IRAQ – Quelle pesantissime stellette

È giusto, opportuno e coerente il ruolo della chiesa nel mondo militare?
È compatibile con gli insegnamenti di Gesù Cristo la presenza di cappellani (con tanto di gradi) sui fronti di guerra?
Con l’accurata analisi di un sacerdote di Pax Christi e un’intervista a don Mariano, cappellano militare italiano a Nassiriya, continuiamo il nostro viaggio critico all’interno della guerra irachena.

UN RUOLO DA DISCUTERE
«“Senza far uso strumentale della storia, senza intenti di polemica fine a se stessa, Pax Christi chiede, nuovamente, che si ritorni a discutere sul ruolo dei cappellani militari, non per togliere valore alla presenza e all’annuncio cristiano tra quanti, soprattutto giovani, stanno vivendo la vita militare, ma per essere più liberi, senza privilegi e senza stellette”.
Sono parole che si leggevano nel comunicato di Pax Christi distribuito a Barbiana il 26 giugno ’97 in occasione del 30° anniversario della morte di don Milani. Parole che non hanno smarrito lo smalto dell’attualità nell’anno del giubileo».
Iniziava così l’editoriale dell’ottobre 2000 di Mosaico di pace, la rivista promossa da Pax Christi e voluta da don Tonino Bello, presidente del movimento fino al 20 aprile 1993, giorno della sua morte. Queste riflessioni mi sono ritornate alla mente nel mio ultimo viaggio in Iraq lo scorso novembre 2003.
Con una piccola delegazione di Pax Christi siamo stati più volte in quella terra segnata da troppe guerre, passate e presenti, che hanno sempre visto un ruolo attivo anche dell’Italia: vendita a Saddam Hussein di armi, mine, gas e, ora, coinvolti – di fatto – in una presenza militare che si può anche chiamare operazione di pace, ma è, a tutti gli effetti, una presenza in zona di guerra.
E se in Iraq la guerra non è finita, come sostengono anche alcuni autorevoli generali italiani, allora anche l’Italia è in guerra e i nostri militari sono andati… in guerra. Certo, con tutti i buoni propositi del caso, con scopi di pace, si dice. Ma, come afferma il papa nel messaggio per la Giornata mondiale della pace: «… i governi democratici ben sanno che l’uso della forza contro i terroristi non può giustificare la rinuncia ai prìncipi di uno stato di diritto. Sarebbero scelte politiche inaccettabili quelle che ricercassero il successo senza tener conto dei fondamentali diritti dell’uomo: il fine non giustifica mai i mezzi!».

A IMMAGINE DI… BUSH
In questo ultimo viaggio, e anche nello scorso maggio 2003, a Mosul, nel Nord Iraq, dopo aver partecipato alla consacrazione episcopale di padre Louis Sako, vescovo di Kirkuk, ho avuto modo di incontrare alcuni cappellani militari Usa. Il loro ragionamento è lineare, semplice: sembra di sentire parlare Bush in persona. E dire che un cappellano dovrebbe fare riferimento quantomeno al vangelo e al magistero della chiesa. Non c’è dubbio che le posizioni del papa siano abbastanza lontane da quelle di Bush: la guerra è avvertita come avventura senza ritorno, sconfitta dell’umanità. Anche il papa è un pacifista, disfattista e amico di Saddam o degli integralisti islamici?
«Siamo venuti in Iraq perché Saddam doveva essere fermato in quanto troppo pericoloso – mi dice Chester Egert, cappellano militare dell’esercito Usa – perché l’Iraq era collegato ad Al Qaeda e preparava attentati terroristici in tutto il mondo. Siamo qui non per fare la guerra ma per portare pace. In alcuni casi, la pace va imposta».
Sono senza parole. Cerco di dire qualcosa, ma don Chester è determinato: «Sì, la pace si impone, come stiamo facendo noi».
E lo scorso mese di maggio, chiedevo ad un altro cappellano Usa, come conciliasse il vangelo o il testo di Isaia «forgeranno le loro spade in vomeri», con la guerra, con i bombardamenti e l’uccisione di tanti innocenti. Lui mi rispondeva di aver avuto una visione (e anche qui siamo sulla linea religiosa-illuminata di Bush) in cui il Signore lo chiamava a questo ruolo di difensore e portatore di pace.
Ci si rende conto di come il ruolo di militari, arruoli anche il vangelo e Gesù Cristo. Sembra fuori da ogni logica la vita e l’insegnamento di Gesù, le sue parole «rimetti la spada nel fodero…».

«EMBEDDED»: CAPPELLANI
COME GIORNALISTI
Si è usata molto la parola embedded (arruolati) per i giornalisti. Credo che a maggiore ragione si possa e si debba usare per i cappellani militari, anche perché hanno pure le stellette! Per questo può essere interessante ripercorrere la riflessione che, in questi anni, Pax Christi ha cercato di fare sul ruolo della chiesa e dei cappellani militari all’interno dell’esercito.
«Il 19 novembre prossimo – continuava l’editoriale di Mosaico di pace – piazza S. Pietro ospiterà il giubileo dei militari e francamente, consideriamo quest’appuntamento un “segno dei tempi” che rattrista e inquieta. Un altro dei segnali che ci preoccupano perché vediamo crescere una cultura di guerra e di morte nella politica, nell’economia, nella società, e nella chiesa. Non dimentichiamo che soltanto il 6 maggio 1999 si è concluso il «Primo sinodo della chiesa ordinariato militare in Italia» evento assolutamente inedito, destinato a rafforzare l’attuale modalità di presenza di sacerdoti e vescovi nel mondo militare. Mentre cresce il numero delle guerre, aumenta vertiginosamente l’export di armi (in Italia +40%), si studiano e si sperimentano nuovi sistemi d’arma per realizzare guerre umanitarie con bombe intelligenti, ci sembra davvero anacronistico e incomprensibile alla luce del vangelo, parlare di chiesa militare e di giubileo dei militari.
Ai nn .572-573 del documento finale del Sinodo citato, nel capitolo intitolato La via militare alle Beatitudini si legge: «Consapevole che Dio ha affidato la costruzione di un mondo nuovo ai poveri di spirito, ai miti, ai misericordiosi, ai puri di cuore, agli assetati di giustizia, il militare cristiano che porta le armi e sa di poter essere costretto ad usarle, sappia che la sua vita è inserita nello spirito delle Beatitudini che gli conferisce il ruolo di “operatore di pace”».
Risulta davvero interessante leggere queste affermazioni alla luce di quanto è scritto nei «Lineamenti di sviluppo delle forze armate negli anni ’90», documento presentato in Parlamento nell’ottobre ’91. Lì si parla di «concetti strategici di difesa degli interessi vitali ovunque minacciati o compromessi»; e questi interessi vitali da difendere riguardano «le materie prime necessarie alle economie dei paesi industrializzati». Onestamente non ci sembra che questa prospettiva possa portare a definire i militari cristiani «operatori di pace».
«In occasione del giubileo dei militari – continua Mosaico di pace – diventa auspicabile all’interno della chiesa italiana una riflessione aperta, serena ma ferma sul ruolo dei cappellani militari e sulla loro completa integrazione all’interno dell’apparato militare. Ma l’appuntamento giubilare è anche l’occasione per alcune domande.
Non potrebbe essere questo il momento significativo, in cui i cappellani scelgano di rinunciare alle stellette e ai privilegi che esse comportano? Perché, infine, non cogliere questo momento propizio per chiedere perdono a don Milani e a tutti coloro che hanno scelto l’obiezione di coscienza? Ci spiace ricordare che la sentenza di condanna non è stata mai cancellata e pesa ancora nei registri penali ai danni del priore di Barbiana».
Mi sembra che questo editoriale, riportato quasi integralmente, ponga bene la questione. Oggi più che mai urgente perché la guerra è una tragica realtà che ci vede coinvolti.
Pax Christi aveva già posto il problema con un appello ai vertici ecclesiali e ai politici, senza molto successo, in occasione del Convegno della chiesa italiana a Palermo, nel 1995. E ancora in occasione del 30° anniversario della morte di don Lorenzo Milani, come si ricordava nell’editoriale di Mosaico già citato.
Anche per il Congresso eucaristico a Bologna, dove è prevista una celebrazione eucaristica presieduta dall’ordinario militare, Pax Christi interviene chiedendo di «aprire un dialogo sul ruolo dei cappellani militari: la loro smilitarizzazione potrebbe essere un gesto significativo e concreto di conversione, proprio in occasione del Congresso eucaristico, anche alla luce del giubileo del 2000, per iniziare il terzo millennio più fedeli al vangelo di Cristo nostra pace» (20 settembre ’97).
L’appuntamento più importante su questo tema dei cappellani militari è stato senza dubbio il seminario di studio che si è tenuto alla Casa per la pace di Firenze nel novembre ’97, promosso in collaborazione con il Centro studi economici e sociali per la pace: «Cappellani militari oggi e… domani», con relazioni di giuristi, di un rappresentante autorevole dell’Ordinariato militare e di Pax Christi.
«Si è ribadita pertanto la necessità – si legge nel comunicato finale – di un sempre maggiore impegno non solo della chiesa presente tra le forze armate, di cui s’è riscontrata la disponibilità al dialogo, ma di tutta la chiesa italiana per un cammino sempre più determinato sulla via della nonviolenza e della pace».
È stata la prima e per ora l’unica occasione di confronto ufficiale tra un rappresentante dell’ordinariato militare e Pax Christi. C’è da augurarsi che il dialogo possa continuare, alla luce delle nuove situazioni di guerra in atto.
Per concludere, vanno rilanciate alcune domande.

PARLIAMO DI GRADI
E DI… SOLDI
Perché non scegliere anche per i cappellani nell’esercito un ruolo di presenza sul modello della polizia di stato o degli istituti penitenziali, dove ci sono dei cappellani, con accordi ma senza essere inquadrati nella struttura? Insomma, senza stellette e senza (so di toccare un tasto delicato…) stipendio. Lo stipendio di un cappellano militare è quasi il triplo di quanto percepisce un normale prete dall’Istituto di sostentamento del clero. E, oltre alla tredicesima, sono coperte anche tutte le spese per ufficio, telefono, macchina e autista. Questo mi diceva tempo fa un amico cappellano-capitano. Stipendi, quindi, in rapporto ai gradi militari. E l’ordinario militare è equiparato ad un generale. Perché allora non tornare ad essere, preti come gli altri, inseriti in una diocesi come gli altri e non in una diocesi castrense come avviene oggi?
Questo sicuramente aiuterebbe ad essere più liberi. A non rispondere come mons. Marra, già ordinario militare negli anni passati, che parlando della situazione balcanica (non c’era stato ancora l’intervento militare della Nato) ebbe a dire al settimanale diocesano di Udine, La vita cattolica: «Monsignor Bettazzi e il compianto monsignor Bello scrivevano che era urgente operare per risolvere il problema della Bosnia- Erzegovina, ma imploravano che non si usasse la forza: una posizione troppo idealistica e, a mio avviso, inoperosa e inconcludente».

IL RIPENSAMENTO
DI MONS. SUDAR
Due citazioni, autorevoli, possono essere la conclusione di quanto fin qui esposto, con la speranza che il tema della guerra e della pace, della violenza e nonviolenza possa essere di nuovo affrontato anche con chi crede che l’unica strada sia quella delle armi.
La prima citazione è di mons. Luigi Bettazzi, già presidente di Pax Christi che, subito dopo la tragedia di Nassiriya del novembre 2003, scrive: «È tardi, ma non troppo tardi, per ridare all’Onu non una funzione di servile copertura, ma un’autentica autorità per aiutare il popolo iracheno a realizzare la democrazia e lo sviluppo, con un governo non sospetto e una ricostruzione non interessata. Lo chiede la volontà di pace della maggioranza dell’umanità, lo esige il sangue di questi nostri giovani morti nell’illusione di poter diventare operatori di pace».
La seconda, che ci riporta in Bosnia, è del vescovo ausiliare di Sarajevo, mons. Pero Sudar, che sulla rivista dell’Azione cattolica italiana Segno nel mondo, n. 4 del 16 marzo 2003, scrive:
«La guerra nella mia patria e le sue tragiche conseguenze mi hanno costretto ad immaginare il corso della storia senza le guerre, con cui si intendeva combattere le ingiustizie ed abbattere i sistemi ingiusti. Riconosco di essere stato convinto anch’io che l’uso della violenza sia utile e necessario quando si tratta della libertà dei popoli. Dopo aver visto e vissuto da vicino che cosa vuol dire la guerra di oggi, non la penso più così. Sono profondamente convinto, e lo potrei provare, che l’uso della violenza ha portato sempre un peggioramento».
«(…) tutto questo obbliga la chiesa – continua Sudar – a farsi segno di contraddizione e ad unire la sua voce a tutte quelle che gridano la pace anche nelle condizioni che, a prima vista, postulerebbero la guerra… Occorre applicare letteralmente il monito di Cristo rivolto a Pietro che con la spada voleva proteggere la vita del giusto e dell’innocente: … basta così! (Lc.22,5). Oggi l’unica scelta della chiesa è la nonviolenza, perché questa è l’unica strada, magari lunga e sofferente, alla pace che viene garantita dalla giustizia».

COMANDI, DON MARIANO!

Nassiriya, natale 2003. Nella base italiana di Nassiriya (An Nassiryiah, nella dizione locale) l’inverno picchia duro ed al freddo si sommano la paura e la nostalgia per una casa lontana. Molti soldati cercano conforto in Cristo, in quella chiesa che non abbandona nessuno e che, in questo sperduto angolo di deserto iracheno, è rappresentata da don Mariano.
Don Mariano è un bell’uomo dallo sguardo fiero ed il fisico scattante. Appuntata sul petto ha una croce al posto del grado da capitano che potrebbe mettere. Forse fra tutti quelli che ho conosciuto è l’ufficiale più ruvido e netto.
È il cappellano militare della Brigata Sassari ovvero il fulcro del contingente militare italiano che da diversi mesi opera a Nassiriya, nel sud dell’Iraq.

«Noi siamo qui per difendere e non per offendere», mi dice un giorno durante un’intervista.
«E la pace va difesa anche con le armi in pugno come stanno facendo questi soldati. Perché dovremmo andare via? Ci sono stati dei morti che hanno versato il sangue per la patria e noi cosa dovremmo fare per onorarli? Scappare? Andare via?».
Domando: cosa risponde a quei settori della chiesa cattolica che si oppongono a questa guerra e alla conseguente occupazione militare? Non l’avessi mai chiesto, don Mariano mi fulmina con le parole e con lo sguardo: «Noi italiani non siamo in guerra con nessuno e soprattutto non siamo una forza di occupazione, questo deve essere ben chiaro. Noi siamo operatori di pace. A quei settori della chiesa che vogliono la pace a tutti i costi non so cosa dire, forse che sono lontani dal mondo reale quello che c’è qui a Nassiriya…».
Cosa pensa dei pacifisti?, insisto. «Ho un senso di nausea quando vedo certe manifestazioni… Ognuno poi è libero di pensare un po’ quello che vuole, anche mio fratello è un pacifista ed io non posso certo impedirglielo. Ma quando vedo certi personaggi… Ho sentito che ultimamente alcune Ong che avevano tanto criticato l’intervento armato hanno chiesto una scorta armata per entrare nel paese. E io non gli avrei dato un bel nulla! Vi siete opposti alle armi? Siete pacifisti? Allora dovete rifiutare le armi sempre non solo quando vi fa comodo, quando siete a casa vostra comodi comodi. E poi come si chiama quel medico…. milanese?».
Gino Strada?, domando incuriosito. «Ecco quello non lo posso proprio sopportare, da lui non prenderei nemmeno una medicina perché è un assassino!».
Come un assassino? Gino Strada? E perché?, chiedo allibito. «Perché lui con il suo pacifismo voleva tenere in piedi Saddam che era un killer, un dittatore spietato e quindi ne era complice!».
Meglio cambiare discorso… E per natale, don Mariano, cosa farete a mezzanotte? «Faremo la messa nella piazza della base, i carri armati verranno disposti per sembrare una piccola grotta e lì celebreremo il rito della nascita di Gesù».
Vorrei tanto dirgli: «Ma come Gesù, l’uomo della fratellanza e del perdono, lo fate nascere in mezzo a dei carri armati?», ma fedele al mio ruolo non dico nulla, anzi faccio il solito sorrisetto di circostanza e gli auguri di buon natale.
La tenda che funge da chiesa per tutto il campo è accogliente e ben riscaldata anche se piccolina (può contenere al massimo un centinaio di persone).
Conclude don Mariano: «Molti ragazzi stanno riscoprendo la fede proprio in questo frangente, in questa situazione di pericolo e lontananza dagli affetti di casa. Io sono qui per questo, per aiutare le anime di questi uomini che sono disposti a sacrificarsi per il bene comune».

Fuori dalla tenda è buio assoluto. La base, oscurata nella notte per motivi di sicurezza, è situata in mezzo al deserto iracheno.
Alcuni soldati, finita la messa di mezzanotte, imbracciano il fucile ed escono di pattuglia. Don Mariano li ha appena benedetti. Don Mariano ha appena detto loro che quel fucile è uno strumento di pace.

Renato Sacco

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