Annalena Tonelli Missionaria laica, per 33 anni a servizio dei più poveri e disprezzati tra le popolazioni somale, Annalena Tonelli ha testimoniato l’amore di Dio con radicalità evangelica fino alle estreme conseguenze. È salita alla ribalta solo dopo la sua morte, assassinata nel suo ospedale, a 60 anni.
Piccola ed esile come una canna, viso magro circondato dal velo, occhi azzurri di bambina, sorriso disarmante e volontà di ferro: il ritratto di Annalena Tonelli è presto fatto. Ha speso oltre metà della vita tra le popolazioni somale musulmane, con un solo scopo: amare Cristo nei più poveri dei poveri, fino alla morte, 5 ottobre 2003, assassinata alla fine del servizio ordinario ai suoi malati.
Ha sempre aborrito riflettori e pubblicità. In rare occasioni ha parlato di sé e del suo lavoro, per poi rammaricarsi. Nel dicembre 2001, in un convegno per la Pastorale della salute tenuto in Vaticano, costretta dagli amici, accettò di mettere in pubblico la sua storia straordinaria: è il suo «testamento missionario».
IL PRIMO AMORE
«Sono nata a Forlì, il 2 aprile del 1943. Scelsi di essere per gli altri che ero ancora bambina» cominciava così le sue testimonianze.
Mentre frequentava l’Università di Bologna, ferquentò movimenti giovanili «terzomondisti»: si appassionò alla vita di Albert Schweitzer e all’opera dei missionari.
Laureata in giurisprudenza, per sei anni prestò servizio ai poveri della città natale, ai bambini e bambine orfani e disabili.
«Credevo di non potermi donare totalmente rimanendo nel mio paese: i confini della mia azione mi sembravano così stretti, asfittici». Sognava l’India; scelse l’Africa, nonostante i familiari la sconsigliassero. «Partii decisa a gridare il vangelo con la vita, sulla scia di Charles de Foucauld, che aveva infiammato la mia esistenza. Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri in Lui».
All’inizio del 1969 era a Chinga, in Kenya, insegnante nella scuola secondaria della missione di Karima; l’anno seguente in quella governativa di Wajir, dove un altro romagnolo, Salvatore Baldazzi, missionario della Consolata, aveva avviato una Girl’s Town, per bambine orfane di guerre e carestie. Lo stesso anno fu raggiunta da Maria Teresa e insieme iniziarono una comunità.
Gli inizi non furono facili in quella regione desertica del nord-est del Kenya, tra popolazioni somale poverissime, rigidamente musulmane. Quando si seppe dell’arrivo di una maestrina bianca, gli studenti, quasi suoi coetanei o di poco più giovani, giurarono al preside che le avrebbero impedito di entrare in classe: vi insegnò fino al 1974 e fu pure preside della scuola secondaria di Mandera. Oggi molti di essi occupano posizioni importanti nella vita politica ed economica del Kenya e si vantano di averla avuta come insegnante.
«Quasi subito m’innamorai di un bimbo ammalato di sickle cell (anemia falciforme) e fame – racconta Annalena -. Gli donai il sangue e supplicai gli studenti di fare altrettanto. Uno di loro lo donò e dopo di lui tanti altri, vincendo così la resistenza dei pregiudizi. Fu la mia prima esperienza in cui, in un contesto islamico, l’amore generò amore».
Nel frattempo aprì un Centro di riabilitazione per bambini poliomielitici, ciechi, sordi, epilettici. Altre amiche romagnole si unirono a loro, diventando mamme a tempo pieno dei disabili.
«Eravamo una comunità di sette donne, tutte, in maniera e misura diverse, assetate di Dio. Quando capivamo che stavamo per perdere il senso del nostro servizio e la capacità di amare, ci ritiravamo in un eremo, per uno o più giorni di silenzio, ai piedi di Dio: là ritrovavamo equilibrio, saggezza, speranza e forza per combattere la battaglia di ogni giorno, prima di tutto con ciò che ci tiene schiavi dentro».
Mentre le compagne portavano avanti il Centro, Annalena frequentava il reparto dei tubercolosi dell’ospedale di Wajir. «M’innamorai di loro e fu amore per la vita. Erano in un reparto da disperati: li servivo sulle ginocchia; stavo loro accanto quando si aggravavano e non avevano nessuno che si occupasse di loro. Non sapevo nulla di medicina. Cominciai a studiare e osservare, poi a supervisionare la cura dei pazienti dopo la dimissione dall’ospedale».
UN PROGETTO PILOTA
La scoperta di una nuova medicina rendeva possibile curare la Tbc in 6 mesi, anziché i 12-18 richiesti fino allora, purché la cura fosse continua e regolare: condizioni impossibili per i nomadi che, al primo segno di miglioramento, ritornavano alla vita randagia.
Nel 1976 il governo del Kenya le affidò la direzione di un progetto pilota per il controllo e cura della tubercolosi a Wajir. Annalena inventò un sistema per garantire le terapie giornaliere per i sei mesi necessari, senza cambiare le abitudini dei pazienti: organizzò centri di cura a cielo aperto, chiamati T.B. Manyatta (villaggio). I nomadi arrivavano con le loro capanne legate sulla groppa dei cammelli, le smontavano e ricostruivano la loro abitazione. Fatte le diagnosi con l’esame dello sputo al microscopio, per sei mesi le foiture dei farmaci erano assolutamente regolari e l’ingestione rigorosamente supervisionata. Quando il malato era guarito, veniva sparsa la voce e la famiglia del paziente appariva magicamente in una settimana o poco più per riportarlo nel deserto.
«La T.B. Manyatta fu una grande avventura d’amore, un dono di Dio» confessa Annalena. Nel 1978, a Nairobi, tale esperienza fu presentata al Congresso mondiale sulla tubercolosi: il metodo venne subito adottato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e, col nome Dots (acronimo inglese per «breve terapia sotto diretta osservazione»), è ora applicato in tutto il mondo.
GENOCIDIO SCONGIURATO
Nel febbraio del 1984, alcuni camion di militari irruppero in alcuni quartieri di Wajir, incendiando case e arrestando i somali del gruppo degodia, accusati di essere shifta (predoni) o legati alla guerriglia: 5-6 mila uomini furono presi e rinchiusi nell’aeroporto Wagalla; per quattro giorni vennero sottoposti a torture e angherie. Cosparsi di benzina e incendiati, la maggior parte riuscirono a salvarsi togliendosi i vestiti. I sopravvissuti furono caricati sui camion e abbandonati nel deserto.
Quando si sparse la notizia della liberazione, la gente corse alla ricerca dei loro uomini, portando cibo e acqua. Annalena fece altrettanto. Così testimonia Barbara Lefkow, moglie di un diplomatico americano, fisioterapista che spesso si recava al Centro di riabilitazione: «Dipinse una croce rossa sulla Toyota, portò acqua ai sopravvissuti, li raccolse e li curò nel suo Centro; riuscì a salvae molti. Compilò e mi consegnò una lista di morti, perché la portassi a Nairobi di nascosto».
Sorpresa dai miliziani a seppellire i morti, Annalena fu picchiata. La difese un vecchio capo musulmano, confessando che lui non aveva fatto nulla per salvare la sua gente, mentre quella «straniera» aveva rischiato la vita; e gridò forte, perché tutti lo sentissero: «Nel nome di Allah, io ti dico che, se noi seguiremo le tue orme, noi andremo in paradiso».
Gioali e Bbc parlarono a lungo dell’intervento di Annalena; la lista dei morti e poi le fotografie arrivarono nelle ambasciate di vari paesi occidentali: il governo kenyano dovette porre fine al genocidio. «Avrebbero dovuto sterminare 50 mila persone. Ne uccisero mille» racconta Annalena.
Sfuggita miracolosamente a due imboscate, la missionaria fu arrestata e, portata davanti alla corte marziale, fu bandita dal Kenya nel 1985.
L’AMORE FA MIRACOLI
Dopo qualche mese in Italia, Annalena andò in Spagna per seguire un corso di specializzazione sulla lebbra, poi in Inghilterra, dove conseguì il diploma in medicina tropicale. Nel 1987 partì per la Somalia e prestò servizio volontario a Belet Weyne, in una struttura medica che faceva capo al ministero degli Affari esteri italiano e diventò responsabile del controllo della tubercolosi della regione del nord-est.
Intanto nel paese dilagava la guerriglia: nell’agosto del 1990, insieme al suo team di medici e infermieri, fu aggredita, derubata e sequestrata da un gruppo di ribelli. Le truppe governative riuscirono a liberarli. Per la seconda volta Annalena era miracolosamente viva, ma strappata ai suoi poveri e malati. Da Mogadiscio continuò a spedire loro aiuti e medicinali.
Costretta a lasciare temporaneamente la Somalia, Annalena vi fece ritorno nel marzo del 1991, a Merca, 50 km a sud di Mogadiscio. Vi regnavano anarchia totale e fame nera, come nel resto del paese, privo di tutto: ospedali, dispensari, scuole.
Con grinta da manager e il coinvolgimento della Caritas italiana, prima in denaro e poi con l’invio di volontari, Annalena fece fronte alle varie emergenze: carestia, rifugiati, bambini soli e affamati, bisognosi d’ogni genere e costruì un complesso sanitario e scolastico che ha del miracoloso.
«Cercò di creare speranza, incoraggiando la gente a muoversi, a ricostruire, specialmente se stessi – scriveva in una lettera del 1993 -. Siamo 8 europei, con 131 collaboratori somali: prepariamo 5 mila pasti al giorno; curiamo l’ospedale per Tbc con 148 pazienti, il day hospital con 250 bambini, più di 400 pazienti in terapia antitubercolare, piccoli gruppi di lebbrosi ed epilettici». Organizzò classi elementari e artigianato per i bambini, scuole coraniche per piccoli e grandi, di alfabetizzazione per adulti.
Al tempo stesso Annalena doveva lottare contro l’ambiente culturale. «La tubercolosi – racconta nel suo testamento – è stigma e maledizione: segno di una punizione di Dio per un peccato commesso, aperto o nascosto; per cui si incontra gente che si rifiuta di essere diagnosticata, curata e guarita, per non ammettere di essee affetta».
Furono anni drammatici, che la missionaria sintetizza così: «Sono stata tra guerre e conflitti, testimone di devastanti carestie, violazioni di diritti umani e genocidio: credevo che in vita mia non avrei mai più sorriso, se fossi sopravvissuta a quelle catastrofi».
Tenerissima con i poveri e malati, Annalena era rocciosa e inflessibile con i potenti e prepotenti. Negli ultimi due anni dovette affrontare estenuanti beghe, ricatti, ripetute minacce, un’aggressione e qualche percossa da parte di predoni, capi clan, signori della guerra, fondamentalisti islamici: tutti attirati dall’odore dei dollari che arrivavano per le opere di Merca. Finché passò il testimone a una dottoressa inviata dalla Caritas italiana, Graziella Fumagalli, assassinata tre mesi dopo, con tre colpi d’arma da fuoco alla testa, mentre stava curando un ammalato: era la domenica del 22 ottobre 1995, giornata missionaria mondiale.
«PRINCIPESSA DI BORAMA»
L’Oms le affidò l’ospedale di Borama, cittadina di 100 mila abitanti nel Somaliland, regione relativamente tranquilla nel nord-ovest del paese. Vi arrivò nel 1996. L’accoglienza non fu cordiale: i bambini tiravano i sassi contro la sua casa, gridando: «Allah, tieni lontano quel diavolo bianco!». Ma poi, col passare del tempo, governatore, sindaco, anziani, capi clan e tutto il villaggio era con lei, fino a darle il nome di «Sara Borama» (principessa di Borama). Gli adulti la chiamavano mamma, i bambini nonna.
Cominciò da zero. Con l’aiuto di organismi mondiali (Oms, Unhcr, Undp) e nazionali (Caritas, Comitato contro la fame nel mondo di Forlì) l’ospedale passò da 30 a 250 posti letto, più un centinaio di capanne; uno staff di oltre 50 persone tra medici, infermieri e tecnici di laboratorio; 118 pazienti curati il primo anno; 1.300 il secondo.
Due volte all’anno organizzava campagne per i ciechi: in quattro giorni, un gruppo di amici specialisti operavano di cataratta oltre 330 pazienti: più di 3.700 persone hanno riacquistato la vista.
Al tempo stesso fu avviata la scuola per i figli dei tubercolosi e disabili (la prima in tutta la Somalia e Djibuti), poi ampliata per accogliere i «normali», diventando una fucina di integrazione, tra alunni «normali» e bambini poliomielitici, mutilati di guerra, ciechi, sordi, rifiuti della società (figli di fabbri, conciatori, barbieri, etnie disprezzate). Per vivere e giocare con i sordomuti, i «normali» hanno imparato l’alfabeto muto.
«È una delle esperienze più consolanti e incoraggianti, più capaci di dare speranza in un mondo in cui gli uomini vorranno essere e saranno una cosa sola» racconta Annalena.
Nell’aprile 2003 l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), le assegnò il Nansen Refugee Award, il più importante premio assegnato a chi si occupa di profughi. Oltre a riconoscere la sua opera e i valori a cui si ispira, disse l’alto commissario Ruud Lubbers, il premio voleva «dimostrare che con mezzi limitati, ma con passione ed energia senza limiti, molte vite possono essere salvate e riaccendere la speranza in molti disperati».
Schiva da ogni visibilità, Annalena avrebbe voluto rinunciare; ma gli amici la convinsero a ritirare il premio (una medaglia e 100 mila dollari), anche perché quella era un’occasione per attirare l’attenzione sulla sua «amata Somalia».
«SONO NESSUNO»
A chi le domandava come facesse a gestire una struttura ospedaliera per mille malati, spendendo appena 1.000 dollari al mese, rispondeva: «Nessun segreto: non ho due basi a Nairobi e in Europa o in America; non ho da pagare stipendi da capogiro al personale espatriato; non compro nulla all’estero».
Essa stessa viveva nella più dignitosa e radicale povertà: due tuniche, due scialli e qualche libro era tutto il suo corredo. «Io sono “nobody”, nessuno – diceva di se stessa -. Vivo a servizio senza un nome, senza la sicurezza di un ordine religioso, senza appartenere a nessuna organizzazione, senza stipendio, senza versamento di contributi per la vecchiaia. Sono una cristiana, con una fede incrollabile, rocciosa, che non conosce crisi dai tempi della giovinezza… che mi manda avanti in condizioni di grande difficoltà».
Ed era felice. «Io impazzisco, perdo la testa per i brandelli di umanità ferita – si legge nel suo testamento -; più sono feriti, maltrattati, disprezzati, senza voce e di nessun conto agli occhi del mondo, più li amo. Non è merito, ma un’esigenza della mia natura. Rido di chi pensa che la mia sia una vita di rinuncia e sacrifici. La mia è pura felicità; chi altro al mondo ha una vita così bella?».
Unica «sofferenza indicibile» era la povertà spirituale: non aveva nessuno che condividesse la sua fede rocciosa e con cui condividere ciò che provava e sentiva dentro, eccetto il vescovo di Djibuti che, due volte l’anno, attorno a natale e pasqua, andava a Borama per celebrare la messa solo per lei e con lei.
A Borama, come era capitato a Wajir, la gente pregava per la sua «salvezza», cioè, perché diventasse musulmana. Gliene parlavano spesso, con discrezione. Ma, dopo che un imam aveva predicato che in tutta la sua vita non aveva mai visto fare quello che faceva quella «infedele» e che anch’essa sarebbe andata in paradiso, la lasciarono in pace.
Integrata profondamente nella vita della gente, Annalena poteva dire: «Ai somali molto ho dato. Dai somali molto ho ricevuto». Tre doni soprattutto: il valore della famiglia allargata, in cui tutto è condiviso, almeno all’interno del clan; l’esempio di preghiera, cinque volte al giorno, con l’interruzione di qualsiasi cosa per dare tempo e spazio a Dio; l’esempio di fede rocciosa, specie dei nomadi del deserto, l’abbandono incondizionato e la resa a Dio.
E continua: «Poi la vita mi ha insegnato che la mia fede senza l’amore è inutile… che l’eucaristia racchiude un messaggio rivoluzionario: “Questo è il mio corpo, fatto pane, perché anche tu ti faccia pane sulla mensa degli uomini”».
L’ULTIMA BEATITUDINE
Ma agli occhi dei musulmani più fanatici Annalena aveva tre vizi capitali: era bianca, per cui considerata di razza inferiore a quella somala; era donna, per ciò di nessun peso in una società maschilista; era cristiana, quindi temuta, disprezzata, rifiutata; non era sposata, un assurdo in un mondo in cui il celibato non esiste ed è un non valore.
Inoltre, tubercolosi, Aids, disabilità, epilessia, malattie mentali… per gli integralisti sono sinonimi di castigo di Dio: Annalena aveva fatto di Borama un paese maledetto, screditato in varie parti del mondo dove era giunta la fama della sua opera.
Negli ultimi due anni, poi, Annalena aveva lottato contro certe aberrazioni culturali: con due infermiere ostetriche e due capi locali, portava avanti una grossa campagna per eradicare l’infibulazione e altre mutilazioni femminili. A qualcuno non andava a genio che una donna, bianca, infedele, cercasse di cambiare la loro cultura.
Un imam predicò che quella «infedele» se ne doveva andare: un gruppo di persone presero a sassate il centro ospedaliero, che dovette essere chiuso per tre mesi. Seguirono altre intimidazioni, finché la sera di domenica 5 ottobre 2003, appena rincasata dal solito giro in ospedale, Annalena fu assassinata con due colpi di pistola alla testa.
Si è parlato di un pazzo, di banditi, di vendetta, di fondamentalisti… Serve a poco scoprire il colpevole. Rimane la verità e la logica di tutta la sua esistenza: Annalena ha predicato il vangelo con la vita, vivendolo fino all’ultima beatitudine: «Vi perseguiteranno per causa mia; mentendo, diranno ogni male contro di voi; vi metteranno a morte, credendo di dare gloria a Dio».
Benedetto Bellesi