Guatemala – Donne dalla pelle dura
«Mio padre sparì per mano dei militari nella notte del 9 luglio 1982. Dopo tre giorni i militari tornarono e dissero a mia madre di non cercarlo più perché era già morto. La sua sorte non era stata uguale a quella di tanti altri che trascorsero anni, tra sofferenze infinite, nelle prigioni dell’esercito. Mio marito era un dirigente campesino. Scomparve nel maggio del 1985. Non ho mai saputo dove lo portarono, dove abbandonarono il suo corpo. Soprattutto non ho mai potuto dire con sicurezza ai miei figli se il loro papà sarebbe tornato».
I lunghi capelli neri le cadono sul coloratissimo scialle. Piccola e robusta come la maggior parte delle donne maya, Rosalina Tujuc ha lo sguardo di chi ne ha viste tante, ma il suo sorriso rimane dolce e disarmante. La sua storia fa rabbrividire, ma non è un’eccezione in Guatemala. Anzi, si può dire che sia la regola. I 36 anni di guerra civile hanno, infatti, prodotto 40.000 vedove. Nel 1988, un gruppo di queste decise di unire le forze in un’associazione battezzata Coordinadora nacional de viudas de Guatemala (Conavigua).
«Il nostro lavoro – ci spiega Rosalina – inizia nel settembre del 1988, quando donne dell’occidente e del nord cominciano a lavorare per fermare la militarizzazione del paese, per impedire che i nostri figli siano portati nelle caserme, ma anche per ritrovare i nostri mariti, i nostri familiari, assassinati dall’esercito e abbandonati in cimiteri clandestini. Un altro compito è quello di ricercare forme di sopravvivenza per le donne: il 25% delle donne che lavorano in Conavigua sono vedove di guerra. Ma ci sono anche donne sposate, nubili, madri nubili: quello che ci unisce è il desiderio comune di batterci, di lottare per la giustizia e contro l’impunità. All’inizio di questa esperienza la maggioranza di noi non sapeva o aveva appena imparato a parlare lo spagnolo; la gran parte non sapeva leggere né scrivere e quindi il nostro lavoro con le compagne era tutto a voce, orale».
Oggi Conavigua raggruppa circa 10 mila donne. Una realtà ancora più straordinaria, se si considera che essa è nata ed opera in un paese dove il machismo continua ad essere una caratteristica dominante della società.
Prima di lavorare con Conavigua, Rosalina Tujuc è stata deputata, arrivando anche a rivestire la carica di vicepresidente del parlamento guatemalteco. La sua conoscenza del paese è quindi molto approfondita.
«La situazione economica – spiega l’esponente maya – è molto difficile. La firma degli accordi di pace del dicembre 1996 ha portato a terminare con gli scontri armati, ma gli altri pilastri degli accordi non hanno avuto una reale attuazione. Per esempio, non sono riusciti a cambiare le strutture militari ed economiche del paese e quindi ancor meno si sono potuti risolvere i problemi della povertà, della discriminazione, dell’esclusione dei popoli indigeni.
In Guatemala la disoccupazione è grande. Gli accordi di pace avevano, tra l’altro, l’obiettivo di realizzare una serie di misure tributarie, che non sono state fatte; al contrario, si è proceduto con le privatizzazioni. I capitali privati, a quanto pare, non vengono investiti all’interno, ma vengono dirottati fuori dal paese. Quindi, direi che la situazione di povertà, prima concentrata nelle campagne, ora è diventata generalizzata. Tutto questo non ha permesso al Guatemala di aprirsi allo sviluppo economico.
Da un punto di vista politico, non si è riusciti ad organizzare un piano di sicurezza per tutti i cittadini; ancora oggi i più implicati in violazioni dei diritti umani continuano ad essere i membri della polizia. Assistiamo anche a continue intimidazioni, rivolte soprattutto contro le organizzazioni per i diritti umani: i loro uffici vengono assaliti, derubati dei computers, si arriva alle minacce di morte per chi vi lavora».
Prima di salutarci, torniamo a parlare della condizione delle donne, le più colpite dalla disastrosa situazione economica del paese.
«Le donne – ci conferma Rosalina – raggiungono il 60-70% di disoccupazione. Inoltre, quasi tutte le indigene non hanno un’educazione. Senza lavoro e senza speranza, dunque. Ma anche quando hanno un lavoro le donne sono vittime. Penso soprattutto alle zone urbane o comunque vicine alle città dove ci sono molte maquilas (fabbriche che producono esclusivamente per l’estero, ndr). In queste fabbriche non ci sono garanzie per un lavoro dignitoso e rispettoso della persona. Se però le donne cominciano a lottare per i loro diritti, subiscono violenze e torture. Quando non vengono uccise».
Pa.Mo.
Paolo Moiola