Sacrificio per la patria o tragedia dell’irresponsabilità umana?
Lacrime pubbliche o lacrime private? Guerra al terrorismo o lotta al terrorismo? Missioni di guerra o missioni di pace? Soldi pubblici ai bilanci militari
o allo stato sociale? Gioalismo al servizio del potere o giornalismo al servizio della verità? A mente fredda, abbiamo chiesto ad alcuni uomini di chiesa com’è cambiata l’Italia dopo la strage di Nassiriya nell’interminabile guerra irachena e in un momento di terrorismo dilagante.
Le loro risposte sono state tutt’altro che scontate…
«Noi siamo i buoni. Cos’altro dobbiamo sapere?». Così ragionano, secondo il settimanale statunitense The Nation (1), i neo-conservatori che, con George W. Bush, guidano attualmente gli Usa.
In epoca di globalizzazione e di imitazione pedissequa delle idee del più forte, il ragionamento si è propagato per ogni dove. Le obiezioni e le critiche, ancorché motivate, sono subito messe a tacere, con le buone o con le cattive.
La guerra preventiva è lo strumento migliore contro il terrorismo? Perché, invece di ridursi, il fenomeno è aumentato a dismisura? I militari italiani in Iraq sono un contingente di guerra o di pace? L’articolo 11 della Costituzione italiana è stato rispettato? La risoluzione 1511 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (ovvero l’autorizzazione alla creazione di una forza multinazionale in Iraq) ha sanato ex post l’illegalità della guerra di George W. Bush? E ancora: si può ottenere il «burro» dai «cannoni»? Fuor di metafora, è lecito utilizzare le armi e le guerre per dare impulso all’economia? La risposta dovrebbe essere ovvia, ma la realtà dice l’opposto.
Lo scorso novembre il Congresso statunitense ha approvato il bilancio della difesa per il 2004: oltre 400 miliardi di dollari, il doppio del prodotto interno lordo (pil) della Danimarca, più di quello della Russia. In questi stessi mesi, il pil degli Usa è in crescita vertiginosa (e forse drogata), dopo un biennio di recessione. I due dati sono in stretta relazione: le spese militari hanno dato una spinta decisiva alla crescita dell’economia. È lecito chiedersi se è morale incentivare la crescita economica di un paese con spese immorali (e che, tra l’altro, andranno a danneggiare altri)?
Guardiamo all’Italia. La campagna Sbilanciamoci, promossa da 30 organizzazioni della società civile (da Altreconomia al Wwf, passando per Mani Tese e Pax Christi), ha prodotto uno straordinario libretto di 66 pagine dal titolo: Cambiamo finanziaria. Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace e l’ambiente (2). Se qualcuno dei grandi giornali italiani decidesse di regalare questo volumetto ai propri lettori (al posto dei consueti gadgets), farebbe un grande servizio all’informazione e soprattutto alla formazione degli italiani.
«La manovra 2004 – si legge a pagina 28 – prevede uno stanziamento (fondo di riserva) di 1 miliardo e 200 milioni di euro per le necessità finanziarie legate alla proroga delle “missioni di pace”. Ma quali “missioni di pace”? Quella in Iraq è ben altro: un contributo all’occupazione del paese, al di fuori delle decisioni dell’Onu. In sostanza un aumento surrettizio di oltre il 5% delle spese militari del nostro paese, che negli ultimi anni erano già aumentate del 10%. Anche perché (…) le missioni vengono poi finanziate con nuovi decreti ad hoc, e mai con i fondi del bilancio della Difesa. La presentazione dell’aumento come finanziamento delle “missioni di pace” è un modo per dare maggiore disponibilità di fondi alla Difesa che, tra l’altro, in questi anni li ha utilizzati male e con molti sprechi».
Nella maggior parte dei paesi occidentali i governi stanno tagliando le spese che vanno al cosiddetto «stato sociale» (welfare state): ancora meno soldi pubblici alla sanità, all’istruzione, all’assistenza, alla previdenza.
Oggi questi governi hanno una motivazione in più per tagliare i finanziamenti statali: la lotta al terrorismo, che ha bisogno di molte risorse. È un crescendo di intensità, con l’aiuto determinante dei telegiornali e dei programmi televisivi, non soltanto quelli di «approfondimento», ma anche quelli di «intrattenimento» (che raggiungono un pubblico più vasto e popolare).
Ormai è impossibile distinguere dove inizia il vero pericolo e dove quello costruito ad hoc. Padre Giulio Albanese parla di una «voglia di scontro di civiltà», secondo la nota tesi (3), che anche don Bruno Forte rifiuta in toto.
«I morti italiani in Iraq come quelli ebrei in Turchia – scrive il teologo napoletano (4) – non sono semplicemente vittime di una follia ideologica che falsamente si appella a ragioni religiose; essi pagano purtroppo anche il prezzo di scelte culturali e politiche sulla cui infondatezza storica, morale e religiosa si era levata fra tante la voce altissima di Giovanni Paolo II. Quando la Santa sede insisteva nel considerare la guerra in Iraq immorale, illegale, inutile e dannosa, la sua voce è stata disattesa».
Il 29 novembre è toccato alla Spagna pagare il fio dell’alleanza con gli Stati Uniti. In un agguato della guerriglia irachena sono stati uccisi 7 uomini appartenenti ai servizi segreti di Madrid. Oltre a queste nuove morti, quello che ha impressionato e, forse, fatto riflettere sono stati quei cadaveri presi a calci tra scene di giubilo.
Com’è possibile?, ci si è chiesti. Ormai tutto è possibile. Il vaso di Pandora dell’Iraq è stato scoperchiato e la violenza che ne esce sembra senza fine e soprattutto sembra travalicato ogni limite alla barbarie dell’uomo bellico.
Davanti alla deriva, non tutti riescono a stare zitti e ad accettare ogni giustificazione calata dall’alto. C’è anche qualcuno che osa dire l’indicibile: «Per quanto possa sembrare strano – ha scritto, ad esempio, il magistrato Domenico Gallo (5) -, non tutto il popolo iracheno ha considerato la conquista e l’occupazione militare americana come una “liberazione”».
Dalla fine della seconda guerra mondiale l’Italia si era ritagliata un importante ruolo di mediazione, di cerniera tra l’Europa e il mondo arabo-islamico. Con l’intervento nella guerra irachena (tra l’altro, per conto terzi) questo ruolo è stato gettato alle ortiche, esponendo il paese e la sua popolazione a possibili vendette dei terroristi.
All’indomani della strage di Nassiriya, su un importante quotidiano un giornalista parlò della «nuova Italia che non scappa» (6). Quasi che «il valore morale» di un paese dipendesse non dal proprio vivere civile all’interno e nel mondo, ma dal comportamento macho in una guerra. In quell’articolo si legge che, dopo Nassiriya, l’Italia non è più «l’Italietta di sempre», non è «un paese molle», ma un paese che ha ritrovato «l’orgoglio nazionale»…
Viene allora in mente padre Eesto Balducci: «L’uomo ha qualcosa di pre-umano in sé, ed è appunto l’aggressività distruttiva».
Paolo Moiola