NO ALLA ZIZZANIA

San Pedro / Incontro con Barthélemy Djabla (Costa d’Avorio)
Nato nel 1936, sacerdote dal 1964, rettore
del seminario di Abidjan, mons. Barthélemy Djabla
è da 12 anni vescovo di San Pedro, diocesi grande
tre volte il Veneto. Attento alla vita del paese,
ha partecipato al Forum per la riconciliazione
nazionale ed è impegnato nella ricostruzione
della convivenza tra tutte le popolazioni
della regione sud-occidentale della Costa d’Avorio.

Monsignore, qual è la situazione
attuale della Costa d’Avorio?

La popolazione della Costa d’Avorio, nel
suo insieme, è molto accogliente. Siamo
il paese dell’ospitalità e frateità.
Numerose persone dei paesi della Comunità
economica degli stati dell’Africa
dell’Ovest (Cedeao) e di altre parti
del continente sono immigrati nel nostro
paese. Il fenomeno si è accentuato
dopo l’indipendenza (1960). Li abbiamo
accolti e continuiamo ad accoglierli
frateamente. Vorrei ricordare
che la Costa d’Avorio è il paese al mondo
con la più alta percentuale di stranieri:
ufficialmente sono il 26%. È giusto
che questo si sappia all’estero.

Cos’è che attira tanti immigrati
nel paese?

Prima di tutto cercano pace; poi guadagnarsi
da vivere. Abbiamo milioni di
ettari di foresta e le porte del commercio
sono aperte a tutti. Questi nostri
fratelli si sono stabiliti in città e villaggi
per il piccolo commercio; altri sfruttano
le foreste con la coltura del cacao,
caucciù, caffè e piantagioni varie.
Ben presto essi hanno trovato tempo
per il divertimento e per lavorare, naturalmente;
grazie all’accoglienza fratea,
si sono bene integrati nelle nostre
comunità e nei villaggi.

Sembra che la pacifica convivenza
tra locali e immigrati dal
Burkina Faso sia in pericolo:
monsignore, cosa sta capitando
realmente?

Come ho già detto, la Costa d’Avorio è
un paese di accoglienza: i burkinabé
vivono mescolati ai vari gruppi etnici
locali. Non c’erano problemi fino a pochi
anni fa. Per capire ciò che sta accadendo,
bisogna analizzare le cose in
profondità e non è difficile.
Nel 1990 il presidente Houphouët Boigny
mise un economista a capo del governo:
fu un errore, anche perché non
risolse i problemi economici del paese.
Questo primo ministro si chiama Alassane
Dramane Ouattara: approfittando
della sua posizione, ha iniziato un lavoro
sotterraneo per destabilizzare la
situazione. Aveva ambizioni politiche,
ma ha agito in modo scorretto: ha messo
gli stranieri in opposizione agli avoriani.
Questa è la realtà.
La situazione è precipitata col colpo di
stato del natale 1999: in varie città ci
sono stati disordini socio-politici, violenze
e scontri sanguinosi. Ma il male
viene da là.
Qualcuno ha parlato di xenofobia…
Gli scontri etnici non hanno nulla da
spartire con la xenofobia e il razzismo,
che in Costa d’Avorio non esistono affatto.
Tutto viene da là: alcuni politici,
calpestando leggi e diritto, sfruttano
le differenze etniche degli autoctoni
per metterli in contrasto tra loro
e i burkinabé contro le popolazioni locali
della regione sud-occidentale del
paese.

Quindi anche nella diocesi di San
Pedro si sono avute violenze?

Nel novembre 1999, dopo decenni di
pacifica convivenza con gli stranieri,
commercianti e agricoltori, nella parrocchia
di Tabou i burkinabé si sono
scontrati con i locali sulla questione
terriera. Alcuni sono morti. Ma il problema
è fondiario e non etnico.
Per sfuggire alle violenze, 2-3 mila persone
si sono rifugiate nella missione,
dove hanno trovato protezione e aiuti
per sopravvivere. Superata l’emergenza,
bisognava trovare i mezzi per
promuovere la riconciliazione: la missione
cattolica di Tabou ha radunato
a Grebo i preti della diocesi insieme ai
capi locali e burkinabé per discutere,
chiarire e appianare i problemi tra stranieri
e autoctoni. Abbiamo concluso
l’incontro con la messa e tutti si sono
stretti la mano.

Si è parlato pure di guerra di religione:
come sono i rapporti tra
cristiani e musulmani?

In Costa d’Avorio le relazioni tra cristiani
e musulmani sono state sempre
buone e amichevoli. Poi è venuto un
individuo che, per motivi politici, ha
seminato la zizzania della discordia tra
autoctoni e stranieri, tra cristiani e musulmani.
Per colpa di tale individuo ci
sono state gravi incomprensioni nel
paese, sfociate in distruzioni e saccheggi
di edifici religiosi nell’ottobre
del 1999. I musulmani si sono armati.
Sono state trovate armi nascoste nelle
moschee: una scoperta che non ha fatto
piacere ai cristiani.
Anche in questa diocesi cristiani e musulmani
vivevano in pace, finché il seminatore
di zizzania non ha portato la
discordia. Ora la situazione è migliorata;
ma bisogna lavorare per ricucire
gli strappi e riparare il male fatto.
C’è chi afferma che, dopo i presidenti
cristiani e del sud, sia
ora che un uomo del nord e musulmano
guidi le sorti del paese.
Dall’indipendenza a oggi nella Costa
d’Avorio si sono succeduti presidenti
cattolici: Boigny, Bédié e l’attuale
Gbagbo. Ma il ragionamento è del tutto
sbagliato. La presidenza del paese
non è un problema di chiesa o di religione,
ma di gioco democratico. La
gente sceglie il candidato che presenta
il programma migliore. La chiesa
non s’immischia in politica, nel senso
che non si schiera con nessuno, né indica
quale candidato votare, ma lascia
ai fedeli piena libertà di scelta.
E poi, dividere il paese tra nord musulmano
e sud cristiano è totalmente falso;
tale divisione esiste solo nella testa
dei politici. Nel nord i musulmani sono
più numerosi che nel resto del paese,
ma ci sono anche molti cristiani e la
maggioranza della popolazione segue
la religione tradizionale e simpatizza
più per il cristianesimo che per l’islam.

Qual è il ruolo della chiesa nella
vita del paese?

La maggioranza degli avoriani pratica
la religione tradizionale. I cristiani non
raggiungono il 20%. La chiesa cattolica
è una minoranza, ma gode di grande
prestigio agli occhi di tutti, cristiani,
pagani e musulmani, a tale punto
che, quando sorge una situazione difficile,
tutti guardano alla chiesa, ai vescovi,
a cosa dicono e come si comportano;
e i loro suggerimenti vengono
accolti con rispetto e attenzione.
Tale prestigio deriva dal fatto che la
chiesa lavora per la pace e la giustizia,
è coinvolta nell’azione sociale, educazione
e campo sanitario per il bene di
tutta la popolazione, senza alcuna distinzione:
la chiesa è per tutti e, come
dice il papa, «è esperta in umanità».
Monsignore, lei ha partecipato
al Forum per la riconciliazione…
Tra ottobre e dicembre 2001 si è svolto
tale evento che abbiamo accolto con
favore. Vi ho partecipato come rappresentante
della chiesa e come testimone
dei problemi che hanno provocato
le violenze nella diocesi. Oltre 700 delegati
di partiti politici e gruppi religiosi
hanno affermato la volontà di rimarginare
le ferite e ricostruire la convivenza
pacifica delle varie componenti
sociali. Sono state prese delle decisioni,
che ora devono essere attuate. Il
vero lavoro deve ancora incominciare e
siamo tutti coinvolti e responsabili.
Anche a San Pedro vogliamo contribuire
a tale processo. Stiamo preparando
un sinodo dal tema: «Annunciare
la buona novella di Gesù Cristo alle
popolazioni del sud-ovest della Costa
d’Avorio». Usiamo il plurale di proposito,
poiché tali popolazioni, autoctone
e straniere, sono numerose, ma devono
costituire una famiglia unica nel
sud-ovest avoriano; tutte devono vivere
in pace. È questa la missione nostra
e della chiesa in Costa d’Avorio: far sì
che tutte le etnie vivano e lavorino frateamente.

A proposito, qual è la situazione
della diocesi di San Pedro?

È una diocesi giovane: è stata creata il
23 ottobre del 1989, staccandola dal
territorio di Gagnoa. Si estende per una
superficie di 35 mila kmq e conta oltre
un milione di abitanti: è una popolazione
cosmopolita, composta da stranieri
di molte nazionalità africane e
tutte le etnie autoctone del paese.
In questi 10 anni abbiamo accelerato
l’organizzazione pastorale con la creazione
di nuove parrocchie: ora sono 13.
Abbiamo un buon numero di agenti di
pastorale: missionari stranieri, preti fidei
donum, tre sacerdoti autoctoni e
numerose suore: tutti, missionari e
missionarie, religiosi e clero locale lavorano
insieme in perfetta comunione.
Inoltre abbiamo trasferito la cattedrale
dalla città in questa zona, poiché la
cappella costruita nel primitivo quartiere
era troppo piccola e non c’è spazio
per sviluppare altre opere. In questa
zona, ribattezzata quartiere cattedrale,
abbiamo ottenuto un grande
terreno in cui sono stati già costruiti
un centro di formazione, l’episcopio,
una scuola cattolica e un grande salone,
che per ora funge anche da chiesa
parrocchiale.
La cattedrale è ancora in fase di progettazione;
ma un giorno riusciremo a
realizzare anche quest’opera.

Quali problemi e quali speranze
per San Pedro?

La regione del sud-ovest è stata trascurata
prima e dopo l’indipendenza.
La diocesi è molto estesa e buona parte
è foresta. Fino a una dozzina di anni
fa una pista congiungeva Abidjan a
San Pedro e Tabou. Ora abbiamo la strada
asfaltata che lega la capitale alla
frontiera con la Liberia. Ma le vie di comunicazione
con l’interno sono ancora
costituite da piste e sentirneri impraticabili,
specialmente durante i mesi delle
piogge. Speriamo che, con lo sviluppo
economico della regione, sia possibile
estendere l’evangelizzazione anche a
quei villaggi che non hanno ancora incontrato
un missionario.
Inoltre le strutture (scuole, chiese…)
sono scarse e mancano mezzi e personale
per costruirle.
La pastorale vocazionale è una priorità
della diocesi. Le vocazioni ci sono; bisogna
seguirle e formarle per avere preti
autoctoni. Abbiamo due diaconi diocesani;
presto saranno ordinati preti.
La carenza maggiore riguarda le comunicazioni
sociali, indispensabili per
l’evangelizzazione: abbiamo bisogno di
una radio cattolica, giornali e pubblicazioni
di vario genere per trasmettere
il messaggio del vangelo anche ai villaggi
più isolati.

Quali sono le iniziative più significative
nel campo della promozione
umana?

La Caritas è attiva in tutte le parrocchie.
Religiosi e religiose sono impegnati
in numerose iniziative di promozione
umana, come le varie attività di
formazione umana e religiosa che i padri
della Consolata hanno intrapreso
nella baraccopoli di San Pedro; un fratello
della Consolata si occupa della salute,
con il dispensario di Grand Béréby
e la formazione di agenti di pastorale
sanitaria nelle comunità della foresta.
In molte comunità esistono scuole di
alfabetizzazione.

Un’ultima domanda, monsignore:
cosa si aspetta per il futuro
dai missionari della Consolata?

Prima di tutto li ringrazio per aver portato
nella diocesi uno spirito veramente
missionario e un entusiasmo di cui
abbiamo bisogno. Grazie soprattutto
per la disponibilità: hanno scelto di lavorare
nella baraccopoli del Bardot, la
zona più difficile della diocesi; hanno
aperto una missione a Sago, nel cuore
della foresta; hanno accettato una terza
missione a Grand Béréby.

Per il futuro? Auguro loro di continuare
a lavorare come sanno fare. Se aprissero
una nuova missione, non potrei
chiedere di più.

Benedetto Bellesi

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