, Argentina, ecc.).
La nonviolenza è un processo di liberazione interiore da complessi e paure sia negli oppressi sia negli oppressori. In tale processo è fondamentale la comunicazione tra gli uni e gli altri, come pure tra questi due gruppi e le «parti estee» al conflitto, dentro o fuori del paese. Però occorre che non intervengano strumentalizzazioni.
La riconciliazione è un processo a tappe, quali: accertamento della verità dei fatti, pentimento, confessione, perdono, pena, pietà. Molto opportunamente Giovanni Paolo ii, nella Giornata missionaria mondiale del 2002, ha rilanciato il perdono.
Il processo di pace, nonviolenza e riconciliazione ottiene i migliori risultati quando si comincia dal basso, dagli enti locali, che sono più disponibili, meno condizionati. «Ogni popolo guardi il dolore dell’altro – disse nel 2003 il cardinale Carlo M. Martini – e sarà pace».
Per i missionari e le loro comunità emergono compiti esigenti:
– essere attivi nelle scuole di nonviolenza per formare le coscienze;
– operare coraggiosamente la riconversione economica degli stili di vita, assumendo stili alternativi;
– vivere la missione come scambio di doni alla pari, grazie all’interculturalità, della quale i missionari hanno una particolare esperienza.
spiritualità della nonviolenza
È significativa la testimonianza di Gandhi, un laico che ha saputo coniugare spiritualità e politica in modo sistematico e durevole, dando un notevole contributo alla riforma della spiritualità in genere.
Anche Gesù (un altro laico!) opera un rinnovamento della vita religiosa: la sua legge consiste nell’amare i nemici (cfr. Mt 5), fino al perdono dalla croce. Gesù conferisce pure un valore comunitario ai precetti della legge, che di norma erano vissuti a livello individuale, quasi spiritualista, senza incidenza pubblica. Invece Gesù «sobilla il popolo» (cfr. Lc 23,2) e per questo viene ucciso.
La nonviolenza, di cui Gesù è un modello e maestro, non è una nuova religione, ma è previa a tutti i credo religiosi, perché si riferisce ad un patrimonio comune: la fratellanza universale, spesso però minacciata e distrutta da violenze e guerre. Se le religioni non si ritrovano su questa «spiritualità», non hanno alcun servizio da rendere all’umanità.
La spiritualità della pace nonviolenta deve fronteggiare alcune sfide:
– affrontare la vita politica ed economica valutando con cura le mediazioni, ma senza transigere sui valori morali;
– dare la preminenza alle relazioni interpersonali, basate su solidarietà, fratellanza ed empatia, preferendole alle tattiche furbesche dei politici;
– non fermarsi alla conversione individuale, ma puntare alla conversione delle strutture di peccato (cfr. Giovanni Paolo ii, Sollicitudo rei socialis, 1987);
– la critica all’attuale modello di società è legittima e doverosa.
Un altro mondo è possibile. Anzi, solo un altro mondo è possibile, di fronte (per esempio) al pericolo dell’inquinamento globale.
E che dire delle armi di distruzione di massa? Giovanni Paolo ii, per contrastare guerre e armi, convoca tutte le religioni a scegliere sempre e solo la pace: non ci deve più essere guerra. Se ogni religione (ciascuna con i suoi seguaci), attingendo al pozzo comune della frateità, è per la pace, la guerra è sconfitta.
Il no alla corsa armamentistica per il cristiano non ammette alternative o concessioni; deve essere totale e risoluto. È immorale (perché contro la vita) che si spendano ogni anno 1.000 miliardi di euro (400 miliardi negli Stati Uniti) per armamenti, destinati ad uccidere, mentre i diritti di 5 miliardi di poveri passano in secondo ordine. Il no alla produzione di armi è una scelta per la vita, in nome del vangelo.
E non basta sapere. È indispensabile l’invocazione dello Spirito di sapienza. Gandhi parlava di «forza attiva della verità».
Per un cristiano la spiritualità della nonviolenza è per fede trinitaria. Padre-Figlio-Spirito Santo sono in comunione perfetta. Sono sorgente e modello di vita, donata a tutti e in abbondanza (cfr. Gv 10, 10).
L’articolo rielabora la sintesi conclusiva di padre Romeo Ballan, comboniano, del Convegno «Spiritualità e prassi della nonviolenza: linee e sfide per l’animazione missionaria in Italia».
Il Convegno, organizzato dal Suam (Segretariato unitario di animazione missionaria in Italia), si svolse a Pacognano (NA) il 3-7 febbraio 2004.
Segretario nazionale del Suam è padre Gottardo Pasqualetti, missionario della Consolata.
Francesco Beardi