«Benché l’onda delle parole ci sovrasti sempre, le nostre profondità sono sempre silenti» (Kahlil Gibran).
Tema impegnativo e carico di responsabilità per noi cristiani, al tempo stesso delicato e pericoloso, quello di misurarsi con le parole, con ciò che esse svelano e a volte nascondono; con la loro portata rivoluzionaria e conservatrice allo stesso tempo.
Dio è il verbo fatto carne; ma feticci possono essere le parole multiuso: equivoche e prestanti a ogni uso. L’ossimoro, classica figura retorica, nella quale convivono due opposti, si è autopromosso come forma concettuale in cui convivono due contrasti: l’affermazione di una realtà con la sua negazione. Guerra e Pace, nel vocabolario del potere fanno ormai rima, ballano insieme nel caleidoscopio del pensiero dominante, battezzandone il matrimonio come «intervento umanitario».
La prosa volgare del potere ha prostituito le parole, che ormai non significano nulla, «non commuovono più – scrive Juan Arias – non gridano dentro, non innamorano».
Ivan Illich, nel meeting di San Rossore che precedette il G8 di Genova, mise in guardia contro le «parole di plastica», che inquinano, sterilizzano, occultano i fenomeni che vorrebbero descrivere.
N ell’età adulta in cui ci troviamo, le nostre parole non hanno più l’innocenza antica e il linguaggio da mezzo di comunicazione si perverte in strumento di depistaggio.
«C ome scrivere, quali parole utilizzare, quando tutte le parole sono state ormai contaminate? Come restituire loro l’originale bellezza, la loro purezza?» si domandava il 27 gennaio scorso, nel giorno della Memoria, lo scrittore Elie Diesel, ebreo scampato al campo di Buchenwald.
Ma già un saggio orientale diceva che, se lui avesse avuto per un attimo l’onnipotenza di Dio, l’unico miracolo che avrebbe fatto sarebbe stato quello di ridare alle parole il senso originario.
Miracolo necessario ed urgente, tanto più oggi che di questa sindrome dei significati stravolti sono affette le parole più nobili, quelle che più ci coinvolgono nei sentimenti e nelle aspirazioni: amore, pace, libertà…
La «voce del padrone» non ama che proclamare se stessa; le sue parole, disancorate dalla realtà, sono puramente autoreferenziali, quando non vengono usate per occultare, appunto, ciò che dovrebbero svelare. Cessata la loro originaria e nobile funzione, quella di «tradere», consegnare, comunicare (di cui il termine «tradizione»), hanno finito per tradire (di qui il «tradimento») la realtà e, quindi, se stesse, la loro vocazione.
A noi il compito di sottrarle a questa losca manipolazione e restituirle alla loro originaria vocazione.
Non è un caso che la proposta della Rosa Bianca per una nuova politica inizia con questa sfida.
«L’argilla del mondo ha bisogno di un soffio. Il soffio delle parole. Quando l’argilla e il soffio si incontrano, sgorga la vita. Così è successo all’inizio, nella notte dei tempi, così accade ogni giorno. Da una parte la materia, un pezzo di terra, un pò di carne. Dall’altra parole. Parole che s’insinuano nelle crepe della materia e la mettono in moto. Parole che penetrano la terra, rendendola fertile. Parole che fanno l’amore con la carne così da far nascere i corpi delle donne e degli uomini.
Oggi, al posto di parole, bolle di sapone, leggere, libere, iridescenti ma vuote. Ed è per questo che i nostri corpi non sussultano più e dormiamo senza sogni e ci svegliamo con l’idea di sapere già tutto a memoria, di conoscere ormai l’esistenza in ogni suo penoso ingranaggio e che nulla più ci possa stupire o insegnare qualcosa. Siamo senza nome, persi in un dormiveglia. Ma basta il suono di una frase giusta e in un attimo siamo di nuovo noi: nome e cognome, fame e curiosità, desiderio di felicità e voglia di giustizia».
Don Aldo Antonelli