È il primo volontario laico che ha legato la sua vita a quella dei missionari e missionarie della Consolata, spendendosi a favore degli africani.
A 50 anni dalla morte, la sua memoria è sempre viva tra la gente del Kenya, non solo per la sua professionalità, ma soprattutto per la grande umanità e profonda fede cristiana che hanno animato la sua scelta.
«Ho l’onore di incontrarmi con il medico più famoso del Kenya e il più grande amico degli africani»; così Jomo Kenyata, in visita all’ospedale della Consolata di Nyeri, salutava il dottore Paolo Chiono, nel 1950, mentre il leader kenyano percorreva il paese arringando le folle contro il potere coloniale.
Il dottore non fece caso alla prima definizione, ma si compiacque della seconda: era quello che voleva essere e tale si sentiva, grande amico degli africani.
«dottore buono»
Era nato a Castellamonte (Torino), il 20 agosto 1909, da famiglia benestante. Frequentò il liceo Botta di Ivrea; quindi s’iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Torino, dove conseguì la laurea nel 1933 e fu assunto come assistente volontario presso la clinica chirurgica all’ospedale «San Giovanni». In breve tempo acquisì notevolissime capacità professionali, specialmente in campo chirurgico e urologico.
Scoppiata la guerra in Etiopia, nel 1935, chiese e ottenne di parteciparvi come sottotenente medico. L’anno seguente sbarcò a Massaua e proseguì verso il cuore dell’altopiano etiopico, al seguito dell’esercito. Negli scontri con i soldati etiopici i feriti erano così numerosi da dovere operare notte e giorno. Senza risparmiarsi, il dottor Chiono curava tutti, sia italiani che etiopici. Nei momenti tranquilli si dedicava all’ambulatorio degli indigeni.
Da Addis Abeba così scriveva alla zia Antonietta: «La mia vita qui è piena di lavoro senza soddisfazione. Però il maggiore medico ora non muove un dito senza chiedermi consiglio. Il lavoro è enorme; e tu sai che se io lavoro, non faccio le cose a metà. Ne ho da mattina a sera».
Alla fine del 1937 si fece trasferire all’ospedale militare di Lechemti, nel Wollega, 400 km a ovest della capitale, perché «stanco di stare sotto padrone – scriveva alla zia -. Volevo essere libero di fare a modo mio per i pochi mesi che rimangono da trascorrere ancora in Africa».
Fare a modo suo significava non concedersi un momento di riposo, fino a soffrire di esaurimento e inappetenza: operava nell’ospedale, prestava servizio presso l’ambulatorio della missione dei padri e suore della Consolata, visitava i malati a domicilio, si spingeva nei villaggi più sperduti, curava i più poveri e dimenticati, fino a distribuire loro corredo e stipendio. A una suora che gli faceva osservare come in una settimana la busta paga era già vuota, rispose con un sorriso: «Che m’importa di avere più quattrini o meno? Quando ne ho a sufficienza per vestirmi e nutrirmi, mi basta».
Gli africani lo definirono subito «il grande medico che vuole bene agli africani». Il tam tam della brughiera ne sparse la fama di dottore prodigioso, che curava le malattie inguaribili: i pazienti affluivano dalle regioni più lontane.
All’inizio del 1938 fu chiamato in Italia al capezzale del padre. La popolazione di Lechemti e dintorni salutò l’akimi garidà (il dottore buono) piangendo e accompagnandolo per 4 km; anche lui si commosse fino alle lacrime.
medico e missionario
A Torino il dottor Chiono riprese l’attività nella clinica chirurgica dell’Università; si iscrisse a corsi di specializzazione in chirurgia e urologia; vinse due concorsi per un posto in ospedale ad Aosta e Savona, ma vi rinunciò. Amici e colleghi gli prospettavano una brillantissima carriera professionale e accademica, ma nulla riusciva a renderlo felice.
L’esperienza etiopica, la povertà degli africani e i loro bisogni in campo medico, il contatto con i missionari e missionarie della Consolata lo avevano cambiato. Ancor prima di tornare in patria, aveva ventilato l’idea di spendere la vita a servizio dei poveri in qualche paese africano, dove sarebbe stato più utile che in Italia. Ma come? Non esistevano organizzazioni inteazionali a cui appoggiarsi.
L’idea del dottor Chiono era giunta, tramite le suore, nella missione di Nyeri (Kenya), dove l’ospedale appena costruito era alla ricerca disperata di un medico. Nel maggio 1939 mons. Carlo Re, vicario apostolico di Nyeri, di passaggio in Italia, propose al dottore di recarsi nella sua diocesi per dirigere i servizi sanitari come medico missionario. La proposta fu per lui come un invito a nozze; seduta stante rispose: «Sarò medico missionario».
Per evitare che il lento distacco diventasse un’agonia, tenne nascosta la sua scelta ad amici e colleghi: diede loro l’addio per telefono, da Messina, prima d’imbarcarsi sulla nave Rosandra. Era il 23 ottobre 1939. «È fatto, padre! Sono missionario come voi» disse a uno dei missionari che lo accompagnavano, appena la nave uscì dal porto.
Giunto a Nyeri, ancora vestito da viaggio, fu chiamato per un difficile intervento su una partoriente: il laborioso taglio cesareo salvò madre e figlio. E subito, come capita in Africa, si sparse la voce che alla missione era arrivato un medico «giovane e buono» che si sarebbe preso cura degli africani.
In poco tempo organizzò l’attività dell’ospedale con tutti i suoi servizi e visite periodiche ai dispensari delle altre missioni. Di notte scriveva articoli su elementari norme di igiene, da pubblicare in lingua kikuyu sul mensile Wathiomo Mukinyu (L’amico vero). Insisteva nel dire che non bastava curare le malattie, ma bisogna cogliere ogni occasione per istruire ed educare.
Per otto mesi si prodigò come era suo stile, prendendosi uno svago e riposo mentale, in qualche fine settimana, andando a caccia. Al ritorno, distribuiva di persona la carne alle varie cucine della missione.
tra i reticolati
Ma arrivò il fatidico 10 giugno 1940: l’Italia entrò in guerra e tutti i missionari italiani, lui compreso, furono arrestati e inteati, prima a Kabete, presso Nairobi, poi a Koffiefontein (Sudafrica), dove rimase per tre anni, insieme a un migliaio di altri prigionieri civili e militari.
Anche qui il dottor Chiono continuò la sua opera di medico e di missionario: fu soprattutto grazie a lui che il 98% degli inteati ritornarono alla pratica religiosa.
A metà agosto del 1943, dottore e missionari furono riportati nel campo di Kabete. Dopo un anno di trattative diplomatiche, i padri poterono tornare nelle loro missioni, mentre il dottore, sospettato per i suoi trascorsi in Etiopia, fu trattenuto ancora un anno, «il più terribile della mia vita» racconterà più tardi.
«La mia anima è piena di mestizia – scriveva ai familiari – e cerco disperatamente rifugio in Chi solo può tutto». Nonostante godesse di grande prestigio presso i compagni di sventura e le autorità, tanto da essere chiamato per i casi più difficili a operare nell’ospedale civile di Nairobi, solo la preghiera e le notizie provenienti da Nyeri riuscivano a fargli superare lo stato di tristezza.
I missionari tentarono tutte le strade, fuori e dentro la colonia, per liberarlo dalla prigionia, finché si rivolsero al «Consiglio indigeno» di Nyeri: l’assemblea di cattolici e protestanti inviò una petizione alle autorità coloniali, illustrando come l’opera del dottore era indispensabile ai kikuyu. E fu liberato finalmente.
«da paolo non si muore»
Nel settembre 1945 il dottor Chiono fece ritorno al suo ospedale e riprese il lavoro con entusiasmo e dinamismo, come se volesse recuperare i cinque anni perduti in prigionia. Anzitutto istituì un corso per infermiere africane, per avere personale locale specializzato sia in ospedale che negli ambulatori delle varie missioni: tre di essi furono affidati a suore indigene. «La loro formazione – scriveva – mi è costata enormi sacrifici, se pensiamo alla poca istruzione avuta in precedenza, ma sono felice di averli fatti, vedendo gli ottimi risultati».
Alcune operazioni chirurgiche e conseguenti guarigioni avevano del miracoloso agli occhi degli africani, che pensarono a diffondee la fama in tutto il Kenya. Il suo nome era diventato una leggenda. «Kwa Paulo gutikuaguo» (da Paolo non si muore) dicevano con uno slogan che passava di bocca in bocca.
Ma la fama moltiplicava il numero dei pazienti, obbligando il dottore a orari massacranti, interrotti soltanto dal tempo dedicato alla preghiera e all’hobby della caccia e pesca.
Ben presto arrivarono i riconoscimenti ufficiali: nel 1950 Kenyata lo definiva «il più grande amico degli africani»; le autorità coloniali lo additavano ad esempio; lo stesso anno, dal Vaticano, arrivò la nomina a Cavaliere dell’Ordine di san Gregorio Magno. L’anno seguente scoppiò improvvisa la rivolta dei mau mau contro il governo coloniale inglese. Il dottor Chiono curava tutti, feriti ribelli e loro vittime, senza chiedere da che parte stessero, guadagnandosi il rispetto dei guerriglieri, che gli fecero pervenire questo messaggio: «Uccideremo tutti i bianchi, te no!». Avvalendosi di tale garanzia, si spingeva nei posti più pericolosi per soccorrere i feriti.
bisturi e rosario
«Mi sono creato un piccolo mondo e me lo vivo» scriveva alla sorella Nella. L’ospedale, curato nei minimi dettagli, portato da 20 a 100 posti letto, aggiornato con laboratori e attrezzature sempre più modee ed efficienti, e poi la formazione del personale, la ricerca scientifica sulle patologie tropicali, medicine vegetali, cura e prevenzione di malattie dovute a situazioni sociali, ambientali e culturali… erano il suo mondo, in cui si sentiva pienamente realizzato.
La chirurgia, soprattutto, era per lui un’arte bella: dopo certi interventi provava la soddisfazione che ha un artista davanti alle sue opere migliori. «Ho meditato sul mio bisturi – confessava un giorno a suor Giulietta, sua aiutante -. Più lo medito e più comprendo che grande cosa abbia fatto il Signore, quando diede all’uomo la capacità e la scienza di usarlo: quante vite si può salvare!».
Ma il dottor Chiono non si attribuiva il merito dei suoi successi, come aveva scritto in un foglietto, conservato nel suo libro di preghiere: «Sono io che taglio, ma chi fa tutto il resto e guarisce è il Padre Eteo: che cosa potrei fare io se Egli non mi aiutasse?».
In gioventù egli aveva ostentato un certo snobismo da libero pensatore; ma durante l’esperienza etiopica ritoò con fervore alla pratica religiosa; negli anni seguenti, preghiera e meditazione furono la spina dorsale della sua vita di medico e missionario. «Credi alle mie parole – scriveva al cognato dottor Pesando -, conosco la vita, gli uomini e le cose. La mia conoscenza è stata affinata da anni di sofferenza e di solitudine, solo rallegrata dalla parola scritta dai Grandi, che sono gli unici miei amici».
Prima di ogni intervento pregava e faceva pregare assistenti e pazienti. Il rosario, soprattutto, era la preghiera preferita. In auto era sempre lui a invitare i compagni di viaggio, missionari compresi, a recitarlo, dicendo «che quello era il migliore preventivo contro il mal di schiena».
Un giorno smarrì il suo rosario; lo trovò la mattina seguente su un tavolo dell’ospedale: lo prese con un sospiro di sollievo, dicendo: «L’ho cercato fino a mezzanotte».
«Con le scarpe ai piedi»
Impegnato senza riserve per la salute altrui, il dottor Chiono non ebbe altrettanta sollecitudine per quella propria. Nel 1951 fu colpito da malaria cerebrale, che superò con un periodo di vacanze al mare di Mombasa. L’anno seguente ebbe un secondo attacco: ancora convalescente riprese il suo lavoro all’ospedale.
Era cosciente della gravità della sua situazione; ma a chi gli consigliava di tornare in Italia per rimettersi in sesto, un giorno rispose: «Vorrei morire con le scarpe ai piedi, come un soldato sul campo di battaglia: morire in sala operatoria, con il bisturi in mano». E fu così.
Il 3 luglio 1953, visitò tutti i pazienti e preparò strumenti e libri per andare a sostituire un collega nell’ospedale di Nkubu; ma durante la notte fu colpito dal terzo attacco di malaria e fu fatale. Spirò la mattina del 6 luglio, assistito dai missionari e dal vescovo mons. Carlo Cavallera, dopo aver cercato di dare un ultimo bacio al crocifisso.
Fu sepolto nel cimitero della missione e, dieci anni dopo, i suoi resti furono trasferiti all’interno stesso del suo ospedale, vicino alla cappella, ove si trovano tutt’ora. Accanto alla tomba è stato di recente inaugurato il reparto di oculistica, ad opera della Fondazione Paolo Chiono, creata dall’omonimo nipote dell’illustre medico missionario.
Ancora oggi in Kenya la sua figura è ricordata con grande venerazione, non solo per la professionalità, ma soprattutto per i valori umani e cristiani profusi a favore degli africani, come testimonia pure il suo testamento: «Ho amato i kikuyu senza misura né limite, come del resto loro sanno; e auguro loro da questo letto la elevazione e la redenzione completa e sollecita». •
Benedetto Bellesi