Dossier – All’ombra del baobab

Vivono in un piccolo villaggio, in uno dei paesi più poveri del mondo. Cercano di conoscere la gente, ma ci vuole tempo e adattamento.
Il loro piano finanziario: la provvidenza.

Siamo in piena savana africana, nel centro del Burkina Faso in Africa Occidentale. Nella lista delle Nazioni Unite circa l’indice di sviluppo umano, questo paese ha lo strano primato di essere da anni il terzultimo, dopo altri 173 paesi che in teoria «stanno meglio».
Intoo è tutto secco in questa stagione: da ottobre a inizio giugno la terra non vede una sola goccia d’acqua. L’erba è gialla; i pochi alberi riducono al minimo il metabolismo. Gli statuari e imponenti baobab, alberi magici da queste parti, perdono le minuscole foglie, in attesa delle prossime piogge.
In questa regione, non lontano dalla città di Kupela, vivono in prevalenza popolazioni di etnia mossì (maggioritaria nel paese), coltivatori, e gli onnipresenti allevatori peul. Ci avviciniamo al villaggio di Kanougou, che in lingua moore (parlata dai mossì) significa «senza mani». La gente vive in gruppi di case famigliari, fatte di fango essiccato e con tetti di paglia.
Oltre a mossì e peul, da circa un anno e mezzo a Kanougou vivono due italiani: Paolo e Caterina. Paolo Turini, «Turpa» per gli amici, capelli sempre cortissimi, forte accento toscano, corporatura robusta, è di Montevarchi (diocesi di Fiesole). Caterina, minuta, lunghi capelli neri, parlata tranquilla, è sarda di Bolotana (Nuoro).
Li incontriamo nel cortile di una famiglia del villaggio. Stanno facendo un giro di visite ai presepi realizzati dai bambini. L’Africa, e il Burkina in particolare, ha avuto un peso decisivo nella loro vita, innanzitutto perché li ha fatti incontrare.
Tutto per caso …

Alcuni anni fa, Paolo era capo scout a Montevarchi. Gli capitò di assistere alla presentazione di un missionario in Bolivia; nacque in lui l’idea di un viaggio di conoscenza. «Lo chiesi a don Gabriele Marchesi, allora responsabile diocesano per le missioni; mi spiegò che avrei dovuto seguire un corso per poi sperare di partire d’estate».
Il sacerdote disse a Paolo che cercava qualcuno per piastrellare un dispensario di una missione africana, perché la persona che doveva andare aveva rinunciato. «Non sapevo fare quel lavoro – spiega Paolo -, ma avevo un amico che mi avrebbe potuto insegnare. Feci la proposta a don Gabriele. Egli era dubbioso; voleva un esperto, ma accettò la sfida».
Paolo si fece insegnare i rudimenti del mestiere durante i fine settimana; poi riuscì a prendere un mese di aspettativa dal lavoro; nel dicembre 1994 partiva per l’Africa. Era la prima volta e proprio a Kanougou svolse il suo primo servizio.
Qui conobbe don Carlo Donati, anche lui della diocesi di Fiesole, responsabile dell’associazione «Campo di lavoro del santo Natale», che da anni segue progetti e organizza scambi con il Burkina Faso.
Tornato in Italia, Paolo decise di lasciare gli scout e investì le sue energie nella creazione del centro missionario di Montevarchi, organizzando concerti, serate, sensibilizzazioni a favore dei missionari della diocesi.
Il suo impegno crebbe e, con esso, anche la voglia di ripartire. «Da quell’anno, tutte le mie ferie sono state dedicate a viaggi di servizio in Burkina e il mio tempo libero in Italia ad attività di appoggio alla missione».
Caterina, infermiera professionale, arriva in Burkina anche lei un po’ per caso. «Lavoravo a Nuoro e mi capitò di assistere un’infermiera in pensione, che aveva lavorato due anni in Burkina Faso – racconta -. Avevo sempre avuto un desiderio nascosto di andare in Africa, ma non avevo mai avuto occasione».
Caterina insiste perché l’anziana l’accompagni in un viaggio di conoscenza e di servizio. Così, alla fine del 1996, si ritrova al dispensario di Kupela, gestito dalle suore camilliane.
Sotto la Croce del Sud
È nel centro diocesano di accoglienza di Kupela, a 140 chilometri dalla capitale Ouagadougou, che Paolo e Caterina s’incontrano per la prima volta. «Qui transitano molti volontari, legati a missionari o a diocesi italiane che collaborano con quella di Kupela – racconta Paolo -. Quella sera di dicembre, qualcuno ci disse che in questo cielo si può vedere la Croce del Sud, ma solo in certe stagioni e di mattino presto».
Un gruppo di italiani, impegnati su diversi progetti, che casualmente si trovavano al centro, decise di darsi appuntamento alle cinque del mattino, per uscire in savana a contemplare la costellazione. «Io mi svegliai – dice Paolo – andai a chiamare gli altri. Ma solo Caterina si alzò. Fu così che iniziammo a conoscerci».
Rientrati in Italia, i contatti tra Nuoro e Montevarchi si intensificano, anche per attività di animazione missionaria; ma la distanza è grande. Paolo vola a Nuoro per una testimonianza; Caterina organizza una visita a Firenze. Nel frattempo Paolo, che ha iniziato a lavorare alle ferrovie, chiede e ottiene il part time «verticale» (15 giorni di lavoro al mese), che gli permette di dedicare molto tempo libero alla «sua» Africa.
Sono fidanzati, quando alla fine del 1998, decidono di partire per due mesi e mezzo in Burkina. I missionari li destinano a missioni diverse, piuttosto lontane tra loro: «Ci vedevamo e sentivamo meno che in Italia – scherza Paolo -. Verso la fine di quel periodo, insieme, incontrammo una persona che è ancor oggi il nostro ispiratore: fratel Silvestro Pia, religioso della Sacra Famiglia, in Burkina da oltre 40 anni, deceduto nel gennaio 2003».
La guida
«Ci siamo sposati il 2 ottobre del ‘99 e abbiamo chiesto un anno di aspettativa, per sperimentare una presenza più lunga in Burkina – racconta Caterina -. Dieci giorni dopo eravamo sull’aereo».
Raggiunto fratel Silvestro a Kudougou, Paolo è impegnato nella formazione professionale, Caterina in un centro nutrizionale. Il religioso li fa riflettere sulla possibilità di dedicarsi totalmente ai burkinabé, per un impegno di lunga durata nel paese. Chiede a Paolo di continuare l’attività nell’insegnamento dei mestieri, dato che è molto abile in falegnameria, costruzioni metalliche e altre attività tecniche.
«Silvestro è stato per noi guida spirituale e punto di riferimento – spiega Paolo -. È l’unico che ci ha incoraggiati a lasciare tutto e partire. Diceva “Se voi lavorate per il Signore, troverete sempre la soluzione”. Ci ha tranquillizzati sul futuro».
Continua Caterina con un po’ di emozione: «Disse che ci avrebbe seguiti anche se fossimo andati a realizzare l’opera lontano…».
Ma l’anno di aspettativa termina in fretta; bisogna scegliere: rientrare o fare una scelta ancora più radicale. «A questo punto abbiamo capito che potevamo farcela: abbiamo deciso di licenziarci, per impostare una nostra presenza qui senza limiti temporali» racconta Caterina.
«La nostra idea – continua Paolo – è la possibilità di mettere i nostri talenti al servizio degli altri. Questo può avvenire anche in Italia; ma lì io li usavo per me, mentre qui riesco ad aiutare qualcun altro a crescere».
«Dopo tante esperienze in pochi mesi, abbiamo capito che per avere più frutti occorre seguirli da vicino» conclude Caterina.
I Lion’s e gli altri
Dopo un periodo con i camilliani a Ouagadougou, nel centro per i malati di Aids, arriva una proposta allettante: realizzare un centro di formazione professionale nella diocesi di Kupela. «Sono i Lion’s di Montevarchi a proporsi come finanziatori – spiega animatamente Paolo -. Era l’occasione che aspettavamo. Insieme a don Gabriele e al vescovo di Kupela, mons. Sérafin Ruamba, abbiamo studiato il progetto nei dettagli».
Si trasferiscono a Kanougou, villaggio già noto a Paolo, e organizzano i preliminari. Ma qualcosa nei Lion’s non funziona: «Avevamo già acquistato il terreno, quando ci fanno sapere che i principali donatori erano falliti e non ci daranno una lira». Sembra il crollo di tutto, ma i due non demordono. Si affidano alla «provvidenza», dichiarano più volte. E la loro fiducia viene premiata.
«Si può dire che è la provvidenza, perché sono molte le persone, alcune appena conosciute, che hanno reso possibile il progetto». I centri missionari di Montevarchi e Nuoro, organizzando serate e concerti, riescono a raccogliere i soldi per la cisterna; un dottore, conosciuto in Burkina, mobilita amici per pagare la perforazione di un pozzo per l’acqua potabile; una donatrice di Catania, la sorella di Paolo, ex colleghi mettono insieme oltre 16 mila euro per pagare la costruzione di due laboratori. «Pensate, una signora di Chieti vende presepi per finanziarci e noi non l’abbiamo mai incontrata!».
«E il vostro budget per il 2004?».
«È ancora “la provvidenza”, che si concretizza in due conti bancari, uno in Italia e l’altro in Burkina, dove versano vari donatori».
Vita di villaggio
Occorre del tempo per abituarsi a vivere in un villaggio della savana burkinabé; è tutt’altra cosa che vivere in città. Paolo, con la sua abilità, adatta due stanze del dispensario delle suore come abitazione essenziale. Occorre procurarsi l’acqua, che proviene da una perforazione, mentre l’elettricità è prodotta da un impianto solare, dono di un amico.
Allo stesso tempo inizia i lavori di costruzione del centro di formazione, che prevede falegnameria, saldatura e riparazione di biciclette.
Caterina si occupa di animare i giovani del villaggio, per iniziare a coinvolgerli in diverse attività, come la produzione di statuette di gesso, che saranno vendute nella capitale. «Stiamo iniziando a conoscere la gente – racconta Caterina – e non è una cosa rapida. Per esempio, riusciamo a coinvolgere un gruppo di giovani di un quartiere; ma ci accorgiamo che non chiamano quelli di altri quartieri, a causa di piccole rivalità. Quindi siamo noi che li andiamo a cercare».
I problemi sono tanti. Il clima: in aprile e maggio la temperatura supera anche i 45 grandi all’ombra. Le malattie: qui occorre proteggersi costantemente dalla malaria, parassiti e infezioni alimentari.
Ma le vere difficoltà sono altre. «Spesso, mi spiace dirlo, abbiamo avuto incomprensioni nella collaborazione con i religiosi italiani – spiega Paolo -. Altro fattore importante è la gelosia tra la gente. Dobbiamo stare attenti a non creare squilibri; occorre consultare sempre le figure di riferimento del villaggio: il capo, i responsabili culturali. E poi i tempi, che non sono i nostri e rischiamo, con le nostre programmazioni, di turbare le persone».
Il loro orizzonte temporale: «Finché c’è la salute, pensiamo ai primi dieci anni».
Gli chiediamo se si sentono laici missionari. «Eh! Missionario è una parola grossa. Siamo “amici degli africani”. Abbiamo un ideale: fede e povertà».

Marco Bello

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