Dossier – Kamikaze dell’amore
Un piccolo esercito di «addestrati speciali»,
nei luoghi più difficili della capitale kenyana,
lotta, senza clamore, per ridare speranza
e portare consolazione.
S entendo le tristi notizie dei kamikaze della violenza che, come martiri, si sacrificano per il loro dio causando morte a gente innocente, mi consolo nel pensare a centinaia di migliaia di «kamikaze dell’amore».
Sono gente normale che spende tutto per gli altri, sacrificando la vita goccia a goccia. Nei miei tre anni spesi nella periferia di Nairobi ne ho incontrati tanti, di origini diverse, pronti a tutto per sconfiggere miseria e donare dignità ai due milioni di persone che languiscono nelle baraccopoli. Ogni mese, i missionari operatori di questi slums si trovavano per un giorno di ritiro spirituale e scambio di esperienze.
la visita di DIO
Siamo ospiti nel cuore della baraccopoli più popolosa di Nairobi, Kibera 3 (circa mezzo milione di abitanti). La parrocchia Christ the King è retta da un missionario colombiano, dei Guadalupe Fathers. È una sorta di porto di mare per tanti naufraghi, diui e nottui. Con un drappello di laici kenyani, hanno iniziato un centro educativo, dove i bambini ricevono cibo e sapere.
Il dispensario, diretto da suore, è diventato un luogo di consolazione di giorno e anche per le vittime delle violenze nottue. Qui i bambini possono venire a scuola, giocare, essere curati; i giovani hanno il loro posto di ritrovo, senza alcornol e droga, e gli adulti, desiderosi di progredire, possono imparare l’abc.
Ho visto nel volto dei laici kenyani di Kibera lo zelo per la loro gente, che si accalca in poco più di un chilometro quadrato, senza acqua, luce e strade. Da loro ho saputo delle «tornilette volanti»: molta gente, non avendo gabinetti a sufficienza, affida… al vento gli escrementi, avvolti in cellophane.
Si discutevano le strategie di intervento nell’inferno della periferia: gli europei sono affiancati da kenyani, gli statunitensi si mischiano con sudamericani e indiani. Siamo più di cento.
Padre Franco Cellana, ci informa che in una valletta, lasciata libera fra le ville dei commercianti indiani, erano sorti due nuovi slums. Ha combattuto le ire dei benestanti che vedevano inquinato il loro territorio, per difendere i nuovi insediati. Keleleshua e White Ridge, due rioni della ricca Westlands, hanno così il loro «bubbone». La parrocchia della Consolata accoglie i nuovi arrivati con un abbraccio universale. Un laboratorio, finanziato da benefattori, è diventato segno di speranza per i giovani: i sandali di stile masai sono il prodotto che tira di più.
Dalla baraccopoli di Kaiole, una laica kenyana ci illustra la strategia che ha usato per fondare una cornoperativa: «Se siamo uniti, potremo ottenere dal comune di Nairobi un appezzamento di terreno per famiglia nel territorio abusivo – ha detto con fiducia -. Il cammino è lungo, ma sembra che qualcosa si muova».
Il gruppo canta: «Benedetto il Signore, che ha visitato e redento il suo popolo». Ancora oggi Dio visita il suo popolo nella schiavitù e manda i suoi «kamikaze» imbottiti di amore e dedizione: esplosivi che risalgono a Gesù Cristo ed estremamente efficaci anche oggi.
Soweto è un nome ereditato dal Sudafrica. Dalla baraccopoli si scorgono le colline con campi di caffè. Le residenze della nuova classe media di Nairobi si moltiplicano.
Massimo, che opera in questo slum, tira fuori dallo zaino la bibbia. Si legge la parola di Dio. Gli agenti antiterrorismo non lo hanno ancora fermato, nonostante il suo zaino possa destare qualche sospetto, insieme alla barba stile Osama Bin Laden. Gli manca solo il turbante per fare il quadro completo.
Massimo, come un san Francesco, gira assieme a dei giovani con un sacco di yuta sulle spalle, raccogliendo tra le immondizie materiale per il riciclaggio. Vuole insegnare ai ragazzi del quartiere a sopravvivere, visto che l’occupazione è di là da venire. Ha tentato altri esperimenti, come allevamento di conigli, coltivazione di verdure, produzione di sapone.
Nel cuore di Soweto, Massimo fa comunità con Andrea. Sono due pionieri della comunità Papa Giovanni xxiii, fondata dall’«imam» cattolico don Benzi, famoso in Italia per avere istituito centinaia di case-famiglia, dove trovano rifugio tutti quelli che vogliono ridare un senso alla propria vita: prostitute, drogati, emarginati…
Andrea, belga, oltre al francese parla bene l’italiano e si arrangia in inglese, intuisce swahili e kikuyu. Ha sempre un nugolo di bambini attorno, che captano al volo il linguaggio dell’amore. Sta sperimentando l’iniziativa di dare un minicredito ad alcune famiglie più bisognose, non prima, però, di aver impartito loro una formazione adeguata su come gestirli.
giovani, suore e dottori
La missione di Kahawa West, cominciata 10 anni fa, fa da cerniera tra la base e la cima della scala economica. Gli abitanti sono già 35 mila, ma ogni giorno ne arrivano altri, con nel cuore la speranza di una nuova frontiera. Qui, più che mai, necessitano i kamikaze.
Suor Mercy e il suo drappello di suore dell’Immacolata (una congregazione fondata da mons. Perlo, all’inizio del secolo) si sono insediate nei dintorni otto anni fa. Sono sette suore africane che dirigono una scuola di mille alunni, cominciata da zero. Sono pronte a tutto, anche ai cambiamenti repentini, perché vengono spostate dalle superiore per altre imprese più… urgenti. Traggono la forza in una cappellina, nella casa provvisoria. Le loro preghiere sono segnate dal ritmo dei tamburi e da cembali africani.
L’anno scorso, con un colpo ben riuscito, hanno costruito un collegio per ragazzi e ragazze di strada. Questi bambini ormai cento, sembrano già «normali»: gli stracci che indossavano prima sono stati bruciati e dimenticati.
Andrea, un dentista che da molti anni passa le sue ferie in Kenya curando le carie africane, si porta con sé un drappello di colleghi. Due rimangono a Kahawa e sono sommersi da una marea di pazienti, tra cui i ragazzi della scuola della baraccopoli di Soweto e Kamae. Tutti ricordano il «dagetari ya meno» (dentista) Massimo da Piacenza, l’assistente Veglia da Varese, Gianalberto da Monza e Serena da Torino. Li aspettano ancora il prossimo anno.
A Kamae opera un altro gruppo, pronto a tutto, dotato anche di… un campo di addestramento, chiamato noviziato. Si chiamano Elisabettine dal nome della loro fondatrice padovana. Suor Wamuyu (kenyana) e suor Paola (italiana) sono le responsabili della scuola di recupero nella baraccopoli di Soweto. Il nemico da combattere è l’analfabetismo, che cresce ogni giorno per la miseria e le malattie, causa di tanti bimbi orfani.
A dicembre dell’anno scorso, ho assistito al giuramento di due ragazze del Kenya, formate nel noviziato. I genitori hanno versato lacrime di dolore, sapendole perse per la famiglia; ma la gioia del dono è scoppiata in canti e danze e le responsabili della congregazione pensano di utilizzarle per «missioni speciali». Suor Rosa (padovana) e suor Veronica (kenyana) hanno in mano il dispensario. Di recente, dall’Italia è arrivata la macchina dei raggi x e lo scunner.
Sulla collina, a ovest, padre Alex Signorelli ha costruito, a nome dei missionari della Consolata, un villaggio per i ragazzi di strada. Lo chiamano «Familia ya Ufariji», famiglia della consolazione. Lo stato gli ha dato in affido 80 maschietti, raccolti nelle strade di Nairobi. Ha generato figli, già pronti per l’asilo e le prime classi elementari.
Le missionarie della Consolata sono presenti a Kahawa e, al momento, due di loro formano le nuove generazioni alla cristianità. Le altre due sono a fianco dei miserabili delle baraccopoli: tutti le chiamano «mama». Suor Carmelangela ha spento l’altro giorno 50 candeline di presenza in Africa. Nell’agosto scorso, Laura da Milano, Massimo, Antonella e Paolo da Torino hanno organizzato il Grest (tipo la nostra «estate ragazzi») per elementari e medie, aiutati da un gruppo di giovani cattolici della parrocchia. La nuova generazione si forma con l’esempio della dedizione. Nei ranghi della chiesa cattolica, Kahawa West è considerata «missione speciale», come tutte le parrocchie sorte nella periferia di Nairobi.
In tutto il Kenya, i kamikaze locali sono circa 700, affiancati da altrettanti stranieri. Dovendo partire, ho consegnato il testimone a padre Peter, ugandese. Pochi giorni dopo, vicino alla baraccopoli di Kamae, in pieno giorno, è stato… ripulito di tutto, mentre controllava i lavori di una scuola. È stato il battesimo per lui, che vuole vivere e donarsi dentro questa realtà. Gli è rimasto l’entusiasmo di rimanere e di spendersi tutto: fino all’ultima goccia! •
Alex Moreschi