Dossier – Nel fango di Kilbera

«Qui la polizia entra solo per controllare le birrerie clandestine».
«E lo credo bene», verrebbe spontaneo rispondere, se il degrado che ci sta davanti non riguardasse appartenenti al genere umano, costretti a vivere dove sarebbe difficile per fauna suina.
Kibera è uno dei tanti slums (baraccopoli) di Nairobi. Il più grande. E stiamo entrando dopo una nottata di pioggia intensa. Ruscelli larghi mezzo metro e profondi altrettanto a far da vicoli. Meglio sorvolare sul contenuto. Ci razzolano solo cani spelacchiati e bambini piccoli.
Si procede sullo strettissimo bordo a ridosso delle baracche. Scivoloso come una pista da bob. Spesso con la stessa pendenza. I pali sporgono dalle baracche come appigli, confidando nella buona tenuta. Attenzione identica da equilibristi su una corda tesa sopra un canyon. Una scivolata equivarrebbe a sprofondare fino al ginocchio in melma, di cui il fango è solo componente minoritaria.
E qui vive gente. Tanta. Troppa. Un milione, dicono. In continuo aumento. Nuove baracche crescono come funghi. Appiccicate una all’altra. Casotti fatiscenti di sassi e fango. Lamiera ondulata come tetto. Paletti (rami tagliati) per rinforzare la struttura. Misere abitazioni affittate a povere famiglie, attirate dal miraggio della grande città. Canoni non certo equi: 10 euro al mese, contro stipendi (quando c’è lavoro) di 50-60. Fogne a cielo aperto, davanti all’entrata, che quando piove si confondono con ciò che dovrebbero essere i vicoli. Un’asse come passerella per entrare.

«Q ui la polizia entra solo per controllare le birrerie clandestine. Il quartiere non è affatto violento. Tutt’al più qualche ubriaco di troppo. La birra costa pochissimo».
È Fred che ci accompagna. Lui Kibera la conosce benissimo. Ci è nato. E, da come ne parla, non l’ha ripudiata. Il padre e alcuni fratelli abitano ancora qui. Lui si ritiene un privilegiato. Voleva studiare e ha incontrato le persone giuste per poterlo fare. Con moglie e figli ora abita alla Shalom House, la casa-albergo voluta da padre Kizito. Chi meglio di lui, quindi, può illustrarci la realtà di questo enorme slum, dove anche di notte vivono con la porta aperta. Dove, come ci dice Fred, c’è molta solidarietà. Dove la gente si fa spesso carico dei problemi degli altri.
Ma ciò che è sotto i nostri occhi non è tollerabile. Non è accettabile nel terzo millennio. Analfabetismo a livelli altissimi. Prostituzione idem (spesso unica possibilità offerta a una donna per guadagnare qualcosa). Aids che si trasmette come il morbillo in un asilo.
«Nessuna forma di sanità riconosciuta. Chi non ha i soldi, può morire». La cosa suona ancora più tragica, se detta da un padre, amico di Fred: senza l’aiuto di un’organizzazione umanitaria rischiava di perdere un bimbo di due anni.
La gente che incontriamo è, tuttavia, affabile. Certamente la presenza di Fred contribuisce. I bambini ci salutano e rispondono come un’eco alle nostre voci. Alle nostre forme di saluto. Non ci lasciano l’ultimo suono.
Da una finestrella, alcuni bimbi guardano con curiosità le nostre facce scolorite. Non è mercanzia che circola spesso da queste parti. Una signora gentilissima ci invita a entrare. È una scuola matea. Un’iniziativa della chiesa pentecostale. Un raggio di speranza in quel mare di fango.

Mario Beltrami

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