Detronizziamo la pace

Circa 10 anni or sono Marco Lodoli scrisse un romanzetto anarchico, di cui non ricordo il titolo. I protagonisti erano tre giovani libertari e ingenui che avevano della politica un’idea tutta poetica. La loro prima azione fu quella di rubare Gesù bambino dal grande presepe di San Pietro.
«Secondo le loro menti bizzarre bisognava – a detta dell’autore stesso – simbolicamente interrompere quel ciclo che ogni anno a Natale festeggia la nascita del bambino divino e a Pasqua poi lo crocifigge». E aggiunge: «Bisognava liberare il neonato da un destino feroce, mandarlo a giocare con gli altri bambini».
Prendiamo questa «parabola» come filigrana attraverso la quale contraddistinguere ed individuare la particolarità del discorso cristiano che, con l’incarnazione, si discosta da quello religioso per rivestire i panni della «profanità». Dio, in Gesù Cristo, esce dalla sua solitudine ontocratica per identificarsi con l’uomo, con la sua precarietà, la sua mondanità e, appunto, la sua «pro-fanità», nel senso etimologico del termine. Non l’uomo surrettiziamente imbalsamato dentro il tempio del potere e dell’avere, ma l’uomo nella sua nudità, per il quale «non c’è posto in albergo».
Contro la tendenza, ricorrente e naturale, dell’uomo a consacrare le cose, sottraendole all’uso comune e riservandole alla divinità, il Dio di Gesù Cristo si «sconsacra» diventando uomo comune e compagno di viaggio. La comunione e non la separazione; la condivisione e non l’appropriazione; il darsi e non l’accaparrarsi. «Prendete e mangiate; prendete e bevete; ecco: questo sono io…».
Questo coinvolgimento di Dio nella storia dell’uomo, questo suo frammischiarsi nelle vicende umane è liberante, ma anche molto impegnativo per noi credenti, perché è alla base di una consapevolezza per la quale Gesù Cristo non è solo un nome proprio, ma anche un nome comune; non sta ad indicare solo una persona, ma anche un programma; per cui la sua immanenza non diventa prigionia, così come la sua trascendenza non costituisce evasione.
I nomi comuni di Dio, allora, letti nel versante della nostra contingenza, sono molti: Pace, Amore, Giustizia, Servizio, Condivisione e altri ancora. La loro residenza è là dove l’uomo mette piede; non certamente sui troni: luoghi o-sceni nei quali, per paura e per pigrizia, i potenti amano relegare i sogni degli uomini perché restino tali. I troni creano distanza ed incutono soggezione; è per questo che la deposizione dei potenti dai troni è un atto liberatorio che solo un Dio detronizzato può compiere. Ed è per questo che tutti gli intronizzati tentano di rimettere sul trono i loro idoli: Pace o Libertà che siano.
«Stiano lì, in alto, sul trono delle utopie!» ci dicono. E da quella altitudine sarà difficile che possano cortocircuitare le politiche belliciste o le economie armate. «Stiano lì, lontano, nei sogni delle anime imbelli!» ci ripetono. E in questa lontananza sarà più facile travisare le strategie imperiali e battezzare con nomi capziosi realtà di violenza.
Per i detentori del potere un Dio vicino fa paura ed una pace a portata di mano mette imbarazzo. L’evangelista Matteo narra che alla notizia della nascita del Messia «il re Erode si turbò, e con lui tutta Gerusalemme». Loro, i grandi, amano pregare un Dio lontano e invocare una pace che voli alto.
Ma noi sappiamo che, da quando Dio ha posto la sua tenda tra noi, la vera pace cammina con i piedi dei «Francesco», non vola sulle ali dei Condor.

Don Aldo opera in una terra che lo scrittore Ignazio Silone portò alla ribalta con il romanzo Fontamara (1930). Gli abitanti di Fontamara (località antica quanto oscura nella regione Abruzzo) sono contadini, chiamati «cafoni». Come in tutti i paesi, anche a Fontamara vigono gerarchie.
Scrive Silone:
«In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo… Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi vengono i cafoni. E si può dire ch’è finito…».

don Aldo Antonelli




Rimanere giovani

Cari missionari,
«Non fate alcuna cosa che non vi riempia la pancia». Frase fatta, sentita molte volte, durante e subito dopo l’ultima guerra mondiale. Era un insegnamento per la sopravvivenza.
Oggi, dopo anni di ricostruzione e lavoro, le cose sono migliorate, e la fame tra noi è quasi inesistente. A tal punto che gli insegnanti modei raccomandano il rovescio della medaglia: «Mantenete la linea, non mangiate troppo».
Slogan pubblicitari, bombardati continuamente nelle orecchie e nei cervelli da togliere quel po’ di sorriso rimasto sulle labbra dei giovani e la gioia di vivere, riducendo i sentimenti a cose futili. Voi, missionari, potete fare qualcosa? Sì. Grazie a Dio, avete personaggi validi per spiegare valori ben superiori ai suddetti.
Abbiamo bisogno di conoscere, per amare meglio, Colui del quale ci si può veramente fidare. Rimanere in silenzio, in certi momenti, è utile e doveroso. Il dialogo, a volte, si riduce all’essenziale: dono di amore, richiesta di ascolto, compagnia premurosa. Ecco di che cosa ci si può riempire il cuore e la mente (senza proporre sempre la pancia piena o vuota).
Parlare ai giovani di nostro Signore, vero Dio e vero uomo. Lo si può fare anche a puntate, quali:
– Gesù e i maestri della legge;
– le predicazioni alle folle;
– i colloqui sussurrati ad alcuni personaggi;
– le guarigioni e la risurrezione (con la sua commozione e compassione);
– le conversioni e il perdono dei peccati…
È giusto che questi argomenti vengano sviluppati sulle vostre riviste al posto di pettegolezzi e notizie vergognose. Alla maggioranza delle persone vere interessano le verità, dette da persone competenti, in modo comprensivo e rispettoso.
La fantasia, i desideri di sapere dov’è il bello e il buono concorrono a farci rimanere giovani nello spirito, a riempire il cuore di gioia, ad amare ciò che si apprende. Non vale la pena tentare questa sfida?

Per tante persone di buona volontà, la domanda finale è retorica. Ma è anche una provocazione, un incoraggiamento.

Cherubina Lorusso




I poveri aumentano o diminuiscono?

Caro direttore,
in questi giorni ho avuto modo di assistere ad una interessante conferenza a Pesaro, tenuta dal professor Dominick Salvatore, apprezzato economista italiano che vive ed insegna presso la Fordham University di New York. Tra varie cose interessanti, il prof. Salvatore ha affermato che, anche e soprattutto a causa della globalizzazione economica, i poveri nel mondo erano 1 miliardo e 100 milioni nel 1982, mentre oggi sono calati a circa 600 milioni.
Non ho motivi di dubitare di queste cifre, anche per l’autorevolezza e la stima che nutro nei confronti del professore: tra l’altro noto editorialista anche de Il Sole 24 Ore.
Le chiedo: è possibile approfondire su Missioni Consolata questo argomento, con un dibattito articolato e con l’apporto di relatori competenti?

In attesa di un eventuale approfondimento, riportiamo alcuni dati dal Rapporto della Fao (Fondo delle Nazioni Unite sull’agricoltura e l’alimentazione), dal titolo «Lo stato dell’insicurezza alimentare nel 2003».
Dal citato Rapporto si apprende che, al presente, sono 798 milioni le persone denutrite nei paesi in via di sviluppo; 34 milioni quelle nelle nazioni mediamente sviluppate; 10 milioni coloro che soffrono la fame nelle regioni ricche e industrializzate.
Oggigiorno, rispetto agli anni ’90, le vittime della denutrizione sono circa 18 milioni in più. Pertanto si allontana sempre di più l’obiettivo di ridurre del 50% i morti di fame entro il 2015.

Giovanni Pirovano




Il sequestro

Roraima / Brasile, 6 gennaio 2004. Latifondisti (fazendeiros) e risicoltori, con l’appoggio di indios, sequestrano tre missionari della Consolata a Surumú, a 220 km dalla capitale Boa Vista, e li detengono in ostaggio. Un fatto inedito a Roraima. Il giorno 8 i missionari vengono rilasciati. Ma la vicenda resta gravissima, e non solo perché sono stati vilipesi tre religiosi: un brasiliano, un colombiano e uno spagnolo.
Con il fattaccio, gli autori:
– hanno depredato una missione cattolica;
– hanno assalito l’annesso Centro di formazione indigena, sequestrando persino alcuni allievi;
– hanno attaccato a Boa Vista due istituzioni nazionali: la Funai (Fondazione nazionale dell’indio) e l’Incra (Istituto nazionale di colonizzazione e riforma agraria);
– hanno bloccato le vie di accesso a Boa Vista e le autostrade 174 e 401, che collegano rispettivamente al Venezuela e alla Guyana inglese;
– hanno impedito l’accesso di generi alimentari…
La ragione? Esprimere un secco no al governo federale per l’omologazione dell’area indigena Raposa/Serra do Sol, prevista per la fine di gennaio, dopo estenuanti pressioni durate un trentennio. Intanto, nel 1998, il ministro della giustizia firmava il decreto di demarcazione dell’area.
Il territorio, di 16.500 kmq, è abitato dagli indigeni Macuxi, Wapichana Ingarikò, Patamoma e Taurepang. Complessivamente 15.000 persone.
Ma c’è di più nei fatti del 6 gennaio. Sotto la punta di un iceberg, si cela il disegno perverso di conservare il territorio di Roraima nell’anarchia ed impunità.
Noi, al contrario, riteniamo che la legalità non solo sia possibile, ma soprattutto doverosa. Lo affermiamo confortati dalle seguenti esperienze positive.
– 1997, giugno-luglio. Le comunità indigene, dell’area ovest della Raposa/Serra do Sol, insorgono pacificamente, pressando il governo federale di Brasilia affinché allontani dal territorio i cercatori d’oro e diamanti (garimpeiros). Questi tuttavia, sostenuti da vasti settori della comunità dei bianchi, sostengono che l’intervento delle forze del governo federale avrebbe scatenato la guerra civile. Alla fine, di fronte alla polizia federale, i garimpeiros (benché armati) si arrendono senza colpo ferire.
– 1998. I garimpeiros occupano illegalmente l’area est della Raposa/Serra do Sol, e gli indios incalzano la Funai affinché allontani gli invasori. Costoro, ancora una volta, minacciano il caos sociale. Ma il 31 gennaio intervengono le forze federali, accompagnate da indigeni. E tutto si risolve nella tranquillità. La stessa società roraimense, pur ostile agli indios, non reagisce.
Dunque, l’ordine è garantito dal governo federale, mentre quello di Roraima è inetto e fomenta le invasioni nel territorio indigeno.
Dopo i fatti del 6 gennaio, il governo federale deve ristabilire l’«ordine», come vuole anche la bandiera nazionale del Brasile. Non farlo significherebbe avallare anarchia e impunità, su cui contano le autorità corrotte di Roraima.

Dal gennaio 2003 a Roraima è in corso la Campagna internazionale «Nos existimos», che vede i popoli indigeni, i contadini poveri e gli emarginati della città alleati contro l’impunità. La Campagna, promossa dalla diocesi di Roraima, missionari della Consolata, Centro indigeno, Centrale unica dei lavoratori, Centro dei diritti umani, ecc., rivendica pure l’omologazione in area continua della Raposa/Serra do Sol: omologazione che il presidente Luis Inazio Lula da Silva dovrebbe presto sottoscrivere.
Ci auguriamo che il presidente di una grande nazione democratica, come il Brasile, non si lasci intimorire da un pugno di facinorosi.
Nos Existimos,
Italia

Benedetto Bellesi