Abbè Pierre, fondatore di Emmaus
Già partigiano e deputato all’Assemblea nazionale francese, l’Abbé Pierre resta l’anima carismatica di Emmaus, movimento
da lui fondato per dare speranza ai disperati
e lottare contro la miseria e le sue cause.
In questo incontro privilegiato con i lettori
di Missioni Consolata, egli rivela la sua visione sull’Africa e sul mondo, proiettata nel futuro.
Ouagadougou. Piccolo, con una lunga barba bianca e gli occhi azzurri vivissimi. Si sposta con l’aiuto di una sedia a rotelle o di un bastone. Eppure la sua presenza è costante, importante. Ha superato i 91 anni, ma è venuto in Africa per partecipare alla decima assemblea del movimento da lui fondato nel 1949. Sempre disponibile all’ascolto, ci accoglie nella sua stanza d’albergo il giorno della partenza, dopo una settimana passata tra riunioni plenarie, visite a gruppi e una marcia contro la miseria. Prima di tutto ci chiede di noi, ci fa raccontare. Capiamo di essere al cospetto di un grande…
Abbé Pierre, i conflitti nel mondo e in Africa sono in aumento, perché?
«In Africa essi derivano da gravi fattori specifici. All’epoca della colonizzazione furono tracciate le frontiere, senza tenere conto del passato e delle relazioni tra i diversi gruppi. Tale divisione, nella prima fase post coloniale, non provocava particolari rischi, perché gli eroi dell’indipendenza godevano di tale prestigio da disinnescare eventuali tensioni e mantenere i rispettivi paesi nella pace. Ma con la graduale sparizione di questa generazione di leaders, le aspirazioni separatiste si sono riaccese diventando motivi di conflitto.
Altre cause di guerra sono i problemi d’interesse e dominio, di potere economico e politico: molte guerre in Africa sono dovute alle ambizioni di personaggi che vogliono appropriarsi delle risorse del continente, materie prime, petrolio e minerali.
A tutto ciò si aggiungono le legittime proteste di popoli che si sentono sfruttati, impediti di sviluppare le potenzialità del proprio paese. Ne è un esempio la coltura del cotone in Burkina Faso: il paese è in ginocchio perché altri paesi produttori, come gli Stati Uniti, sovvenzionano i loro agricoltori, che possono vendere i loro prodotti a un prezzo inferiore al costo reale. Allo stesso modo milioni di tonnellate di cotone prodotto da vari paesi africani non trovano uno sbocco sul mercato mondiale. Questo può arrivare a essere un motivo d’insurrezione.
Se allarghiamo lo sguardo sul resto del mondo, vediamo che non ci sono solo le grandi guerre. C’è anche il terrorismo. Un gruppo di fanatici può mettere in ginocchio la più grande potenza del mondo, nonostante la sua impressionante forza tecnica e militare. Purtroppo stiamo constatando che le guerre di questo secolo appena cominciato non saranno solo quelle tradizionali, ma tendono a evolversi forme e manifestazioni di terrorismo».
Alcune grandi potenze occidentali hanno scelto una strategia di lotta al terrorismo…
«Non sarà facile né breve superarlo. Non dimentichiamo che in Europa abbiamo vissuto analoghi problemi e tensioni, con la differenza che non ci si combatteva con bombardieri ed elicotteri, ma a colpi di frecce e lance. Il terrore è stato superato in Occidente grazie all’impegno di personaggi eccezionali, con una vita evangelica diffusa a tutti gli strati della popolazione, facendo forza sul sentimento espresso nel Padre nostro, insegnando a ogni popolo a riconoscere la frateità con gli altri popoli.
È certo che, se non ci fosse stata questa predicazione del vangelo, le cose non si sarebbero potute evolvere come le vediamo oggi. Al tempo stesso, è evidente che, per fermare il terrorismo occorre un instancabile lavoro al fine di ottenere una diversa ripartizione delle ricchezze della terra; un’opera che si protrarrà per generazioni.
Sono due fattori della stessa importanza, benché su livelli diversi: uno è morale e interiore, l’altro politico e materiale».
Che consiglio darebbe a George Bush?
«Da un lato suggerirei di applicarsi a vivere i valori del vangelo nella vita personale; dall’altro di diventare competente nei problemi economici, politici del mondo, sempre più complessi, per potere poi sostenere quei governi che sono determinati di imboccare la strada della pace. Si tratta, al tempo stesso, di un problema intimo, di testimonianza di vita, e l’essere qualificato per esercitare una pressione positiva sugli stati».
Secondo lei, è possibile un vero sviluppo senza esclusione, ovvero la ridistribuzione di risorse a livello mondiale?
«Bisogna che i paesi poveri, come hanno dimostrato con determinazione nella recente conferenza di Cancun, si uniscano e si esprimano con un’unica voce sui problemi che hanno in comune. Questa conferenza, da tutti giudicata un fallimento, lascerà il segno nella storia: abbiamo visto tutti che le vittime dell’ingiustizia, in maniera inedita e inattesa, hanno fatto blocco e detto «no!». Questa presa di posizione degli stati del terzo mondo, uniti, è un avvenimento.
Bisogna incoraggiare ognuno di loro a continuare queste alleanze. Noi lavoriamo per fare una unione europea, ma c’è la necessità di un’unione africana forte e allo stesso tempo solidale con l’Asia e l’America Latina».
Quest’unità è stata fatta dai governanti dei paesi, ma la società civile che ruolo ha?
«I governi sono stati spinti a prendere tali posizioni perché sentivano che era quello che voleva la loro opinione pubblica. C’è stata una pressione, e questo li ha incoraggiati ad agire, per una vera democrazia, nella quale si è realizzato quello che voleva la gente».
La marcia che avete fatto come movimento Emmaus, a Ouagadougou, cosa voleva dire?
«Un piccolo segno. Ma è moltiplicando tali partecipazioni e prese di posizione che, nonostante la loro piccolezza, da un lato potremo diffondere e radicare la condivisione nello spirito evangelico, dall’altro rafforzare la resistenza alle grandi potenze.
Queste ultime non sono solo perversione e cupidigia, che rifiuta la condivisione; sono soprattutto causa di cecità. Se interroghiamo dei semplici cittadini negli Stati Uniti, ci rendiamo conto che non sono coscienti di quello che il loro governo sta facendo. Vuol dire che c’è un’educazione da fare «da popolo a popolo». E il vostro lavoro nella stampa è uno dei più validi strumenti».
Qual è il ruolo del movimento Emmaus nella società civile mondiale?
«È una scintilla in un incendio. Ognuno è molto piccolo, ne siamo coscienti. Qualsiasi partecipazione, in un qualsiasi movimento, è poco, ma è con tutte queste scintille che il fuoco diventa una forza capace di trasformare la materia!».
Emmaus dichiara «guerra alla povertà». Cosa vuol dire?
«Chiediamo che ogni famiglia abbia l’indispensabile, per dare ai bambini quello di cui hanno bisogno. Per questo è necessario trasformare noi stessi, per poi contagiare gli altri. San Francesco d’Assisi, per esempio, ha contribuito a stimolare queste evoluzioni interiori durante i secoli.
Allo stesso tempo ritorniamo sulla necessità di diventare competenti. I problemi mondiali attuali non hanno nulla a che fare con i dilettanti. Spesso, anche con le migliori buone intenzioni, facciamo delle stupidaggini e otteniamo risultati contrari a quello che volevamo. Come sacerdote, so di essere poco competente. Il mio ruolo è piuttosto quello di provocare il risveglio psicologico di ognuno: lavorare, studiare, essere ben informati per sapere disceere tra i programmi politici degli uni e degli altri, e appoggiare quelli positivi, mobilitando energie.
Ho 91 anni, si ricordi. È una follia».
Ma lei è sempre molto dinamico. Come lo spiega?
«Non ho spiegazioni; bisogna assolutamente farlo e anche voi dovete farlo. Dio mi ha lasciato la voce, ma ognuno di questi giorni di assemblea, di incontri personali, mi lascia sfinito. Quando mi vedono in forma arrivano tante chiamate, tutte valide, che mi chiedono di andare da una parte e dall’altra. Ma io non posso».
Come vede il futuro del movimento Emmaus?
«Non ho alcuna inquietudine, il movimento ha i suoi fondamenti, che si basano sul «Manifesto universale d’Emmaus», fatto 45 anni fa. In questi decenni il movimento ha conosciuto azioni di grande efficacia in determinati momenti storici; quotidianamente e ha portato avanti azioni minime, ma tutto ha contribuito al risveglio delle coscienze. Quando accolsi un uomo disperato, se mi avessero detto: «Un giorno ci saranno 400 persone di 47 paesi che si riuniranno nel centro dell’Africa per riprodurre le stesse azioni», io avrei detto: «Sognate!».
Certo, in ogni tappa e in ogni luogo del mondo è stato necessario trovare delle persone capaci e responsabili. Ma non ho inquietudini, a condizione che rinnoviamo periodicamente il nome e il fuoco di ciascuno, perché si rimetta a bruciare».
LA SVOLTA AFRICANA
Ouagadougou. H anno i colori dei quattro continenti, ma tutti con il loro bedge al collo: sono i 400 e più delegati di oltre 300 gruppi Emmaus, provenienti da 47 paesi dei quattro continenti. Per la loro decima assemblea generale (17-22 novembre 2003) hanno scelto Ouagadougou, capitale del Burkina Faso.
Nella sala dei congressi dell’Uemoa, al tavolo di presidenza, spicca un anziano con la barba bianca, vestito di nero: è l’Abbé Pierre, il sacerdote francese che 50 anni fa fondò il movimento. Anima i dibattiti il presidente di Emmaus internazionale, Renzo Fior, responsabile della Comunità di Villafranca (VR), rieletto per altri 4 anni.
Con l’aiuto di esperti africani, discutono sulla situazione del mondo attuale, con le sue speranze e le sue ingiustizie. Quindi rieleggono le cariche, emendano gli statuti, tracciano le linee operative per i prossimi 4 anni.
La base del movimento Emmaus sono le comunità, aperte a quanti vogliono condividere vita, lavoro e solidarietà con i poveri del mondo. Identica rimane la convinzione del fondatore: anche le persone più semplici, o gli esclusi dalla società competitiva, sono capaci di «piccole-grandi cose» e di forti provocazioni. Due sono i pilastri del movimento: servire per primi i più sofferenti; lottare per distruggere le cause della miseria. «Il primo è più facile e immediato – afferma un delegato -; più difficile il secondo: richiede lavoro di riflessione, attività che vanno nel senso dell’autonomia, solidarietà di lunga durata».
E mmaus non impianta progetti nei paesi del Sud. Persone e gruppi che, conosciuta la filosofia del movimento, chiedono di entrarvi, prima si mettono in contatto con i rappresentanti nazionali o regionali; quindi seguono visite per stabilire legami di conoscenza e amicizia reciproca; infine prende forma la comunità.
«È importante che ogni gruppo faccia un’attività economica per raggiungere l’autosufficienza – spiega il presidente Renzo Fior -. Fin dall’inizio deve esserci questa preoccupazione, altrimenti si crea una relazione di assistenza e dipendenza, dove chi dona, vuole poi controllare e giudicare i progetti. Gli africani ci dicono: siamo noi che viviamo qui, conosciamo realtà, abitudini, tradizioni e difficoltà; quindi spetta a noi valutare; l’aiuto deve essere uno scambio e la verifica fatta insieme. Dobbiamo stare attenti a non sostituire un colonialismo economico politico con “colonialismo solidale” degli aiuti».
S e si eccettua quella iniziale di Montreal, l’Assemblea generale di Ouagadougou è la prima tenuta fuori dall’Europa. L’evento è stato possibile solo ora, perché, secondo gli statuti, tocca ai gruppi locali a organizzarla.
La scelta del Burkina Faso è stata motivata da vari fattori. Prima di tutto è proprio qui che, 10 anni fa, è sorto il primo gruppo Emmaus. Il secondo fattore deriva dalla posizione che il continente occupa, oggi, nel panorama mondiale: l’Africa è il continente dimenticato. «Tenendo il momento più alto della vita del nostro movimento in Burkina, uno dei paesi più poveri del mondo – continua il presidente – vogliamo dare un messaggio forte all’opinione pubblica. Inoltre abbiamo voluto dare alla gente del movimento la possibilità di conoscere l’Africa e di rendersi conto delle difficoltà in cui vivono gli africani».
È soddisfatto il presidente di Emmaus internazionale per i risultati? «Più che all’interno del movimento, l’Assemblea ha guardato all’esterno, al suo ruolo nella società civile mondiale, all’insegna dello slogan: “Insieme, agire, denunciare”. Insieme: perché crediamo nel valore del movimento. Agire: perché operiamo in situazioni di miseria e mancanza di diritti, cercando di ristabilire una certa giustizia. A partire da tale situazione abbiamo il diritto e dovere di denunciare.
Abbiamo sempre avuto questo ruolo, ma dopo quest’incontro la denuncia diventa pane l’agire quotidiano. Ma non è la denuncia del teorico, ma di gente semplice, che per tutta la settimana raccatta cose che gli altri buttano via, dà loro un valore e vi ricava quanto serve a realizzare tante attività. Se viene da un gruppo che agisce, la denuncia diventa più credibile. Se una realtà tanto piccola riesce a risolvere certi problemi, vuol dire che chi ha più possibilità e capacità potrebbe farlo in maniera definitiva.
I nuovi statuti di Emmaus non hanno niente di rivoluzionario, ma sono stati codificati vari punti in maniera chiara e sistematica: denunciamo la politica neoliberale e coloniale, le guerre come scelta dei paesi ricchi per continuare a sfruttare le risorse economiche dei paesi del Sud; denunciamo il blocco e la chiusura del nostro mondo sviluppato nei confronti dei prodotti che vengono dal Sud; denunciamo le politiche perverse degli organismi inteazionali che, con le loro proposte di aggiustamenti strutturali, aumentano il numero dei poveri e hanno creato un’altra forma di colonialismo, ammantata di preoccupazione per lo sviluppo».
I delegati hanno elaborato anche un documento con le linee di lavoro per i futuri quattro anni: un manuale operativo centrato su 5 temi: economia di giustizia, coscientizzazione liberatrice, nuovi stili di vita e di consumo, finanza etica, pace e nonviolenza, lotta al terrorismo.
«Sono cose molto concrete. E il fatto che i gruppi si sentono impegnati a metterle in pratica provoca una riflessione all’interno delle realtà locali e importanti conseguenze concrete. Circa la finanza etica, per esempio, la comunità deve verificare se esiste sul proprio territorio, mettersi in contatto e depositare i propri soldi. Il problema della pace spinge a denunciare la produzione e commercio di armi. Per i nuovi stili di vita si chiede a ogni comunità di fare un’analisi chiara sui consumi e cercare nuove forme di energia. La coscientizzazione liberatrice sprona a creare una coscienza critica nei confronti dei meccanismi di potere, insegnando le varie materie».
D all’Assemblea sono emerse anche le due anime del movimento Emmaus. Quella maggioritaria pensa a un’organizzazione forte, capace di rispondere alle sfide di oggi; quella minoritaria rivendica l’autonomia di gruppo. «Una parte di noi ha paura che tutto, attività e politica, venga deciso dall’alto. Nessuno vuole che succeda, poiché la vita di Emmaus nasce dai gruppi locali, non è decisa a tavolino, nelle discussioni fatte a Parigi o altrove. Tuttavia un movimento internazionale è un sostegno per il gruppo e amplificazione del problema – rincara il presidente e porta un esempio: «Alcuni gruppi indiani fanno un lavoro di difesa dei diritti degli intoccabili nel sud dell’India. Che questa lotta rimanga circoscritta nell’ambito indiano può essere utile; se invece, a partire da questa esperienza, si riesce ad allargae l’eco e il movimento la fa propria, le persone sul posto saranno meno esposte».
«Il risultato politico è positivo – conclude Renzo Fior -. Ma ci sono alcune remore ancora esistenti all’interno. La dichiarazione finale è passata quasi all’unanimità, ma essa non si è tradotta sulla parte politica degli statuti. Leggo comunque la volontà e la possibilità di poter lavorare, perché il movimento è già su questa strada».
Marco Bello