L’autore dell’articolo, consigliere generale,
ha accompagnato il superiore generale nella visita canonica in Costa d’Avorio, paese martoriato
dalla guerra civile, dove i missionari continuano a condividere rischi, privazioni e speranze della gente.
Tutto è iniziato a Roma, attorno a due tabeacoli. Uno nuovo di zecca, con raggiera dorata; l’altro di seconda mano; il primo pieno di rosari; il secondo di vestitini per bambini. Ambedue imbottiti in soffici vestiti nuovi e adagiati in due scatoloni di cartone. Tutto ubbidiva ai più esigenti requisiti dell’arte dell’imballaggio.
A Fiumicino il primo intoppo: «Quelle cose lì non sono ammesse nei nostri aerei! Sono ingombranti!». Mi venne un brivido istantaneo, come quando a Mepanhira (Mozambico), gli iconoclasti marxisti mi dissero che, oltre alla chiesa, era nazionalizzato anche il Cristo dentro il tabeacolo. All’aeroporto la cosa era meno grave: il tabeacolo destinato a Cristo, «segno della presenza di Dio» era solo «ingombrante»; in entrambi i casi, però, le parole mi suonarono irriverenti e dissacranti. Ma, spiegato il contenuto degli scatoloni e identificati i portatori, i tabeacoli sono partiti.
Secondo intoppo ad Abidjan: solo un tabeacolo comparve sul tapis roulant; dell’altro abbiamo dato i connotati, con la vaga speranza di recuperarlo chissà quando.
Fuori ci aspettavano i padri Zachariah King’aru, superiore dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio, e Pietro Villa, preoccupati per il ritardo prolungato. «Non diteci che avete ritardato tanto a causa dei tabeacoli» ci salutarono: una battuta che coglieva tutto il senso della situazione.
Così la storia dei tabeacoli ci ha accompagnato per tutta la durata della visita. È normale smarrire un bagaglio viaggiando in aereo; ma il nostro non era un bagaglio comune!
A San Pedro passammo quasi due settimane di fratea comunione e condivisione con tutti i confratelli presenti in Costa d’Avorio. I primi 4 giorni furono dedicati alla «formazione permanente», trattando vari argomenti di attualità: il cammino missionario fatto in Costa d’Avorio dal 1995 al presente, la situazione politica e sociale del paese, ancora dilaniato da tensioni, le sfide ecclesiali e missionarie. Da tale lettura e confronto sono state aggiornate le linee operative di evangelizzazione per il futuro.
Poi iniziò la visita canonica vera e propria alle missioni del nord, nella diocesi di Odienné, a più di 500 km da San Pedro: Dianra dove lavorano i padri Ramón Lázaro e Michael Wamunyu, e Marandallah, dove sono da poco arrivati i padri Flavio Pante e José Martín Sea.
Ma è stata una visita «virtuale»: abbiamo potuto «visitare» solo i quattro confratelli, senza poter mettere piede nelle missioni, perché situate nel territorio controllato dai ribelli e quindi per noi irraggiungibile. Il paese, infatti, continua a essere diviso in due. I quattro missionari sono forzatamente abituati a vivere per mesi isolati da quelli che lavorano nella regione sud-occidentale.
Lavorano tra i senoufo, in maggioranza di religione tradizionale. Cristiani e musulmani sono pochi e le relazioni che intercorrono tra di loro sono buone. La loro è pure una presenza di solidarietà: corrono gli stessi rischi e condividono i medesimi stenti della gente, poiché comincia a mancare tutto e niente più funziona (telefono, posta e altri servizi).
E anche sotto l’aspetto ecclesiale la situazione non è rosea: il vescovo della diocesi, per il momento, si trovava ad Abidjan per motivi di salute e di sicurezza; il clero è ridotto a mezza dozzina di preti o poco più. E non si sa fino a quando durerà tale situazione.
Nonostante tutto, i quattro missionari hanno trasfuso a tutti noi tanta allegria e serenità. A Dianra e a Marandallah il lavoro non si ferma. Le strutture sono ridotte all’osso. Bicicletta e motoretta (prendendo in affitto veicolo e conduttore) da tempo sostituiscono le auto, per sottrarle alla cupidigia dei ribelli o da chi per essi. È capitato a padre Zachariah: tornava da una visita a questi confratelli del nord, fu fermato, l’auto requisita, la sua persona condannata a morte; ma si è salvato miracolosamente, grazie a un diverbio, scoppiato in estremis, tra alcuni componenti della banda.
L a visita continua, reale questa volta, alla missione di Grand Béréby, a circa 50 km da San Pedro, in una posizione incantevole, affacciata sull’oceano. I padri Pietro Villa e Jean Willy Ipan e fratel Rombaut Ngaba vi lavorano da quasi quattro anni e già si parla di consegnarla alla diocesi, secondo la convenzione fatta a suo tempo. Ma il vescovo ha fatto capire che è ancora presto, perché sia la diocesi che i suoi sacerdoti sono giovani.
A Grand Béréby, lavoro religioso e promozione umana vanno a braccetto. Fratel Rombaut ha organizzato un dispensario che, oltre ad attendere i malati vicini, ha tessuto una rete di assistenza a tutti i villaggi della parrocchia e prepara infermieri non qualificati, ma capaci di prestare i rimedi più immediati alle comunità della foresta.
Queste iniziative, assieme al dispensario «Consolata» di San Pedro, sono finanziate dai confratelli del Canada e costituiscono la pupilla degli occhi del vescovo. L’impegno nel migliorae i servizi tende a infondere in queste opere una vera e propria dimensione religiosa, perché diventi «ministero degli infermi».
Se si eccettua qualche infiltrazione di banditi, provenienti dalla Liberia, a Grand Béréby non ci sono problemi di guerriglia, anche perché le truppe francesi giocano di anticipo.
D a Grand Béréby siamo passati alla grande missione di Sago, 140 km oltre San Pedro. A farla «grande» sono i fabbricati in muratura, unici in tutto il villaggio: la bella casa costruita da fratel Pietro Menegon, l’imponente chiesa iniziata da padre Flavio e finita da padre Zachariah, l’asilo e il bel convento delle suore di Santa Gemma Galgani. Grandezza riconosciuta anche dal sindaco del posto; ci ha detto: «Prima del vostro arrivo, Sago non era niente; ora, invece, tutti la conoscono e la invidiano».
Attualmente Sago è la comunità più numerosa, vi operano i padri Zachariah King’aru, Victor Kota, Joseph Omondi e Killian Wambua. Due di essi erano da tempo destinati a una missione nuova, che la guerra ha impedito di aprire.
La parrocchia è divisa in settori pastorali, ciascuno con a capo uno dei missionari. Nella zona c’è una forte presenza di stranieri, soprattutto immigrati dal Burkina Faso. Le lingue sono molte: in chiesa, oltre al francese, tutto è tradotto almeno in altre due lingue.
È questo uno dei grandi problemi, non solo religiosi, di tutta la Costa d’Avorio: gli stranieri sono circa il 35% della popolazione e per lo più sono discriminati in tutti i sensi.
La visita si è conclusa di domenica, con una bella celebrazione eucaristica e grande partecipazione di fedeli, fino a riempire la chiesa. E sono tornati in ballo i tabeacoli. Quello nuovo, che non si era perso, era destinato a questa chiesa. Portato all’altare nella bella processione di offertorio, fu solennemente benedetto da padre Trabucco e collocato in un luogo provvisorio. Pareva tanto grande; invece sembra scomparire nella grande chiesa. Ora è «abitato». Attirerà certamente tanta gente, stimolata dall’esempio di missionari e missionarie.
T oati a San Pedro, abbiamo nuovamente incontrato tutti i confratelli in assemblea finale, per prendere visione della relazione dei visitatori, discutere e rispondere a due importanti interrogativi: che fine farà l’esperienza di «inserzione», iniziata in mezzo ai baraccati del Bardot e ora interrotta? Ce ne sarà un’altra per sostituirla? Dove e quando?
Si è discusso molto sulla spiritualità dell’«inserzione»: essa consiste nel vivere in «mezzo ai poveri con mezzi poveri». È un ideale su cui tutti i confratelli sono d’accordo e tutti vogliono perseguire nel proprio lavoro missionario; ma le iniziative concrete di inserzione nelle varie comunità devono essere studiate bene e abbinate alle parrocchie. Casi di «inserzione pura», cioè progetti staccati da una parrocchia, come voleva essere quella del Bardot, in futuro devono essere ponderati e assunti da tutti i componenti del gruppo operante nel paese.
Anche la seconda domanda ha ricevuto una risposta definitiva: la nuova apertura avverrà nei primi mesi del 2004 e sarà a Grand Zattry, quasi a metà strada tra le comunità del nord e quelle del sud.
Che fine ha fatto l’altro tabeacolo? Curiosità legittima! Ebbene, tra una discussione e l’altra, padre Flavio è riuscito ad aggiustae la porticina, lo ha lucidato fino a farlo apparire quasi nuovo; poi lo ha rimesso nello scatolone per portarlo nelle missioni del nord.
Sembra che, nell’ultimo tragitto, il tabeacolo non abbia incontrato intoppi. E quando sarà abitato dal Signore, diventerà un’altra sorgente di forza e coraggio per i missionari, di consolazione e speranza per i fedeli di quella terra tanto martoriata.
Norberto Louro