Tante gocce fanno l’oceano

Storie di laici impegnati per la missione

Il volontariato costituisce
una delle più belle e nobili realtà
del nostro tempo, anche
nel mondo missionario.
Ed è un contributo fondamentale.
In patria o nei paesi del terzo mondo, molti impegnano
il tempo libero, alcuni mesi e anni,
altri tutta la vita, per dare speranza ai più infelici e disperati.
A gocce o a brocche, poco importa:
tutto contribuisce ad alimentare
il mare dell’amore.

a cura di Bendetto Bellesi




COSTA D’AVORIO – Vangelo in bicicletta

L’autore dell’articolo, consigliere generale,
ha accompagnato il superiore generale nella visita canonica in Costa d’Avorio, paese martoriato
dalla guerra civile, dove i missionari continuano a condividere rischi, privazioni e speranze della gente.

Tutto è iniziato a Roma, attorno a due tabeacoli. Uno nuovo di zecca, con raggiera dorata; l’altro di seconda mano; il primo pieno di rosari; il secondo di vestitini per bambini. Ambedue imbottiti in soffici vestiti nuovi e adagiati in due scatoloni di cartone. Tutto ubbidiva ai più esigenti requisiti dell’arte dell’imballaggio.
A Fiumicino il primo intoppo: «Quelle cose lì non sono ammesse nei nostri aerei! Sono ingombranti!». Mi venne un brivido istantaneo, come quando a Mepanhira (Mozambico), gli iconoclasti marxisti mi dissero che, oltre alla chiesa, era nazionalizzato anche il Cristo dentro il tabeacolo. All’aeroporto la cosa era meno grave: il tabeacolo destinato a Cristo, «segno della presenza di Dio» era solo «ingombrante»; in entrambi i casi, però, le parole mi suonarono irriverenti e dissacranti. Ma, spiegato il contenuto degli scatoloni e identificati i portatori, i tabeacoli sono partiti.
Secondo intoppo ad Abidjan: solo un tabeacolo comparve sul tapis roulant; dell’altro abbiamo dato i connotati, con la vaga speranza di recuperarlo chissà quando.
Fuori ci aspettavano i padri Zachariah King’aru, superiore dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio, e Pietro Villa, preoccupati per il ritardo prolungato. «Non diteci che avete ritardato tanto a causa dei tabeacoli» ci salutarono: una battuta che coglieva tutto il senso della situazione.
Così la storia dei tabeacoli ci ha accompagnato per tutta la durata della visita. È normale smarrire un bagaglio viaggiando in aereo; ma il nostro non era un bagaglio comune!

A San Pedro passammo quasi due settimane di fratea comunione e condivisione con tutti i confratelli presenti in Costa d’Avorio. I primi 4 giorni furono dedicati alla «formazione permanente», trattando vari argomenti di attualità: il cammino missionario fatto in Costa d’Avorio dal 1995 al presente, la situazione politica e sociale del paese, ancora dilaniato da tensioni, le sfide ecclesiali e missionarie. Da tale lettura e confronto sono state aggiornate le linee operative di evangelizzazione per il futuro.
Poi iniziò la visita canonica vera e propria alle missioni del nord, nella diocesi di Odienné, a più di 500 km da San Pedro: Dianra dove lavorano i padri Ramón Lázaro e Michael Wamunyu, e Marandallah, dove sono da poco arrivati i padri Flavio Pante e José Martín Sea.
Ma è stata una visita «virtuale»: abbiamo potuto «visitare» solo i quattro confratelli, senza poter mettere piede nelle missioni, perché situate nel territorio controllato dai ribelli e quindi per noi irraggiungibile. Il paese, infatti, continua a essere diviso in due. I quattro missionari sono forzatamente abituati a vivere per mesi isolati da quelli che lavorano nella regione sud-occidentale.
Lavorano tra i senoufo, in maggioranza di religione tradizionale. Cristiani e musulmani sono pochi e le relazioni che intercorrono tra di loro sono buone. La loro è pure una presenza di solidarietà: corrono gli stessi rischi e condividono i medesimi stenti della gente, poiché comincia a mancare tutto e niente più funziona (telefono, posta e altri servizi).
E anche sotto l’aspetto ecclesiale la situazione non è rosea: il vescovo della diocesi, per il momento, si trovava ad Abidjan per motivi di salute e di sicurezza; il clero è ridotto a mezza dozzina di preti o poco più. E non si sa fino a quando durerà tale situazione.
Nonostante tutto, i quattro missionari hanno trasfuso a tutti noi tanta allegria e serenità. A Dianra e a Marandallah il lavoro non si ferma. Le strutture sono ridotte all’osso. Bicicletta e motoretta (prendendo in affitto veicolo e conduttore) da tempo sostituiscono le auto, per sottrarle alla cupidigia dei ribelli o da chi per essi. È capitato a padre Zachariah: tornava da una visita a questi confratelli del nord, fu fermato, l’auto requisita, la sua persona condannata a morte; ma si è salvato miracolosamente, grazie a un diverbio, scoppiato in estremis, tra alcuni componenti della banda.

L a visita continua, reale questa volta, alla missione di Grand Béréby, a circa 50 km da San Pedro, in una posizione incantevole, affacciata sull’oceano. I padri Pietro Villa e Jean Willy Ipan e fratel Rombaut Ngaba vi lavorano da quasi quattro anni e già si parla di consegnarla alla diocesi, secondo la convenzione fatta a suo tempo. Ma il vescovo ha fatto capire che è ancora presto, perché sia la diocesi che i suoi sacerdoti sono giovani.
A Grand Béréby, lavoro religioso e promozione umana vanno a braccetto. Fratel Rombaut ha organizzato un dispensario che, oltre ad attendere i malati vicini, ha tessuto una rete di assistenza a tutti i villaggi della parrocchia e prepara infermieri non qualificati, ma capaci di prestare i rimedi più immediati alle comunità della foresta.
Queste iniziative, assieme al dispensario «Consolata» di San Pedro, sono finanziate dai confratelli del Canada e costituiscono la pupilla degli occhi del vescovo. L’impegno nel migliorae i servizi tende a infondere in queste opere una vera e propria dimensione religiosa, perché diventi «ministero degli infermi».
Se si eccettua qualche infiltrazione di banditi, provenienti dalla Liberia, a Grand Béréby non ci sono problemi di guerriglia, anche perché le truppe francesi giocano di anticipo.

D a Grand Béréby siamo passati alla grande missione di Sago, 140 km oltre San Pedro. A farla «grande» sono i fabbricati in muratura, unici in tutto il villaggio: la bella casa costruita da fratel Pietro Menegon, l’imponente chiesa iniziata da padre Flavio e finita da padre Zachariah, l’asilo e il bel convento delle suore di Santa Gemma Galgani. Grandezza riconosciuta anche dal sindaco del posto; ci ha detto: «Prima del vostro arrivo, Sago non era niente; ora, invece, tutti la conoscono e la invidiano».
Attualmente Sago è la comunità più numerosa, vi operano i padri Zachariah King’aru, Victor Kota, Joseph Omondi e Killian Wambua. Due di essi erano da tempo destinati a una missione nuova, che la guerra ha impedito di aprire.
La parrocchia è divisa in settori pastorali, ciascuno con a capo uno dei missionari. Nella zona c’è una forte presenza di stranieri, soprattutto immigrati dal Burkina Faso. Le lingue sono molte: in chiesa, oltre al francese, tutto è tradotto almeno in altre due lingue.
È questo uno dei grandi problemi, non solo religiosi, di tutta la Costa d’Avorio: gli stranieri sono circa il 35% della popolazione e per lo più sono discriminati in tutti i sensi.
La visita si è conclusa di domenica, con una bella celebrazione eucaristica e grande partecipazione di fedeli, fino a riempire la chiesa. E sono tornati in ballo i tabeacoli. Quello nuovo, che non si era perso, era destinato a questa chiesa. Portato all’altare nella bella processione di offertorio, fu solennemente benedetto da padre Trabucco e collocato in un luogo provvisorio. Pareva tanto grande; invece sembra scomparire nella grande chiesa. Ora è «abitato». Attirerà certamente tanta gente, stimolata dall’esempio di missionari e missionarie.
T oati a San Pedro, abbiamo nuovamente incontrato tutti i confratelli in assemblea finale, per prendere visione della relazione dei visitatori, discutere e rispondere a due importanti interrogativi: che fine farà l’esperienza di «inserzione», iniziata in mezzo ai baraccati del Bardot e ora interrotta? Ce ne sarà un’altra per sostituirla? Dove e quando?
Si è discusso molto sulla spiritualità dell’«inserzione»: essa consiste nel vivere in «mezzo ai poveri con mezzi poveri». È un ideale su cui tutti i confratelli sono d’accordo e tutti vogliono perseguire nel proprio lavoro missionario; ma le iniziative concrete di inserzione nelle varie comunità devono essere studiate bene e abbinate alle parrocchie. Casi di «inserzione pura», cioè progetti staccati da una parrocchia, come voleva essere quella del Bardot, in futuro devono essere ponderati e assunti da tutti i componenti del gruppo operante nel paese.
Anche la seconda domanda ha ricevuto una risposta definitiva: la nuova apertura avverrà nei primi mesi del 2004 e sarà a Grand Zattry, quasi a metà strada tra le comunità del nord e quelle del sud.

Che fine ha fatto l’altro tabeacolo? Curiosità legittima! Ebbene, tra una discussione e l’altra, padre Flavio è riuscito ad aggiustae la porticina, lo ha lucidato fino a farlo apparire quasi nuovo; poi lo ha rimesso nello scatolone per portarlo nelle missioni del nord.
Sembra che, nell’ultimo tragitto, il tabeacolo non abbia incontrato intoppi. E quando sarà abitato dal Signore, diventerà un’altra sorgente di forza e coraggio per i missionari, di consolazione e speranza per i fedeli di quella terra tanto martoriata.

Norberto Louro




CAPO VERDE – Baciate dal sole, sferzate dai venti

Una dozzina di isole, di cui solo nove abitate.
Non arrivano brutte notizie: non vi è televisione
e il telefono funziona male. Gente amabile e allegra,
povera, ma dignitosa, in lotta contro le carestie,
sostenuta dai cappuccini piemontesi.

I l volo dura quasi sei ore. Sorvoliamo il deserto tra Marocco e Mauritania, poi un largo tratto di oceano, prima di atterrare su un lembo di terra arida, scura e inospitale. Poco più di una piattaforma che consente di atterrare in mezzo all’oceano. E siamo a Sal, una delle 9 isole abitate dell’arcipelago di Capo Verde. L’aeroporto fu costruito dagli italiani durante il fascismo, quando gli aerei dovevano sostare per i rifoimenti di carburante, prima di raggiungere il Brasile.
I volontari che hanno viaggiato con me proseguono per l’isola di Fogo, dove devono montare la sala operatoria dell’ospedale del centro San Francesco dei cappuccini piemontesi. Siamo partiti con un piccolo bagaglio a mano, per lasciar posto alle attrezzature da trasportare.
Per molti di essi questo non è il primo viaggio a Fogo. Maria Teresa Monte, moglie di un medico di Buttigliera, è da anni impegnata nel cornordinare la raccolta di materiale e apparecchiature ospedaliere. Artigiani, medici, architetti, vengono a passare nella missione parte delle loro vacanze con grande entusiasmo.
TRA ELISEI A ANTIELISEI
I primi a raggiungere l’arcipelago di Capo Verde furono forse navigatori arabi. I portoghesi arrivarono qualche anno prima della scoperta dell’America, insieme a un genovese, Antonio da Noli. Situate nel cuore del mondo, nel crocevia fra Europa, Africa e Americhe, le isole divennero poi la base per i traffici col Nuovo Mondo, compreso il mercato degli schiavi africani.
Durante i secoli della conquista coloniale arrivarono olandesi e francesi, inglesi e italiani. Le isole si popolarono così di gente di diverse lingue e tradizioni.
Il vento ha sempre avuto un ruolo importante. Gli alisei, che soffiano per 6 mesi verso ovest, aiutavano i navigatori nella traversata. Per altri sei mesi riportavano in Europa le navi, sospingendole però verso una rotta più a nord. In inverno arriva anche l’harmattan, un forte vento sahariano, che rende aride e polverose le campagne.
Nei secoli scorsi vi sono stati terribili periodi di carestia, che provocavano la morte per inedia di un’alta percentuale di abitanti.
Oggi ci sono molti più capoverdiani all’estero che in patria; le loro rimesse contribuiscono in modo determinante al benessere delle isole. L’area di Boston (Usa) e i paesi europei sono i preferiti. Tra questi il Portogallo, che ha dovuto concedere l’indipendenza nel 1975, dopo secoli di dominio coloniale.
Capo Verde ora è una repubblica democratica indipendente, che ha migliorato le condizioni di vita dei suoi abitanti e ha stretti rapporti con la comunità internazionale.
I cappuccini arrivarono nel 1945 a Mindelo, città portuale dell’isola di São Vicente, al seguito dell’esercito inglese, che li aveva inteati dopo la conquista dell’Eritrea. Ritornati in Italia, avevano descritto ai superiori la situazione drammatica trovata nell’isola. Le carestie sono sempre state una costante nell’arcipelago; il cui clima estremamente arido non consente coltivazioni redditizie.
DAL SALE AL SURF
L’isola di Sal deve il suo nome all’unica risorsa: una salina dalle strutture abbandonate, nel centro di un cratere. Oggi, i suoi abitanti cercano di fare conoscere il loro mare e le spiagge a un turismo di sportivi. Gli amanti del surf vi trovano le condizioni ideali per praticarlo.
Il paesaggio è lunare, segnato da strade diritte e incroci con strade inesistenti. Qualche gruppo di nuovi edifici lungo la costa non migliora l’ambiente. Solo i colori vivaci delle vecchie case riescono a rompere una monotonia deprimente.
Un breve volo ci porta a Praia, capitale dell’arcipelago, situata sull’isola di Santiago. La sera scende improvvisa. Le luci e il traffico fanno apparire Praia vivace e attiva.
La mattina una bruma grigia pesa sull’orizzonte. Il nucleo di edifici coloniali è situato su uno sperone alto sul porto, dove arrugginiscono le carcasse di due navi abbandonate. Troverò colore e suoni nel mercato degli alimentari accanto alla cattedrale. La gente è bella e fiera, risultato di incroci tra arabi e africani, portoghesi e altri europei. La cultura è particolare, la musica sicuramente è la parte più interessante.
A Praia i cappuccini hanno un’amica, Tetè, cantante magnifica, che ama il nostro paese e si è anche esibita a Torino, al Piccolo Regio, per far conoscere le opere di padre Ottavio. La sera la trascorriamo nella sua casa in riva all’oceano, insieme ai tre figli e al marito, un dentista messicano conosciuto durante gli studi fatti a Cuba.
Dopo l’indipendenza (1975), Capo Verde è stata a lungo nell’orbita sovietica, con stretti rapporti di collaborazione con Cuba. I medici nelle isole sono in gran parte cubani.
ALL’OMBRA DEL VULCANO
Fogo, l’isola scelta da padre Ottavio Fasano per il centro socio sanitario di «San Francesco», è un vulcano tuttora in attività. L’ultima eruzione risale al 1996: gli abitanti dovettero essere evacuati.
Questo cappuccino, nato a Racconigi, entusiasta e testardo, dopo aver realizzato molte opere nell’arcipelago a favore della popolazione (asili, ristrutturazioni e costruzioni, cistee), con l’aiuto del torinese Mario Bollito, nel 1992 ha fondato Radio Nova, che trasmette tutti i giorni e copre tutte le isole, e un settimanale Terranova.
Convinto che anche i cappuccini dovessero entrare nel mondo dei media con professionalità e competenza, nel 1982 aveva fondato a Torino la Nova T, casa di produzione televisiva, che vende in tutto il mondo. Recentemente ha fatto scalpore il fatto che uno dei loro filmati sulle guerre dimenticate sia stato acquistato da una televisione araba.
Arriviamo sull’isola di Fogo mentre è in programma l’inaugurazione della centrale elettrica, che darà la luce a un villaggio. I generatori vengono dall’Italia, donati ai cappuccini. Arriviamo sul posto nell’oscurità totale. Due ministri di Capo Verde sono presenti, insieme al sindaco di São Felipe e a padre Ottavio, che da anni mantiene cordiali rapporti con il governo. Dopo lunghi discorsi, finalmente si effettua il collegamento: i lampioni si illuminano tra l’emozione generale.
Padre Ottavio ora sta per realizzare un sogno: dotare l’isola di una struttura medica modea e attrezzata anche per le urgenze chirurgiche. Il centro San Francesco sorge in una magnifica posizione sull’oceano, a poca distanza dal capoluogo dell’isola, São Felipe. Gli ambulatori, divisi per specialità e perfettamente attrezzati, sono già operativi. La piccola chiesa, al centro del complesso, e la foresteria devono ancora essere completati, ma la comunità è attiva e impegnata.
Tra i numerosi volontari incontro Attilio, impegnato tutto il giorno come dentista. Anacleto è neurologo psichiatra: ha girato il mondo ed è approdato qui, dove pare vi sia molto bisogno delle sue cure. Il dott. Durando è chirurgo alle Molinette di Torino, appassionato velista, da anni coinvolto nei progetti dei cappuccini. Questa è la quarta volta che trascorre le ferie lavorando al centro.
Iolanda è la veterana del gruppo: analista di laboratorio, da quando è andata in pensione, due anni fa, si è trasferita a Fogo. Oramai conosce tutta l’isola e, con il suo carattere espansivo, tiene i contatti tra il centro e la gente del posto.
Grazie all’appoggio dei cappuccini, alcuni giovani capoverdiani hanno trascorso un periodo di studio in Italia, presso l’istituto alberghiero di Mondovì, ospiti di famiglie piemontesi. Mentre i suoi compagni hanno trovato lavoro nei villaggi turistici di Sal, Edna è rimasta a São Felipe, per lavorare nel centro.
Padre Ottavio ha in mente un nuovo progetto: costruire sui terreni donati dalla comunità capoverdiana un complesso residenziale, da affittare ai turisti: il ricavato contribuirà a mantenere il Centro che, data la sua importanza, avrà bisogno di notevoli risorse.
Dobbiamo far conoscere l’incanto di queste isole, fortunatamente ancora lontane dal turismo di massa. I paesaggi qui possono provocare sensazioni forti, ma il sorriso e l’amabilità della gente rende il soggiorno piacevole.
Per chi ha la forza di affrontare tre ore di fatica, l’ascesa al vulcano è un’esperienza da non perdere. Una giovane guida ci indica i punti in cui è meglio passare, perché il sentirnero non è segnato. Guardando dal basso le pareti lisce del vulcano, non avrei creduto di poter arrivare fin sul ciglio del cratere, un sottile orlo di rocce che riesco a raggiungere aiutandomi a forza di braccia. Lo spettacolo è grandioso, con l’oceano ricoperto da una coltre di nubi.
L’ULTIMO LEBBROSO
Casa Betania è un complesso di case bianche, circondate da oleandri, costruito in epoca coloniale in un luogo isolato e suggestivo, a pochi passi dal mare. Era un lebbrosario; ora ospita l’ultimo lebbroso, un anziano che soffre molto, a causa di un arto incurabile, che dovrà essere amputato.
Suor Teodora, una delle tre suore francescane del centro di San Francesco, ha deciso di portarlo a Praia, dove sarà accudito. «Se potessi restare accanto a lui, non soffrirebbe così» mi confida la suorina dal sorriso dolcissimo.
Nell’arcipelago ci sono diverse congregazioni di suore, tutte capoverdiane. Teodora è nata a Fogo, dove ha studiato in una scuola cattolica. Quando a tredici anni espresse il desiderio di farsi suora, trovò l’opposizione dei genitori. I sette fratelli maggiori di lei erano già emigrati a Boston, dove avevano trovato lavoro. Suor Teodora aveva le idee molto chiare. Sarebbe rimasta nell’isola, per aiutare la sua gente.
Ora, a distanza di anni, i genitori sono molto contenti di averla vicina. L’estate ricevono le visite di figli e nipoti americani. Quasi tutti gli emigrati ritornano, dopo una vita di lavoro all’estero. Intanto restaurano le vecchie abitazioni o ne costruiscono di nuove, dove trascorrono le vacanze.
«MANDATEMI… TURISTI»
Tutta l’isola di Fogo è magnifica, dominata dal cono perfetto del suo vulcano. Le spiagge hanno la sabbia fine, lucente e nerissima. L’oceano fa paura, con le onde gigantesche e la risacca. Ma si possono trovare cale tranquille, tra le rocce vulcaniche.
Le strade sono belle, pavimentate con piccole tessere di pietra, un lavoro fatto durante l’epoca coloniale dalle maestranze locali. Nel capoluogo, il nucleo di case coloniali ha colori pastello e comprende un vivace mercato, la chiesa, un piccolo museo delle tradizioni, tenuto da una signora svizzera, che ha deciso di passarvi il resto dei suoi anni.
Padre Orfeo, battagliero e deciso, abita a Mosterios, villaggio sulla costa nord di Fogo. Un luogo isolato, povero, umido, con qualche casa sparsa, tra campi coltivati. Strane piante succulente ricoprono le rocce vulcaniche a strapiombo sullo stretto litorale.
Qui la vita è molto semplice: si sopravvive lavorando la poca terra, che sembra molto fertile. Orfeo alleva galline, cura un asilo e la chiesa, che avrebbe urgente bisogno di restauro. «Mandatemi turisti, non volontari – dice con gli occhi lampeggianti -. Qui devo far lavorare la gente, stimolare i giovani: abbiamo bisogno di denaro».
Con le offerte che riceve, Orfeo aiuta gli studenti più bravi a proseguire negli studi. Quando i ragazzi si inseriscono nel mondo del lavoro, restituiscono quanto hanno ricevuto; così vengono finanziati altri giovani.
Originario di Bassano del Grappa, Orfeo partì giovane missionario per l’Angola, colonia portoghese. Restano i ricordi della foresta dove si trovava la missione, un «paradiso» a 600 metri sul mare, circondata da miniere di rame e piantagioni di caffè.
Arrivato a Capo Verde 25 anni fa, dopo essere stato a São Vicente, Sal e São Nicolão, Orfeo ha trascorso a Mosterios gli ultimi 12 anni. Una sua frase mi rimarrà impressa. «Più si diventa vecchi, più la vita diventa bella». Tutte le mattine, 80 bimbi affollano la mensa dell’asilo, mangiano uova e carne di pollo. «La soia che mi mandano fa i vermi e la do ai maiali» precisa.
Poi si parla di turismo, ma quale? Forse quello consapevole, che cerca di scoprire le realtà dei paesi, non solo sfruttae le bellezze e il clima. Le isole non sono una meta facile, la natura pare ostile, forse più di quello che è in realtà. Sarà anche per via delle rocce vulcaniche, drammatiche nelle forme e nel colore. Ma per chi è alla ricerca di luoghi lontani da traffico, mondanità e rumori, questo è un posto giusto.

Claudia Caramanti




I GRANDI MISSIONARI: Il vangelo gridato con la vita


Annalena Tonelli Missionaria laica, per 33 anni a servizio dei più poveri e disprezzati tra le popolazioni somale, Annalena Tonelli ha testimoniato l’amore di Dio con radicalità evangelica fino alle estreme conseguenze.  È salita alla ribalta solo dopo la sua morte, assassinata nel suo ospedale, a 60 anni.

Piccola ed esile come una canna, viso magro circondato dal velo, occhi azzurri di bambina, sorriso disarmante e volontà di ferro: il ritratto di Annalena Tonelli è presto fatto. Ha speso oltre metà della vita tra le popolazioni somale musulmane, con un solo scopo: amare Cristo nei più poveri dei poveri, fino alla morte, 5 ottobre 2003, assassinata alla fine del servizio ordinario ai suoi malati.
Ha sempre aborrito riflettori e pubblicità. In rare occasioni ha parlato di sé e del suo lavoro, per poi rammaricarsi. Nel dicembre 2001, in un convegno per la Pastorale della salute tenuto in Vaticano, costretta dagli amici, accettò di mettere in pubblico la sua storia straordinaria: è il suo «testamento missionario».


IL PRIMO AMORE
«Sono nata a Forlì, il 2 aprile del 1943. Scelsi di essere per gli altri che ero ancora bambina» cominciava così le sue testimonianze.
Mentre frequentava l’Università di Bologna, ferquentò movimenti giovanili «terzomondisti»: si appassionò alla vita di Albert Schweitzer e all’opera dei missionari.
Laureata in giurisprudenza, per sei anni prestò servizio ai poveri della città natale, ai bambini e bambine orfani e disabili.
«Credevo di non potermi donare totalmente rimanendo nel mio paese: i confini della mia azione mi sembravano così stretti, asfittici». Sognava l’India; scelse l’Africa, nonostante i familiari la sconsigliassero. «Partii decisa a gridare il vangelo con la vita, sulla scia di Charles de Foucauld, che aveva infiammato la mia esistenza. Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri in Lui».
All’inizio del 1969 era a Chinga, in Kenya, insegnante nella scuola secondaria della missione di Karima; l’anno seguente in quella governativa di Wajir, dove un altro romagnolo, Salvatore Baldazzi, missionario della Consolata, aveva avviato una Girl’s Town, per bambine orfane di guerre e carestie. Lo stesso anno fu raggiunta da Maria Teresa e insieme iniziarono una comunità.
Gli inizi non furono facili in quella regione desertica del nord-est del Kenya, tra popolazioni somale poverissime, rigidamente musulmane. Quando si seppe dell’arrivo di una maestrina bianca, gli studenti, quasi suoi coetanei o di poco più giovani, giurarono al preside che le avrebbero impedito di entrare in classe: vi insegnò fino al 1974 e fu pure preside della scuola secondaria di Mandera. Oggi molti di essi occupano posizioni importanti nella vita politica ed economica del Kenya e si vantano di averla avuta come insegnante.
«Quasi subito m’innamorai di un bimbo ammalato di sickle cell (anemia falciforme) e fame – racconta Annalena -. Gli donai il sangue e supplicai gli studenti di fare altrettanto. Uno di loro lo donò e dopo di lui tanti altri, vincendo così la resistenza dei pregiudizi. Fu la mia prima esperienza in cui, in un contesto islamico, l’amore generò amore».
Nel frattempo aprì un Centro di riabilitazione per bambini poliomielitici, ciechi, sordi, epilettici. Altre amiche romagnole si unirono a loro, diventando mamme a tempo pieno dei disabili.
«Eravamo una comunità di sette donne, tutte, in maniera e misura diverse, assetate di Dio. Quando capivamo che stavamo per perdere il senso del nostro servizio e la capacità di amare, ci ritiravamo in un eremo, per uno o più giorni di silenzio, ai piedi di Dio: là ritrovavamo equilibrio, saggezza, speranza e forza per combattere la battaglia di ogni giorno, prima di tutto con ciò che ci tiene schiavi dentro».
Mentre le compagne portavano avanti il Centro, Annalena frequentava il reparto dei tubercolosi dell’ospedale di Wajir. «M’innamorai di loro e fu amore per la vita. Erano in un reparto da disperati: li servivo sulle ginocchia; stavo loro accanto quando si aggravavano e non avevano nessuno che si occupasse di loro. Non sapevo nulla di medicina. Cominciai a studiare e osservare, poi a supervisionare la cura dei pazienti dopo la dimissione dall’ospedale».

UN PROGETTO PILOTA
La scoperta di una nuova medicina rendeva possibile curare la Tbc in 6 mesi, anziché i 12-18 richiesti fino allora, purché la cura fosse continua e regolare: condizioni impossibili per i nomadi che, al primo segno di miglioramento, ritornavano alla vita randagia.
Nel 1976 il governo del Kenya le affidò la direzione di un progetto pilota per il controllo e cura della tubercolosi a Wajir. Annalena inventò un sistema per garantire le terapie giornaliere per i sei mesi necessari, senza cambiare le abitudini dei pazienti: organizzò centri di cura a cielo aperto, chiamati T.B. Manyatta (villaggio). I nomadi arrivavano con le loro capanne legate sulla groppa dei cammelli, le smontavano e ricostruivano la loro abitazione. Fatte le diagnosi con l’esame dello sputo al microscopio, per sei mesi le foiture dei farmaci erano assolutamente regolari e l’ingestione rigorosamente supervisionata. Quando il malato era guarito, veniva sparsa la voce e la famiglia del paziente appariva magicamente in una settimana o poco più per riportarlo nel deserto.
«La T.B. Manyatta fu una grande avventura d’amore, un dono di Dio» confessa Annalena. Nel 1978, a Nairobi, tale esperienza fu presentata al Congresso mondiale sulla tubercolosi: il metodo venne subito adottato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e, col nome Dots (acronimo inglese per «breve terapia sotto diretta osservazione»), è ora applicato in tutto il mondo.

GENOCIDIO SCONGIURATO

Nel febbraio del 1984, alcuni camion di militari irruppero in alcuni quartieri di Wajir, incendiando case e arrestando i somali del gruppo degodia, accusati di essere shifta (predoni) o legati alla guerriglia: 5-6 mila uomini furono presi e rinchiusi nell’aeroporto Wagalla; per quattro giorni vennero sottoposti a torture e angherie. Cosparsi di benzina e incendiati, la maggior parte riuscirono a salvarsi togliendosi i vestiti. I sopravvissuti furono caricati sui camion e abbandonati nel deserto.
Quando si sparse la notizia della liberazione, la gente corse alla ricerca dei loro uomini, portando cibo e acqua. Annalena fece altrettanto. Così testimonia Barbara Lefkow, moglie di un diplomatico americano, fisioterapista che spesso si recava al Centro di riabilitazione: «Dipinse una croce rossa sulla Toyota, portò acqua ai sopravvissuti, li raccolse e li curò nel suo Centro; riuscì a salvae molti. Compilò e mi consegnò una lista di morti, perché la portassi a Nairobi di nascosto».
Sorpresa dai miliziani a seppellire i morti, Annalena fu picchiata. La difese un vecchio capo musulmano, confessando che lui non aveva fatto nulla per salvare la sua gente, mentre quella «straniera» aveva rischiato la vita; e gridò forte, perché tutti lo sentissero: «Nel nome di Allah, io ti dico che, se noi seguiremo le tue orme, noi andremo in paradiso».
Gioali e Bbc parlarono a lungo dell’intervento di Annalena; la lista dei morti e poi le fotografie arrivarono nelle ambasciate di vari paesi occidentali: il governo kenyano dovette porre fine al genocidio. «Avrebbero dovuto sterminare 50 mila persone. Ne uccisero mille» racconta Annalena.
Sfuggita miracolosamente a due imboscate, la missionaria fu arrestata e, portata davanti alla corte marziale, fu bandita dal Kenya nel 1985.

L’AMORE FA MIRACOLI

Dopo qualche mese in Italia, Annalena andò in Spagna per seguire un corso di specializzazione sulla lebbra, poi in Inghilterra, dove conseguì il diploma in medicina tropicale. Nel 1987 partì per la Somalia e prestò servizio volontario a Belet Weyne, in una struttura medica che faceva capo al ministero degli Affari esteri italiano e diventò responsabile del controllo della tubercolosi della regione del nord-est.
Intanto nel paese dilagava la guerriglia: nell’agosto del 1990, insieme al suo team di medici e infermieri, fu aggredita, derubata e sequestrata da un gruppo di ribelli. Le truppe governative riuscirono a liberarli. Per la seconda volta Annalena era miracolosamente viva, ma strappata ai suoi poveri e malati. Da Mogadiscio continuò a spedire loro aiuti e medicinali.
Costretta a lasciare temporaneamente la Somalia, Annalena vi fece ritorno nel marzo del 1991, a Merca, 50 km a sud di Mogadiscio. Vi regnavano anarchia totale e fame nera, come nel resto del paese, privo di tutto: ospedali, dispensari, scuole.
Con grinta da manager e il coinvolgimento della Caritas italiana, prima in denaro e poi con l’invio di volontari, Annalena fece fronte alle varie emergenze: carestia, rifugiati, bambini soli e affamati, bisognosi d’ogni genere e costruì un complesso sanitario e scolastico che ha del miracoloso.
«Cercò di creare speranza, incoraggiando la gente a muoversi, a ricostruire, specialmente se stessi – scriveva in una lettera del 1993 -. Siamo 8 europei, con 131 collaboratori somali: prepariamo 5 mila pasti al giorno; curiamo l’ospedale per Tbc con 148 pazienti, il day hospital con 250 bambini, più di 400 pazienti in terapia antitubercolare, piccoli gruppi di lebbrosi ed epilettici». Organizzò classi elementari e artigianato per i bambini, scuole coraniche per piccoli e grandi, di alfabetizzazione per adulti.
Al tempo stesso Annalena doveva lottare contro l’ambiente culturale. «La tubercolosi – racconta nel suo testamento – è stigma e maledizione: segno di una punizione di Dio per un peccato commesso, aperto o nascosto; per cui si incontra gente che si rifiuta di essere diagnosticata, curata e guarita, per non ammettere di essee affetta».
Furono anni drammatici, che la missionaria sintetizza così: «Sono stata tra guerre e conflitti, testimone di devastanti carestie, violazioni di diritti umani e genocidio: credevo che in vita mia non avrei mai più sorriso, se fossi sopravvissuta a quelle catastrofi».
Tenerissima con i poveri e malati, Annalena era rocciosa e inflessibile con i potenti e prepotenti. Negli ultimi due anni dovette affrontare estenuanti beghe, ricatti, ripetute minacce, un’aggressione e qualche percossa da parte di predoni, capi clan, signori della guerra, fondamentalisti islamici: tutti attirati dall’odore dei dollari che arrivavano per le opere di Merca. Finché passò il testimone a una dottoressa inviata dalla Caritas italiana, Graziella Fumagalli, assassinata tre mesi dopo, con tre colpi d’arma da fuoco alla testa, mentre stava curando un ammalato: era la domenica del 22 ottobre 1995, giornata missionaria mondiale.

«PRINCIPESSA DI BORAMA»
L’Oms le affidò l’ospedale di Borama, cittadina di 100 mila abitanti nel Somaliland, regione relativamente tranquilla nel nord-ovest del paese. Vi arrivò nel 1996. L’accoglienza non fu cordiale: i bambini tiravano i sassi contro la sua casa, gridando: «Allah, tieni lontano quel diavolo bianco!». Ma poi, col passare del tempo, governatore, sindaco, anziani, capi clan e tutto il villaggio era con lei, fino a darle il nome di «Sara Borama» (principessa di Borama). Gli adulti la chiamavano mamma, i bambini nonna.
Cominciò da zero. Con l’aiuto di organismi mondiali (Oms, Unhcr, Undp) e nazionali (Caritas, Comitato contro la fame nel mondo di Forlì) l’ospedale passò da 30 a 250 posti letto, più un centinaio di capanne; uno staff di oltre 50 persone tra medici, infermieri e tecnici di laboratorio; 118 pazienti curati il primo anno; 1.300 il secondo.
Due volte all’anno organizzava campagne per i ciechi: in quattro giorni, un gruppo di amici specialisti operavano di cataratta oltre 330 pazienti: più di 3.700 persone hanno riacquistato la vista.
Al tempo stesso fu avviata la scuola per i figli dei tubercolosi e disabili (la prima in tutta la Somalia e Djibuti), poi ampliata per accogliere i «normali», diventando una fucina di integrazione, tra alunni «normali» e bambini poliomielitici, mutilati di guerra, ciechi, sordi, rifiuti della società (figli di fabbri, conciatori, barbieri, etnie disprezzate). Per vivere e giocare con i sordomuti, i «normali» hanno imparato l’alfabeto muto.
«È una delle esperienze più consolanti e incoraggianti, più capaci di dare speranza in un mondo in cui gli uomini vorranno essere e saranno una cosa sola» racconta Annalena.
Nell’aprile 2003 l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), le assegnò il Nansen Refugee Award, il più importante premio assegnato a chi si occupa di profughi. Oltre a riconoscere la sua opera e i valori a cui si ispira, disse l’alto commissario Ruud Lubbers, il premio voleva «dimostrare che con mezzi limitati, ma con passione ed energia senza limiti, molte vite possono essere salvate e riaccendere la speranza in molti disperati».
Schiva da ogni visibilità, Annalena avrebbe voluto rinunciare; ma gli amici la convinsero a ritirare il premio (una medaglia e 100 mila dollari), anche perché quella era un’occasione per attirare l’attenzione sulla sua «amata Somalia».

«SONO NESSUNO»
A chi le domandava come facesse a gestire una struttura ospedaliera per mille malati, spendendo appena 1.000 dollari al mese, rispondeva: «Nessun segreto: non ho due basi a Nairobi e in Europa o in America; non ho da pagare stipendi da capogiro al personale espatriato; non compro nulla all’estero».
Essa stessa viveva nella più dignitosa e radicale povertà: due tuniche, due scialli e qualche libro era tutto il suo corredo. «Io sono “nobody”, nessuno – diceva di se stessa -. Vivo a servizio senza un nome, senza la sicurezza di un ordine religioso, senza appartenere a nessuna organizzazione, senza stipendio, senza versamento di contributi per la vecchiaia. Sono una cristiana, con una fede incrollabile, rocciosa, che non conosce crisi dai tempi della giovinezza… che mi manda avanti in condizioni di grande difficoltà».
Ed era felice. «Io impazzisco, perdo la testa per i brandelli di umanità ferita – si legge nel suo testamento -; più sono feriti, maltrattati, disprezzati, senza voce e di nessun conto agli occhi del mondo, più li amo. Non è merito, ma un’esigenza della mia natura. Rido di chi pensa che la mia sia una vita di rinuncia e sacrifici. La mia è pura felicità; chi altro al mondo ha una vita così bella?».
Unica «sofferenza indicibile» era la povertà spirituale: non aveva nessuno che condividesse la sua fede rocciosa e con cui condividere ciò che provava e sentiva dentro, eccetto il vescovo di Djibuti che, due volte l’anno, attorno a natale e pasqua, andava a Borama per celebrare la messa solo per lei e con lei.
A Borama, come era capitato a Wajir, la gente pregava per la sua «salvezza», cioè, perché diventasse musulmana. Gliene parlavano spesso, con discrezione. Ma, dopo che un imam aveva predicato che in tutta la sua vita non aveva mai visto fare quello che faceva quella «infedele» e che anch’essa sarebbe andata in paradiso, la lasciarono in pace.
Integrata profondamente nella vita della gente, Annalena poteva dire: «Ai somali molto ho dato. Dai somali molto ho ricevuto». Tre doni soprattutto: il valore della famiglia allargata, in cui tutto è condiviso, almeno all’interno del clan; l’esempio di preghiera, cinque volte al giorno, con l’interruzione di qualsiasi cosa per dare tempo e spazio a Dio; l’esempio di fede rocciosa, specie dei nomadi del deserto, l’abbandono incondizionato e la resa a Dio.
E continua: «Poi la vita mi ha insegnato che la mia fede senza l’amore è inutile… che l’eucaristia racchiude un messaggio rivoluzionario: “Questo è il mio corpo, fatto pane, perché anche tu ti faccia pane sulla mensa degli uomini”».

L’ULTIMA BEATITUDINE
Ma agli occhi dei musulmani più fanatici Annalena aveva tre vizi capitali: era bianca, per cui considerata di razza inferiore a quella somala; era donna, per ciò di nessun peso in una società maschilista; era cristiana, quindi temuta, disprezzata, rifiutata; non era sposata, un assurdo in un mondo in cui il celibato non esiste ed è un non valore.
Inoltre, tubercolosi, Aids, disabilità, epilessia, malattie mentali… per gli integralisti sono sinonimi di castigo di Dio: Annalena aveva fatto di Borama un paese maledetto, screditato in varie parti del mondo dove era giunta la fama della sua opera.
Negli ultimi due anni, poi, Annalena aveva lottato contro certe aberrazioni culturali: con due infermiere ostetriche e due capi locali, portava avanti una grossa campagna per eradicare l’infibulazione e altre mutilazioni femminili. A qualcuno non andava a genio che una donna, bianca, infedele, cercasse di cambiare la loro cultura.
Un imam predicò che quella «infedele» se ne doveva andare: un gruppo di persone presero a sassate il centro ospedaliero, che dovette essere chiuso per tre mesi. Seguirono altre intimidazioni, finché la sera di domenica 5 ottobre 2003, appena rincasata dal solito giro in ospedale, Annalena fu assassinata con due colpi di pistola alla testa.
Si è parlato di un pazzo, di banditi, di vendetta, di fondamentalisti… Serve a poco scoprire il colpevole. Rimane la verità e la logica di tutta la sua esistenza: Annalena ha predicato il vangelo con la vita, vivendolo fino all’ultima beatitudine: «Vi perseguiteranno per causa mia; mentendo, diranno ogni male contro di voi; vi metteranno a morte, credendo di dare gloria a Dio».

Benedetto Bellesi




Il compito in classe di Federico

Sul petrolio si basa l’economia del mondo, quasi nulla funziona senza di esso, e non essendocene in tutti i luoghi, molti paesi lo devono comprare da altri o prenderlo in altri modi.
Secondo me, la guerra in Iraq è avvenuta perché il presidente degli Stati Uniti crede di essere una specie di Giulio Cesare. Bush pensa che il mondo sia ai suoi piedi e vuole arricchire il suo «impero» con il petrolio dell’Iraq. L’Iraq dovrebbe essere una potenza economica, possedendo enormi giacimenti di petrolio, invece si arricchisce solamente il governo.
Il presidente degli Usa ha dichiarato guerra all’Iraq con il pretesto del terrorismo e di voler salvare il popolo, ed è entrato in guerra con tutti i suoi aerei militari e carri armati devastando il paese e radendolo al suolo, uccidendo moltissime persone innocenti. Alla fine agli Stati Uniti saranno pagati miliardi di dollari per ricostruire il paese che hanno distrutto.
Molti soldati americani sono dei ragazzi annoiati della propria vita, che non sanno neanche per quale motivo combattono, ma vogliono solo vivere un’avventura alla Rambo, sparando a qualunque cosa si muova o respiri, a volte anche agli alleati. Una delle cose che mi da più fastidio è che ora fanno le campagne pubblicitarie per aiutare l’Iraq, dopo averlo bombardato. Ci sono anche i terroristi, però molti si difendono solo dagli statunitensi con le armi che hanno a disposizione.
In Italia il presidente del consiglio è Silvio Berlusconi, mia mamma dice che è un leccapiedi di Bush e che in Europa sta facendo fare all’Italia una figura da pagliacci, ad esempio quando ha dato del nazista a un deputato tedesco. Questo giudizio vale anche per le sue riforme sulla sanità e sulla scuola; Berlusconi è venuto su e si è fatto i miliardi grazie ai soldi sporchi della mafia e quando è salito al governo li ha ricambiati con cariche pubbliche e favori personali.
Dato che molti di quelli che sono al governo sono mafiosi fatti salire da Berlusconi, non sanno niente di quello che fanno e sono controllati da quest’ultimo. Il governo italiano ha voluto mandare dei soldati ad aiutare gli Stati Uniti; secondo me, i 19 soldati uccisi in Iraq non erano andati lì per liberare un popolo (dopo avergli mandato delle bombe), forse alcuni sì, ma la maggior parte di loro lo ha fatto perché il proprio stipendio veniva quadruplicato; a me, dispiace siano morti, perché erano comunque esseri umani, però hanno scelto di andare e sapevano di correre questo rischio.
Secondo me la televisione sta cercando di drammatizzare troppo questo evento, per esempio chiamandoli tutti «ragazzi», mentre alcuni avevano 50 anni.
Federico, terza media – Torino

E d ecco il giudizio globale dell’insegnante: «Partendo dagli Stati Uniti, hai fatto un utile giro in Italia, esprimendo giudizi non sempre sostenibili storicamente (devi fare attenzione a riportare giudizi ascoltati, se non sei sicuro di quanto affermi). Positiva la forma, a parte qualche incertezza (dovevi dichiarare perché hai scelto questo periodo storico)». Questo è il giudizio sintetico: «Forma: quasi buona. Contenuto: sufficiente».
La rivista missionaria della «famiglia» ha dato spazio ad un componimento scolastico, che coinvolge una mamma, un figlio di 14 anni e una docente. L’argomento è per noi centrale: la guerra.

Federico




Cuba fucila i dirottatori

Egregio direttore,
la visita di Lula, presidente del Brasile, a Cuba marca in maniera netta il diverso approccio dei paesi latinoamericani dalle prese di posizione europee. Mi pare il caso di ripensarle: dal punto di vista dell’informazione, innanzitutto, sono state stravolte.
La fucilazione dei tre dirottatori è stata presentata come se Cuba avesse innalzato un nuovo muro di Berlino; invece ha punito, in base alle sue leggi, dei dirottatori la cui azione non violava solo le leggi, ma si poneva contro lo stato, inserendosi nella guerra che gli Stati Uniti conducono da quasi 50 anni. Scandalizzarci di quelle esecuzioni, non mi pare che abbiamo titolo.
C’è un crimine più vasto, la guerra, che abbiamo approvato in Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Afghanistan, ecc.
Chi inizia una guerra sa di condannare a morte migliaia di innocenti e, tuttavia, abbiamo ritenuto percorribile questa strada. Guerra di bombardamento, basata sulla supremazia di chi la scatena, coperta da motivazioni umanitarie, quando si sa che tutte le guerre sono fatte per motivi inconfessabili, con l’aggravante di creare ad arte situazioni di scontro e presunte violazioni dei diritti umani (vedi la falsa strage di Racak o del mercato in Bosnia-Erzegovina). Guerre per espandere il dominio e mantenere l’ingiusta ripartizione dei beni, che condanna alla fame e alla morte milioni di persone.
Toando ai fatti, si è dimenticato che gli Stati Uniti usano affondare le imbarcazioni sottratte a Cuba. Inoltre, pur esistendo una regolamentazione legale degli espatri, essi la violano con la concessione di un lavoro e casa.
Un tempo la sopravvivenza di Cuba fu assicurata dall’Unione Sovietica. Ora la Russia ha ritirato il presidio militare che aveva sull’isola, e gli Stati Uniti attaccano, a suon di bombe, ogni stato che ritengano di porre sotto tiro.
Dunque, il succo vero della nostra meraviglia mi sembra quello di inchinarci ai desideri della superpotenza e di preparare il terreno alle sue future guerre. In fatto di democrazia, dubito che abbiamo il diritto di giudicare quella degli altri; mi parrebbe giusto fare il punto su quella di casa nostra.
Non credo che l’atteggiamento assunto nei confronti di Cuba possa essere d’aiuto, affinché la democrazia si accresca in questo paese. La democrazia esige comprensione e rispetto, non scontro, tantomeno ingerenze estee e collusione con dei lupi rapaci.
Lo sviluppo della democrazia a Cuba presuppone il venir meno dell’assedio degli Stati Uniti, non un rafforzamento o l’attacco finale. Ignorando le ragioni di Cuba, abbiamo anche sacrificato gli interessi delle imprese italiane ed europee. Anche questo sembra una costante della politica italiana ed europea: i nostri veri interessi scompaiono di fronte a quelli degli Usa.

Siamo contro la pena di morte in qualsiasi paese. Sul regime di Cuba abbiamo espresso il nostro parere con l’editoriale di gennaio 2003: parere che ribadiamo.

Giuseppe Torre




Che famiglia!

Cari missionari,
mi è capitata fra mano Missioni Consolata di luglio. Parlava di Etiopia e, visto che abbiamo un figlio etiope (Daniel, 10 anni), l’ho letta volentieri. In Etiopia abbiamo conosciuto padre Tarcisio Rossi, con cui abbiamo collaborato come famiglia e come associazione Addis Beteseb/Nuova Famiglia (Padova).
Alla fine della rivista, con mia grandissima sorpresa, ho trovato un articolo su Toribio (Colombia). Anche da questo paesino, sperduto sulle Ande, abbiamo una figlia indigena: Maria Elena. E voi siete anche lì!
Mi sento molto vicino ai missionari della Consolata (mia moglie è di Torino). La nostra famiglia è italiana-etiopica-colombiana, simile alla famiglia della Consolata (in piccolo naturalmente).
Continuate così. Dio vi benedica.
Vico Bertoli e famiglia
(via e-mail)

Una famiglia italiana-etiopica-colombiana, vicina alla Consolata. Che famiglia missionaria!

Vico Bertoli




Foto scandalose?

Spettabile redazione,
ho ricevuto il calendario 2004. Devo dire, però, che le immagini abbinate ai mesi di maggio e giugno mi hanno rattristato; pertanto non posso appenderlo in casa mia: la foto di giugno mi ricorda gli spettacoli mondani (in casa mia non c’è la televisione); la foto di maggio è un richiamo alla perversione sessuale che domina il mondo occidentale.
Perdonate la mia franchezza. Ma sentivo il dovere di esprimere il disagio che ho provato nello sfogliare il calendario.
Lettera firmata
Roveredo in Piano (PN)

Le immagini del «disagio» ritraggono una famiglia di indios yanomami (Brasile) al lavoro (sono «così» da circa 12 mila anni) e una danza cinese della dinastia Tang (del 700-800 d. C.).
Immagini scandalose? Non lo crediamo.

Lettera firmata




La guerra non piace, ma

Cari missionari,
le guerre sono sempre di più e le violenze sempre più atroci, anche perché troppi uomini sono affascinati dall’idea della guerra e provano un immenso piacere nel far male ad altri uomini o nel vedere, attraverso i mass media, scene reali o simulate di tortura, mutilazione, morte.
Riuscite a spiegare in altro modo il boom del «turismo di guerra», il crescente interesse che riscuotono i «war games della domenica» e le dimensioni assunte dal fenomeno del mercenariato?
Continuiamo pure a dire che guerra e terrorismo sono frutto dell’ingiustizia; ma diciamo anche che persino in Italia (che vari stereotipi vorrebbero abitata da uomini con una specialissima attitudine per la pace) la guerra piace, a tal punto che molti connazionali si arruolano nelle milizie irregolari e negli eserciti privati, quando vedono che non è possibile con le forze armate regolari.
Mario Pace
Fano (PS)
Post scriptum
E che dire della «battaglia delle arance» di Ivrea, dove, con il pretesto della fedeltà a tradizione e folclore, ogni anno decine di persone restano ferite in modo anche grave e oltre 2,5 milioni di arance vengono sprecate?
Come possiamo credere all’italiano amante della pace e alieno per natura da ciò che è violenza, quando si arriva a spendere 100 euro (in Cina è il mensile di un metalmeccanico) per salire sopra un carro del carnevale e partecipare al getto di arance da posizione privilegiata?

La guerra non piace a nessuno, ma… «serve». Almeno lo si spera e lo si fa credere sempre e dovunque.
Prima dell’ultimo conflitto contro l’Iraq, un editoriale rilevava: «Il motivo di fondo [per una guerra preventiva] pare essere la posizione geopolitica che l’Iran occupa nell’area medio-orientale. Il Medio Oriente, in particolare i tre stati maggiori produttori di petrolio e di gas naturale (Iraq, Iran e Arabia Saudita) è un’area vitale per l’economia degli Stati Uniti: potervi accedere liberamente è d’importanza fondamentale per tutto l’Occidente» (La Civiltà Cattolica, 18 gennaio 2003).
Che poi si raggiunga subito lo scopo è un altro discorso, e un altro ancora che si entri in un’«avventura senza ritorno». Giovanni Paolo II lo sta gridando da almeno 13 anni. Ma non è ascoltato.

Mario Pace




Missione a Plati

Cari missionari,
un amico mi ha consegnato Missioni Consolata indicandomi l’articolo «Lamponi a Natale» (dicembre 2003). Con mia grande sorpresa e gioia si afferma: «È giunta l’ora della missione ad gentes anche in Europa»!
Da anni vivo in un campo rom alla periferia della bella e turistica Pisa, mosso dalla convinzione che gli istituti missionari (appartengo ai Saveriani) oggi sono chiamati ad «allargare» ad intra la dimensione ad gentes… Mi rallegra sapere che voi ponete la questione sul tavolo. Vi fa onore. Buona missione.

L’articolo «Lamponi a Natale» riguarda Platì (RC), dove la missione «scotta». Anche per i missionari ad gentes.

p. Agostino Rota