All’ombra dei faraoni

Fuori dai grandi circuiti turistici,
la vita di gente semplice e povera.
Sempre in bilico
tra rivalità religiose,
sforzo di accoglienza e qualche… dispetto.

D opo giorni roventi e afosi, ha piovuto. Una bufera di vento, seguita da enormi goccioloni, presto assorbiti dalla terra. Oggi il cielo è rosato e il mare blu. Una brezza leggera s’infila nei vicoli, dove nessuno si è mai curato di rimuovere mucchi di rifiuti.
Siamo a El Quseir, porto abbandonato sul mar Rosso, da dove solevano partire i pellegrini per La Mecca. Restano le barche in secca e qualche bell’edificio in stile arabo-turco sul lungomare. Un signore svedese si è invaghito di questo posto e vi ha fondato un centro per scambi culturali tra insegnanti.
due santini
Incontro Peter e Alex, due giovani svedesi che stanno finendo il loro stage di sei mesi, entusiasti dell’esperienza, anche se ammettono di avere trovato qualche difficoltà di ambientamento. L’unica ragazza è già ritornata a casa, non ce la faceva più.
Per arrivare quaggiù, dal Cairo, ci sono volute quasi dieci ore di pullman, comprese le fermate: la prima, dopo Suez, lungo la costa arida e vuota; la seconda, per il cambio autista, a Hurghada. Siamo arrivati che era buio, dopo le dieci, ma chi continuava il viaggio fino in Sudan sarebbe giunto alle cinque del mattino.
Sono passata da Teresa, per salutare la famiglia. Il marito era in un angolo, accovacciato sulla sedia. Una gran febbre (forse la polio), da bambino, lo ha lasciato handicappato; ora si sposta solo con una moto speciale, datagli dallo stato. Così può anche andare a lavorare all’ufficio postale; ma oggi è a casa. Una stanzetta sul vicolo, dove parcheggia la moto, e altre due sul retro, tutte dipinte in un bel colore azzurro, per la moglie e due bambine.
Per sposarsi, Edel era andato a Esna, vicino a Luxor, dove c’è una comunità cristiana. Ha trovato Teresa, una ragazza povera, ma bella e molto dolce. Le bambine sono sagge, per la loro età. Marsa e Mariam mi mostrano le immagini incoiciate della Vergine e santa Barbara. Poi Edel mi regala due santini: la Madonna e san Giorgio, che qui chiamano Mar Girgis e venerano molto. Giù nel vicolo ci sono le botteghe del sarto e del ciabattino. Sono tutti cristiani copti. Loro lavorano fino a sera tardi, mentre il resto del paese bighellona tra fumerie e caffè.
La fabbrica italiana di fosfati è chiusa e gli italiani se ne sono andati da molti anni. Restano le case per i tecnici sul lungomare e il complesso di palazzine e capannoni, con la chiesetta. Tutto del 1920, in stile italiano dell’epoca. I camion arrugginiti e il piazzale vuoto mettono malinconia, ma la chiesa è stata ceduta a due abuna copti, che vivono nella casa accanto, con le loro famiglie.
In tutto ci saranno una trentina di famiglie copte in paese, che hanno ottimi rapporti con il resto della comunità. Le tensioni del Cairo e delle città sul Nilo qui sembrano smorzate dalla brezza del mare. Un mare bellissimo, ricco di pesci e meraviglie, ma che rischia di venire sfruttato: tra qualche mese si aprirà un nuovo aeroporto e, forse, questa cittadina perderà l’atmosfera antica.
seduzione… occidentale
Il padre di Nasser, El Sudany, lavorava nella miniera di fosfati. Beduino del Sinai, anche se il nome tradisce un’origine sudanese, ora deve fare molti chilometri per raggiungere l’impianto di Safaga, l’unico ancora in funzione. Nasser, invece, fa il guardiano alla centrale, ma stasera ci ha invitato a casa sua: la moglie preparerà il pesce.
Il matrimonio è stato combinato dalle famiglie, come d’uso, ma Nasser è inquieto e vorrebbe cambiare stile di vita. Lo stato gli ha dato in affitto un appartamento in periferia e lui l’ha arredato con mobili vistosi e lucidi, comprati con i soldi di due stagioni da tassista a Hurghada.
La moglie dovrebbe essere felice, con le due belle bambine, visto il relativo benessere della famigliola. Ma Nasser non è più lo stesso, da quando ha visto la vita degli occidentali. «Le russe sono bellissime», mi dice; ma poi aggiunge: «Hanno uomini mafiosi, sono gelide, cattive». E preferisce gli italiani e, appena può, scende in paese a cercarli.
Lasciamo il mar Rosso con Nasser che, per accompagnarci, si è fatto prestare un’auto quasi nuova. A Safaga ci uniamo al convoglio scortato dalla polizia e andiamo veloci, attraverso le montagne e il deserto.
Prima di Qena, si scatena il finimondo. I grossi pullman pieni di turisti fanno a gara per arrivare primi, superandosi con manovre rischiose, a più di 100 all’ora, senza rispettare le distanze. Questa, per loro, è la gita a Luxor, un breve intervallo culturale durante la vacanza. Molti gli italiani, francesi, tedeschi e russi. Ho notato che le donne sono spesso vestite in modo indecente, con calzoni corti e maglie scollate. Mi pare offensivo e pericoloso, in un paese islamico tradizionalista. Un motivo in più per farsi odiare.
La città di Luxor (antica Tebe, capitale dell’Alto Egitto), con i suoi templi e necropoli, non ha perso il suo fascino, nonostante il turismo di massa. I turisti sono sulle navi da crociera e pochi si avventurano nelle sue strade, piene di vita. La casa di Schiapparelli, il famoso archeologo italiano autore di importanti scoperte, è ora affidata alle suore francescane del Cuore immacolato di Maria. Sono egiziane e alcune di loro giovanissime.
Suor Carmelita è qui da 14 anni, ma è originaria di Malta. Oggi è molto arrabbiata, ma non vuole assolutamente che lo scriva. «La polizia segreta lo verrebbe a sapere e noi passeremmo dei guai. Controllano tutto, chi va e chi viene. Non possiamo fare nulla, neppure dare il bianco in cortile, senza il loro permesso» dice indignata.
Le suore gestiscono una scuola, un dispensario e un piccolo orfanotrofio, dove vengono curati gli orfani dei villaggi cattolici. Ma anche quello è meglio non dirlo. «I villaggi cattolici, sparsi nelle campagne intorno a Luxor, sono molto poveri. Nostro compito è quello di aiutarli a non perdere la fede».
Quello che la scandalizza è lo stile di vita dei musulmani. «Appena hanno due soldi, fanno gli schiavisti: prendono un poveraccio – qui se ne trovano sempre di disgraziati – lo fanno lavorare come una bestia e loro si siedono a far niente!».
una «calda» atmosfera
Accanto alle suore, la chiesa e la casa dei padri. Due i frati, un anziano italiano e l’egiziano padre Cyrillus: un viso da faraone con barba e occhi vivaci dietro le lenti spesse.
Per tanti anni Cyrillus ha vissuto ad Assyut, una città più a nord, sul Nilo, dove c’è una chiesa bellissima e un vescovo che porta il suo stesso nome. Ma è impossibile andarci: la polizia non permette agli stranieri di viaggiare fuori Luxor, eccetto che con un convoglio scortato. Ci sono stati disordini e uccisioni di cristiani, ma Cyrillus minimizza. «Ho sempre avuto un ottimo rapporto con musulmani e polizia. Bisogna fare le cose alla luce del sole. Chiedo, spiego i lavori che intendo fare e loro me lo permettono. Anzi, sono contenti. Noi lavoriamo per la popolazione».
Anche coi copti le cose vanno bene; anzi, sono proprio le suorine copte del monastero di san Taddeo che preparano e ricamano le tonache al padre francescano.
Accompagno padre Cyrillus nel deserto, in un pomeriggio rovente: il termometro supera i 38°. Attraversiamo il nuovo ponte sul Nilo. Il paesaggio è stupendo: i campi rigogliosi sono bordati da palmeti e le fattorie sembrano castelli di fango.
Lasciamo la strada asfaltata che conduce a Medinet Habu, il tempio di Ramses iii, e troviamo con qualche difficoltà la pista che conduce alla bassa costruzione di fango, oata da numerose, piccole cupole.
L’interno del monastero richiama la struttura di un’antica moschea: il cortile è circondato da celle a cupola; la chiesa è un labirinto di archi bassi come tende beduine; i tappeti logori e polverosi sul pavimento di pietra. Suor Anastasia ci apre il portone e madre Eufemia ci accoglie con grandi sorrisi. Hanno abito, tonaca e copricapo neri, col velo che incoicia il volto, stretto al mento. Luce e aria provengono da fori al centro delle cupole; il caldo sfinisce e, nell’attesa, ci viene offerta l’acqua del pozzo, nelle anfore di coccio, fresche e umide. Il padre scherza e l’atmosfera è serena. Non sento la tensione che pare vi sia tra ortodossi e cattolici.
Emil, il tassinaro
La moglie è mancata da pochi mesi e lui si occupa delle bambine. Sono tre, molto carine, bene educate e si chiamano Maryam, Mariana e Madonna. Quest’ultima ha un sorriso grande più di lei, che ha solo 10 anni. Gli occhi sgranati della mamma, quasi spaventati, mi guardano da una foto grande, appesa alla parete del piccolo soggiorno della loro casa, nel centro di Luxor. La povera donna soffriva da alcuni anni, ma solo da pochi mesi avevano scoperto il tumore allo stomaco che l’ha stroncata. Emil è rimasto solo e in casa ha pure mamma e suocera anziane da accudire. Ma è un uomo in gamba, si è fatto tutto da solo. Da niente, ora ha due pullman e tre taxi. I rapporti con la polizia sono ottimi e si fa stimare da tutti.
Emil è cattolico, ma in chiesa nessuno l’ha mai visto. Ci andava sua moglie alla messa, regolarmente, e ci portava le bambine. «Una donna molto pia», mi aveva detto padre Cyrillus. Questa sera sono invitata a cena e le ragazze mi circondano e premono con le loro domande ingenue. Studiano l’inglese, ma è chiaro che non hanno mai fatto una vera conversazione. Il pollo è buonissimo e l’insalata pure; così pure le banane, mature e dolcissime.
Passiamo nella stanza di famiglia, anch’essa decorata con tante foto del padrone di casa. Qui incontro il professore che dà ripetizioni di inglese alle ragazze. Un modo per arrotondare il magro stipendio di insegnante e dare una mano a Emil, che è preoccupato per le figlie e vuole dare loro una buona educazione.
Domani partirò e mi dispiace. Mi sono sentita bene, accolta come amica anche in questo paese. Ho visto cose bellissime. La tomba di Nefertari, la grazia delle immagini della regina e delle divinità, i colori vivi, i templi grandiosi. Ne avrò certamente nostalgia.
la culla dei faraoni
Assuan si trova in Nubia, una regione desertica tra Alto Egitto e Sudan, fino al xv secolo tutta cristiana.
Nel museo della Nubia, da poco inaugurato da Mubarak sulla collina che domina la prima cateratta del Nilo, vi sono le foto dei resti di numerose chiese e monasteri, risalenti ai primi secoli. Il museo è riparatore dell’ultima delle violenze subite da questo popolo fiero e bello. Il lago Nasser, creato con la grande diga, ha costretto gli abitanti delle rive del Nilo a migrare al nord, lasciando gli antichi villaggi di case di fango.
La bellezza della prima cateratta mi era rimasta nel cuore, dalla mia prima visita in Egitto, 15 anni fa. Ora il paesaggio è stato aggredito dalla speculazione edilizia: su una delle preziose isole, dalla vegetazione rara, è stato costruito un enorme albergo a cinque stelle, pare di proprietà del figlio del presidente.
Su una feluca, tradizionale e bella imbarcazione a vela, sospinta dalla brezza del mattino e guidata da due marinai nubiani, risaliremo fino all’isola di Sehel, sotto la vecchia diga. I massi di granito portano i segni dell’acqua che si è ritirata. L’isola, un tempo, era verde e coltivata; ora è un deserto, con le belle case nubiane dipinte di giallo e blu. La gente è povera; i giovani lavorano in città e il villaggio sopravvive come un museo all’aperto.
Sulla via del ritorno, mi fermo sull’isola Elefantina, che si trova nel centro di Assuan. Qui le case nubiane sono ancora più povere e la sporcizia invade le strade polverose. Eppure, è un luogo importante nell’antica storia d’Egitto: da qui vennero i faraoni della quinta dinastia.
la sfida
Oggi sono riuscita a sentire le campane. Mi hanno dato gioia: erano le sei del mattino. Di solito sento solo il richiamo del muezzin, che mi angoscia. Ho dovuto attraversare la città per arrivare nella piccola chiesa dei comboniani, nel cuore della città e del mercato.
È la domenica delle palme e i cristiani li riconosci per via di quelle sottili foglie che da ieri portano sottobraccio. Trovo padre Vittorio assorto, in piedi davanti al portone, sorvegliato da due giovani poliziotti col mitra.
Originario di Padova, dopo un periodo in Libano e 20 anni in Sudan, è approdato qui, in Alto Egitto. Le sue parole sono soffocate dal grido del muezzin. L’altoparlante della moschea vicina è posizionato in direzione della chiesa. «Fanno sempre così: lo fanno apposta, quasi per sfida».
Padre Vittorio è molto polemico e mi invita a entrare nel suo ufficio. Parliamo della guerra dimenticata, in Sudan, dove si continua a bombardare qualsiasi cosa, mandrie e villaggi. «In Sudan sono stati uccisi tre milioni di persone, una vera pulizia etnica. Le cause? Il paese è ricco di petrolio, uranio e altri minerali». Naturalmente sono sempre i cristiani i primi a essere perseguitati. Devono sparire, deve vincere l’islam, come vuole il governo fondamentalista.
Vittorio poi mi indica, accanto alla chiesa cattolica, la scuola tenuta dalle suore. Alcune sono italiane. «I maggiorenti della città iscrivono qui i loro figli e gli allievi sono per metà musulmani. Non ci sono problemi tra i ragazzi; ma l’islam rivela presto il suo lato aggressivo. Una sposa cristiana è molto ambita nelle ricche famiglie islamiche. Ma i figli devono crescere nella fede del padre; anche la sposa finisce poi per perdere i contatti con la chiesa».
Il missionario mi fa anche notare un altro problema. I cristiani sono pochissimi e, non potendosi sposare che tra di loro, rischiano pure di avere generazioni segnate da tare ereditarie. Anche i rapporti con i copti sono difficili, per i cattolici; migliori sono quelli con i musulmani, di cui condividono una certa mentalità. •
(continua)

Claudia Caramanti

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