… ma dipende dall’uomo. Nel paese centroamericano poche famiglie detengono l’intero potere economico; poche famiglie posseggono quasi tutte le terre fertili; la corruzione e il crimine organizzato imperversano. Il ruolo delle sètte
evangeliche statunitensi è rilevante. Riuscirà il neo-presidente Oscar Berger
a portare un minimo di giustizia a sette anni dalla firma della pace?
Ne abbiamo parlato con padre Rigoberto Pérez Garrido, un prete di frontiera,
che per contribuire a portare pace e giustizia nel suo paese da anni rischia la vita.
Stringe il registratore tra le mani, quasi per «inchiodarvi» i pensieri. Parla a voce bassa, ma le sue parole sono pesanti e lasciano poco spazio all’immaginazione. Folti capelli neri e baffetti, Rigoberto Pérez Garrido è un sacerdote guatemalteco di 37 anni.
Ordinato sacerdote nel 1994, da cinque anni Rigoberto è parroco a Santa Maria de Nebaj, nel Quiché, una provincia ad altissima presenza maya. «Sono parroco in una parrocchia di gente maya – ci spiega -, ma io non sono un indigeno. Questo però non è mai stato un problema: con la gente ho un rapporto straordinario».
TRA FOSSE COMUNI
E CIMITERI CLANDESTINI
Rigoberto è una figura conosciuta, perché ha collaborato moltissimo con monsignor Gerardi. È stato il responsabile per la diocesi del Quiché del progetto Remhi per il recupero della memoria storica ed ha cornordinato l’azione degli agenti della pastorale, religiosi e laici, che dovevano raccogliere le testimonianze delle persone. Quando, nel gennaio del 2000, arrivò a Nebaj, padre Rigoberto iniziò ad aiutare le persone che volevano recuperare i resti dei desaparecidos, che i militari avevano buttato in fosse comuni o in cimiteri clandestini. La gente del luogo sapeva, ma non aveva mai osato fare qualcosa. Fu aiutata da padre Rigoberto, che per questo suo attivismo si attirò addosso attenzioni molto pericolose.
Una notte del febbraio 2002 gli incendiarono la casa parrocchiale, sperando di eliminarlo. Per sua fortuna, si trovava a Santa Cruz del Quiché. «Mi fu offerta una protezione – racconta il sacerdote -, ma io la rifiutai dicendo che la cosa migliore era continuare a fare quello che stavo facendo. Ho potuto contare sull’affetto di tutti, sulle loro preghiere, sul loro esempio, sulle loro testimonianze. Questo mi ha molto rallegrato».
Le minacce di morte continuarono e continuano tuttora tanto che il suo caso è stato preso in carico anche da Amnesty Inteational.
«Con l’assassinio di monsignor Gerardi – continua il sacerdote -, il paese è ripiombato in quelle tenebre che si credevano superate a partire dalla firma degli accordi di pace. Si sono riattivate tutte le strutture che, per 36 anni, avevano generato morte e sofferenze indicibili, strutture collegate agli ambienti politici ed economici. Con il governo del Fronte repubblicano guatemalteco (Frg) si è intensificato l’accanimento contro i difensori dei diritti umani e le persone impegnate nel processo di trasformazione. Per sostenere il potere, sono riapparsi anche i gruppi paramilitari che, in Guatemala, si chiamano Pattuglie di autodifesa civile (Pac). La scorsa estate, poco prima delle elezioni, migliaia di ex patrulleros sono calati in capitale per intimidire gli avversari di Rios Montt».
IL PERDONO,
MA ANCHE LA GIUSTIZIA
Il Guatemala ha una percentuale di popolazione indigena del 60% o più. E gli indigeni furono la popolazione più colpita durante il conflitto armato.
Perché? Che successe in quei 36 anni di conflitto? Chi furono i responsabili? Chi le vittime?
Presto ci si accorse che, per costruire un paese diverso, occorreva dar vita ad un processo di chiarimento storico. Era un’operazione ad alto rischio. Monsignor Gerardi sosteneva che era doloroso affrontare la realtà, ma che, d’altra parte, era un’azione necessaria e liberatrice: per poter superare il passato, era necessario conoscere e da questa conoscenza si poteva partire per costruire il futuro.
I collaboratori del progetto Remhi hanno potuto documentare 422 massacri, di questi 263 (ben 234 ad opera dell’esercito e dei paramilitari) vennero commessi nel Quiché e di questi decine a Nebaj, la zona dove opera anche padre Rigoberto.
«Nella regione del Quiché – spiega il sacerdote – il piano diocesano ha avuto come prioritaria la riconciliazione, che però può scaturire soltanto dalla verità, dal perdono e dalla giustizia. Posso testimoniare che il perdono c’è stato. Io stesso ho celebrato messe di commemorazione di massacri e i familiari (gente che perse i propri cari o che venne torturata) sono riusciti a perdonare: è una grande qualità della popolazione guatemalteca, incredibile ed impressionante».
«Purtroppo, sulle responsabilità e quindi sulla giustizia, il problema rimane aperto: ci sono casi di pentimento ai livelli più bassi, ma non a quelli più alti. Qui la porta è rimasta chiusa; mi riferisco ai livelli intellettuali e di comando, da dove cioè partirono gli ordini per distruggere la popolazione del Guatemala».
«Ciò che la società guatemalteca ad alta voce ha chiesto e chiede non è vendetta (ché altrimenti il paese sarebbe precipitato nuovamente in una spirale di violenza incontrollabile). Le vittime chiedono però che i responsabili riconoscano le loro colpe e diano segni concreti di pentimento, contribuendo anche a risarcire i danni causati. Su questa linea si muovono alcune associazioni per la difesa dei diritti umani, che stanno promuovendo processi contro i responsabili dei crimini. La società guatemalteca valuta positivamente queste iniziative, sebbene sia molto scettica a causa dell’alto grado di impunità che c’è nel paese».
La conclusione di padre Rigoberto è in perfetta coerenza con il suo ragionamento: «Noi speriamo che, alla fine di tutto questo, possa sorgere una nuova società, un nuovo Guatemala con più vita per tutti, compresi coloro che hanno commesso i crimini: anche loro hanno diritto a vivere la grazia di Dio».
Milioni di esistenze sono state segnate dalle vicende della guerra: per loro ricominciare una vita normale è un’impresa.
Padre Rigoberto lo sa: «Il dopoguerra presenta nuove sfide considerando tutte le indelebili sofferenze patite dalla popolazione. Perché, dopo un conflitto, restano gli scomparsi, gli orfani, le vedove, le comunità distrutte e disarticolate; restano i cimiteri clandestini e i genitori che cercano i propri figli; restano il dolore, la paura, i traumi. Nel dopoguerra bisogna occuparsi di tutte queste realtà, delle loro cause e delle loro possibili soluzioni».
IL MIRAGGIO
DELLA RIDISTRIBUZIONE
Da gennaio di quest’anno in Guatemala c’è un nuovo presidente e un nuovo partito di maggioranza. Cambierà qualcosa? «L’importante – spiega il padre – è stata la sconfitta di Rios Montt e del Frg, responsabili dei maggiori crimini nei 36 anni della guerra civile e di un governo fondato sulla corruzione».
Il partito del neo-presidente (Gran alianza nacional, Gana) è nato dalla nomenclatura economica del paese, cioè dagli industriali, nonché da politici e da militari che sono riusciti a darsi una patina di rispettabilità. Ma anche tra le sue fila si celano responsabili di crimini, come ammette amaramente padre Rigoberto: «I partiti credono che senza gli espertos en matar nessun governo potrà stare a lungo al potere».
Dicevamo che Gana ha avuto l’appoggio degli imprenditori. Questo potrebbe essere un piccolo vantaggio, se si considera che il problema economico è un’assoluta priorità. La povertà raggiunge livelli elevatissimi, in particolare nelle aree rurali e nelle periferie delle città.
La disoccupazione è molto alta e lo stato non svolge i propri compiti, soprattutto nei servizi primari. «È vergognoso – sbotta il sacerdote – che si spendano più soldi per il bilancio militare che per quello della salute e dell’educazione».
In quanto a capo di una coalizione di destra, difficilmente il presidente Berger intraprenderà una politica di ridistribuzione del reddito. L’analisi del padre guatemalteco è lucida e rigorosa.
«Il problema economico – spiega – ha radice in un sistema che concentra la ricchezza in poche, anzi in pochissime mani (en muy, pero muy pocos manos), creando diseguaglianze abissali. Il potere è detenuto da un ristretto gruppo di famiglie guatemalteche e alcune straniere residenti nel paese. Un’altra fetta dell’economia è appannaggio delle multinazionali. A queste si debbono, ad esempio, gli altissimi prezzi dei combustibili e dei medicinali».
Insomma, anche a guerra finita, la maggioranza dei guatemaltechi continua a vivere in condizioni disumane. E, come sempre accade, questa povertà colpisce soprattutto la parte più debole (ancorché maggioritaria) della società, gli indigeni.
La discriminazione risalta in tutta la sua evidenza nell’agricoltura, che è il settore economico a cui fa riferimento la maggioranza della popolazione guatemalteca.
LA TERRA,
UN PROBLEMA TABÙ
A partire dal 1800 si diffusero in Guatemala le monocolture da esportazione: prima il caffè, poi il banano. Con le banane arrivò in Guatemala la multinazionale «United Fruit Company», oggi nota come Chiquita. La compagnia nordamericana divenne talmente potente da condizionare la vita del paese. L’esempio più clamoroso si verificò nel periodo 1951-’54. All’epoca, il governo del presidente Jacobo Arbenz varò la prima riforma agraria nella storia del Guatemala. La United, sentendosi colpita nei propri interessi, informò del problema la Cia e l’amministrazione di Washington. Venne così organizzato un esercito, che entrò nel paese e rovesciò il legittimo governo di Arbenz.
Oggi le multinazionali nordamericane continuano a monopolizzare (come in tutti i paesi dell’area) il mercato delle banane, con comportamenti e politiche certamente poco rispettosi dei lavoratori, dell’ambiente e dell’etica.
L’altro pilastro dell’agricoltura del Guatemala è il caffè. Negli ultimi anni, il settore ha sofferto enormemente, a causa del crollo del prezzo sul mercato internazionale. Molti latifondisti hanno scaricato la riduzione degli introiti sugli stagionali, già ampiamente sfruttati. Alcuni proprietari hanno addirittura deciso di non fare la raccolta.
Tuttavia, per i contadini guatemaltechi, come per gran parte dei contadini dell’America Latina (e del mondo), il problema fondamentale è un altro: la proprietà della terra.
Secondo dati attendibili, in Guatemala l’85% della terra è in mano al 10% della popolazione. «È tremendo, lo so», ammette con sconforto padre Rigoberto.
Dopo gli accordi di pace, si è tentato qualcosa, ma i latifondisti hanno attaccato chi lottava per avere un pezzo di terra e coloro che appoggiavano queste rivendicazioni. Ci sono state molte minacce di morte, anche al vescovo Ramazzini, che si occupa di queste problematiche.
Si è tentata anche la strada dell’acquisto della terra per i contadini. Ma il risultato è stato l’incremento dei prezzi fino a 10 volte.
«Purtroppo, nel mio paese – conclude amaro Rigoberto – la questione della terra continua ad essere un tabù».
Difficile che la soluzione del problema sia nell’agenda di Oscar Berger, l’uomo che dallo scorso gennaio ha in mano le sorti del Guatemala. A sette anni dalla «pace».
(Fine – la prima parte
è stata pubblicata su MC di febbraio)
La chiesa cattolica e le sette evangeliche
Durante gli anni della guerra civile, la chiesa cattolica fu duramente perseguitata: migliaia di catechisti, dirigenti delle comunità cristiane, agenti pastorali, sacerdoti furono assassinati. Nonostante l’altissimo prezzo pagato, le diocesi continuarono ad emanare documenti che denunciavano le vessazioni contro la popolazione. Così come faceva la Conferenza episcopale.
Chiediamo a padre Rigoberto se l’attuale gerarchia della chiesa cattolica guatemalteca abbia proseguito sulla strada segnata da monsignor Gerardi, anche dopo il suo assassinio.
«Io vivo tra la gente e non nei palazzi – si scheisce -. Certo, la chiesa si è fatta dei nemici, soprattutto nel potere economico e in quello militare. Tuttavia, mi sembra che in questo ultimo periodo sia diventata un po’ silenziosa rispetto a prima, quando era guidata da Prospero Penados del Barrio, che fu praticamente annientato. Oggi è in pensione, perché molto malato; io lo definirei un martire vivente, che continua ad essere molto amato dalla gente».
Attualmente, la carica di arcivescovo primate e quella di presidente della Conferenza episcopale sono concentrate in una sola persona, l’arcivescovo Rodolfo Quezada Toruño. «Forse – chiosa il sacerdote – c’è troppo potere concentrato in una persona sola».
Abbiamo già spiegato (si veda MC di febbraio) in che modo il generale Rios Montt abbia utilizzato le sètte evangeliche. «Le sètte – racconta Rigoberto – entrarono nel paese nel 1891, quando governava il generale Justo Rufino Barrios. Venivano dagli Stati Uniti su impulso delle famiglie più potenti, interessate a trasformare i paesi dell’America Latina in luoghi ideali per lo sfruttamento. Il loro imperativo era: dividi e vincerai. Si moltiplicarono enormemente durante gli anni di maggiore violenza politica, cioè a partire dal 1980. È inutile fare nomi, dato che esistono più di 4.000 denominazioni differenti».
È durissimo il giudizio di padre Rigoberto. «Le sètte – dice – utilizzano la religione per contrastare la forza profetica della chiesa cattolica e per giustificare i crimini commessi durante il conflitto armato; oggi, invece, vorrebbero perpetuare quel sistema che tanti danni ha prodotto nel passato. Io credo che il compito fondamentale delle sètte sia di produrre inganno e confusione tra la gente e, soprattutto, anestetizzarla davanti alla realtà. Purtroppo, la religione mal utilizzata può diventare uno strumento molto utile per il dominio delle coscienze e quindi delle persone».
Pa.Mo.
Rigoberta Menchú Tum: aiutare Berger?
Il Guatemala è conosciuto in Italia soprattutto per merito di Rigoberta Menchú Tum (*). L’india maya riuscì a rompere il muro di silenzio che gravava sul suo paese grazie al libro Mi chiamo Rigoberta Menchú e poi alla campagna per assegnarle il Nobel per la pace. Il conferimento del prestigioso premio certamente diede la possibilità al suo paese di essere conosciuto in tutto il mondo. Tuttavia, come spesso capita, nemo propheta in patria: Rigoberta, in Guatemala, non è amata.
Spiega Maria Rosa Padovani del «Comitato di solidarietà» di Torino: «Periodicamente, si lanciano contro Rigoberta campagne denigratorie, accusandola di vivere nel lusso, di essere sempre in giro per il mondo, campagne orchestrate dai poteri che continuano ad essere presenti e operanti in Guatemala. Tra il popolo c’è chi la ama, c’è chi non la conosce e c’è chi si lascia influenzare dalle campagne».
Rigoberta da alcuni anni vive in Messico per le minacce che continuamente riceve». Ma nel suo paese ha messo in piedi la «Fondazione Rigoberta Menchú», che lavora soprattutto nel campo dei diritti umani e nella promozione dei diritti degli indigeni. C’è una sede della fondazione anche in Messico ed una più piccola a New York per via della sua collaborazione con l’Onu. Rigoberta lavora molto a livello di istituzioni inteazionali, soprattutto per le popolazioni indigene ed è tuttora ambasciatrice di buona volontà dell’Unesco. Va sempre in giro per il mondo, partecipando a moltissime iniziative. «Noi – spiega convinta Maria Rosa – la conosciamo bene. Abbiamo visto la semplicità con cui vive in Messico in una piccolissima casa dietro la Fondazione, con suo marito e con il figlio adottivo. Sappiamo che Rigoberta è sempre Rigoberta. Certo, il suo ruolo è cambiato: non può più venire quando un gruppo di solidarietà la chiama, perché ha un’agenda pienissima e ha anche bisogno di ricercare finanziamenti per i progetti della sua Fondazione. Quindi, il suo ruolo è cambiato. Forse in Guatemala c’erano più aspettative nel senso che si pensava che lei avrebbe lavorato solo a favore del suo paese, ma Rigoberta, come premio Nobel, si considera un po’ al servizio delle cause di tutte le popolazioni indigene del mondo, non soltanto di quelle del Guatemala».
Nel paese centroamericano la percentuale dei votanti è molto bassa, attorno al 30-35%. Questo avviene anche perché bisogna iscriversi alle liste elettorali e l’iscrizione si fa nel luogo dove si è nati. «Tutto ciò – spiega padre Rigoberto – costa: troppo, per gente già poverissima. Senza dimenticare che bisogna avere i documenti di identità che moltissimi, anzi la maggior parte, non hanno, soprattutto nelle zone rurali. E allora una delle campagne promosse dalla Fondazione Menchú è proprio questa: aiutare la gente a partecipare alla vita pubblica e civile del paese».
A fine dicembre, appena eletto presidente, Oscar Berger ha offerto un posto nel suo governo a Rigoberta Menchú. Tra conferme e smentite, la premio Nobel ha tentennato a lungo, accettando alla fine il ruolo di «ambasciatrice di buona volontà degli accordi di pace».
Un ruolo aleatorio per una scommessa comunque rischiosa: potrà Rigoberta aiutare il suo popolo attraverso il governo del conservatore Berger senza rimanee «bruciata»?
Pa.Mo.
(*) Si veda: «Incontro con Rigoberta Menchú Tum», di Marco Bello e Paolo Moiola, su Missioni Consolata n.5 del maggio 1996.
Paolo Moiola