Voto di non violenza

Carissimi missionari,
apprezzo molto i vostri
approfondimenti sulla diversità
delle culture nel
mondo. Il tema della pace
e della giustizia diventa ineludibile
nella riflessione
sulle relazioni tra i popoli.
Anche a me sta a cuore la
conoscenza e il rispetto
delle differenti tradizioni
culturali e religiose. È
giunto il tempo di vivere
la frateità nel nome di
Gesù risorto, rifiutando
ogni logica di dominio,
sopraffazione, sfruttamento,
disprezzo o eliminazione
dell’altro.
Perché non proporre a
tutte le congregazioni missionarie
«il voto di nonviolenza»?

«Il voto di non violenza» non rientra nei canoni
del Diritto Canonico.
Tuttavia merita considerazione.

Filippo Gervasi




«Sommo piacere»

Gentile direttore,
porto a conoscenza, quale
figlia del dott./prof. Antonio
Polito, cui è indirizzata
Missioni Consolata, che
mio papà ci ha lasciati per
sempre.
Egli era particolarmente
grato ai missionari della
Consolata, poiché essi riuscirono
a fornire notizie esatte
sul fratello maggiore
(papà era il più piccolo di
sette fratelli), anch’egli
medico durante la guerra
d’Africa: era volontario,
ma presso gli inglesi.
Orbene la mamma del
medico in guerra, non ricevendo
più notizie, si rivolse
al vostro Istituto che
la tranquillizzò, dopo aver
avuto notizie dai missionari
che erano in Africa.
Noi desideriamo, in memoria
di papà e per nostro
sommo piacere, continuare
a ricevere Missioni
Consolata.

Grazie di cuore. Ma il
vostro «sommo piacere»
non è un po’ eccessivo?

Luisa De Meo Polito




«Quello»… non si tocca!

Egregio direttore,
mi riferisco all’editoriale,
«Tre domande» (Missioni
Consolata, marzo 2003).
Il vangelo di Giovanni
presenta un Dio che si incarna
per amore dell’uomo.
Nei sinottici questo
concetto non sembra contraddetto.
Non appare evidente,
cioè, la diversa
impostazione dei vangeli
espressa nell’editoriale e
che, se ben considerata,
conduce a due concezioni
antitetiche, delle quali
quella privilegiata dall’editoriale
porta ad una
conclusione inquietante.
Secondo l’articolista, infatti,
la seconda persona
della Santissima Trinità
non si identifica con il Gesù
di Nazaret, perché questi
sarebbe entrato a far
parte di essa secondariamente,
per assunzione
(innalzamento da uomo a
Dio), e non sarebbe stato
sempre coevo con le altre
due persone della Trinità.
Qui compare una contraddizione,
perché, dicendo
che confondiamo la
preesistenza del Verbo
con quella di Gesù, dissociamo
Gesù dalla seconda
persona della Trinità e,
ammettendo che Gesù di
Nazaret è entrato in seguito
nella Trinità, sembra
che ne aumentiamo il numero
delle persone.
Nell’incarnazione non è
l’uomo Gesù che è entrato
in Dio e ha cambiato il
volto di Dio. L’uomo, imperfetto,
non può cambiare
Dio, perfetto. È Dio
che cambia l’uomo, perché
si abbassa a lui per amore,
entrando nella storia
e innalzandolo a Sé col
farlo Suo figlio.
Facciamo attenzione a
non cedere all’antica tentazione
di rovesciare i
concetti, assolutizzando la
vita terrena rispetto a
quella celeste e lasciando
riaffacciarsi un materialismo
che, cacciato dalla
porta, sembra rientrare
dalla finestra.
Se non ho ben capito,
mi si potrà correggere.

Dante Alighieri, al termine
de La Divina Commedia,
immerso nei misteri
dell’incarnazione
del Verbo e della Trinità,
esclama: «All’alta fantasia
[quella del grande
poeta] qui mancò possa»
(Paradiso, XXXIII, 142).
E noi che dovremmo
dire? I misteri della fede
non si toccano. E, certamente,
la vita terrena non
è un assoluto.

Luciano Montanari




Don Antonio, ricorda quel panino?

Cari missionari,
«pace e gioia» è il mio augurio,
accompagnato dalla
preghiera perché diventi
realtà in tutto il mondo.
Questa mattina vi ho
mandato un’offerta per le
vostre missioni in Kenya,
perché oggi nel paese, e
precisamente a Nyahururu,
viene consacrato il primo
vescovo, Luigi Paiaro,
missionario fidei donum
di Padova, che da 40 anni
opera in Kenya. Penso
che molti di voi, specialmente
anziani, l’abbiano
conosciuto.
Qualcuno avrà forse
sentito parlare anche del
sottoscritto, che è stato un
po’ il fondatore della missione
padovana in Kenya,
perché ha provveduto all’erezione
delle prime
missioni in anni difficili.
Adesso, a 94 anni, sono
il decano dei sacerdoti e
devo accontentarmi, mentre
a Nyahururu si fa festa,
di seguirla con la preghiera
nella cappella di
Maria Immacolata.
Mi preme soprattutto
dirvi che noi, preti padovani,
siamo molto debitori
ad alcuni vostri missionari,
ormai in paradiso. Il
mio pensiero va a monsignor
Carlo Cavallera, che
ci ha invitato a collaborare
con voi, ai padri Mauro
Andrione, Camisassi, Cagnolo,
Sestero, Condotta,
Toselli, senza dimenticare
i «fratelli» e le suore. Tutti
ci hanno sempre dato un
buon consiglio, un’accoglienza
fratea, un esempio
di fede; ci hanno aiutato
a seguirli nelle vie del
Signore. Dal paradiso anch’essi
oggi giorniranno con
noi e continueranno a intercedere
presso il trono
di Dio.

Antonio Moletta è
«don», ma anche «monsignore». Lo precisiamo
per evidenziare la sua
semplicità.
A proposito: don Antonio,
ricorda un giorno
di giugno del 1968? Toavamo
da un convegno
missionario a Roma: lei era
direttore del Centro
missionario diocesano di
Padova e chi ora le risponde
era uno studente
di teologia. Allo studente
(squattrinato) lei offrì un
passaggio in auto fino a
Treviso, nonché un panino
e un’aranciata… Bei
tempi, don Antonio!

don Antonio Moletta




Il maestro è sempre… maestro

Carissimi missionari,
sono un ex allievo dell’Istituto
Missioni Consolata.
I miei compagni di studio,
a Favria e Varallo Sesia,
sono stati i padri
Graziano Ventura, Alessandro
Di Martino, Emilio
Canova, il martire Luigi
Graiff e altri.
Pochi giorni or sono il
professor Carlo Tomassini,
mio ex allievo (sono
stato insegnante elementare),
mi ha invitato in
classe per un colloquio
con i suoi studenti delle
medie. I ragazzi hanno
voluto sapere in che cosa
consiste il lavoro del missionario.
Avevano letto su
Famiglia Cristiana che in
Tanzania e nel resto del
mondo i missionari della
Consolata non si limitano
solo alla predicazione, ma
svolgono anche lavoro di
promozione umana.
Insieme hanno raccolto
50 euro per i bambini poveri.

Non saremmo mai abbastanza
grati ai nostri ex
allievi per il loro affettuoso
e contagioso impegno.
In questo il signor Osvaldo
è sempre «maestro».

Osvaldo Valori




Missionari «babbo natale»?

Caro direttore,
ho ricevuto qualche lettera
di amici italiani, che
hanno commentato l’articolo
«Fare… non basta
più!» (Missioni Consolata,
gennaio 2003). Alcuni
hanno giudicato l’articolo
positivamente, nel senso
che predicare il vangelo
non è facile; altri hanno
reagito negativamente nei
nostri confronti, ritenendo
che noi missionari siamo
in Africa per fare il
«babbo natale».
Nell’articolo c’è del vero,
ma anche parecchio di
discutibile. Per rendere onore
a Dio, l’africano ha
bisogno di cantare e danzare
anche in chiesa; se
questi fatti non piacciono
ad un antropologo o, secondo
lui, non rendono
lode al Signore, lasciamo
il giudizio al Buon Dio.
Non penso che l’intera
comunità cristiana di Baragoi,
in Kenya, sia composta
da bambini, donne e
poveracci che vengono in
chiesa per chiedere aiuto
materiale. C’è un bel
gruppo di leaders (maestri,
capi locali, studenti universitari)
che cercano di
comportarsi da cristiani,
anche se non sempre ci
riescono, come avviene in
ogni parte del mondo.
«Sono gli ammalati che
hanno bisogno del medico,
non i sani» diceva pure
Gesù.
Accludo una lettera di
monsignor Virgilio Pante,
vescovo di Maralal. La lettera
è rivolta soprattutto
al clero.

La lettera del vescovo
Pante affronta vari problemi.
Al sacerdote, per
esempio, ricorda: in missione
ciò che conta non è
il protagonismo (del singolo),
ma il servizio in
collaborazione con l’intera
comunità.

p. Lino Gallina




«Noi» e la guerra

Egregio direttore,
ho sott’occhio Missioni
Consolata di marzo e mi
sorprende che, tra i paesi
«in cui la rivista ci porta»,
siano esclusi Stati Uniti,
Gran Bretagna e Iraq, dove
in queste settimane si è
decisa una guerra sanguinosa
e disumana. Mi pare
che il papa abbia parlato
chiaro, mentre gli uomini
che credono nella pace
hanno fatto di tutto per
criticare questa «guerra
criminale».
Come mai Missioni
Consolata non ha dedicato
qualche pagina PER DISSENTIRE
DA UN CONFLITTO
che, a detta di padre Giulio
Albanese, «fa schifo»?
Il missionario ha condannato
la decisione di Bush.
Bush e Blair si stanno
comportando da invasori
violenti e senza scrupoli,
che non hanno ascoltato
l’opinione pubblica mondiale
(schierata contro la
guerra); se ne sono fatti
un baffo dell’Onu pur di
andare avanti nel loro disegno
di distruzione di
città e persone. Chi (oltre
Saddam) ha sulla coscienza
le morti strazianti di innocenti
(donne e bambini)
se non questi due capi
di governo? Come si può
tacere di fronte alla testardaggine
nel perseguire una
guerra preparata a puntino
e che, inevitabilmente,
farà scempio di
innocenti?
Come può il Signore benedire
nazioni che, democraticamente
rette, prendono
decisioni per nulla
democratiche, anzi contro
il popolo e i poveri?
Mi pare che la cultura
cattolica abbia perso l’occasione
per condannare
senza mezzi termini una
soluzione (la guerra) che,
negli ultimi tempi, è stata
esecrata da tutti i papi (da
Pio XII a Giovanni
XXIII, fino all’attuale
pontefice). Quanti nostri
governanti (parlo della
maggioranza, che governa)
hanno nettamente ripudiato
la guerra e i suoi
facilmente immaginabili
orrori? Qualcuno, molto
in alto, trova il tempo per
scherzare, scheire e insultare
l’opposizione. Che
miseria!

Missioni Consolata ha
stigmatizzato la guerra in
Iraq già tre mesi prima
che scoppiasse (cfr. il dossier
di dicembre 2002).
Anche la stampa cattolica
non è stata zitta, come dimostra
un nostro articolo
del mese scorso. In aprile, scrivevamo: «Mai gli
uni contro gli altri. Mai
[ricorrere] al terrorismo
e alla logica di guerra».
Le nostre posizioni sono
tanto chiare e forti
che ci hanno criticato.

Ambrogio Vismara




Ricostruire…per chi?

Caro direttore,
condivido la lettera della
signora Maria Monetti,
pubblicata su Missioni
Consolata di marzo 2003
(ndr: secondo la lettrice,
«criticare totalmente l’operato
degli Stati Uniti, unica
vera democrazia, e quasi assolvere
governi dittatoriali…
è inaccettabile»).
Aggiungo sul problema
quanto segue: i presidenti
Chirac e Putin, che parecchi
lodano per il presunto
«pacifismo», hanno forti
interessi in Iraq; per cui
temono di perderli (insieme
ai benefici) in caso di
guerra. Non sarebbe più
onesto che Putin risolvesse
il problema «Cecenia»?
Sappiamo tutti quale
criminale sanguinario sia
Saddam con i suoi legami
con il terrorismo internazionale
e come il denaro
raccolto in tanti anni dalla
vendita del petrolio sia andato
a vantaggio suo e dei
suoi gerarchi; nulla invece
per il suo popolo; e poi ci
sono uomini della nostra
sinistra e, purtroppo, anche
ecclesiasti che lo coprono,
dando la colpa dei
mali del popolo iracheno
agli Usa…
La pace è desiderata da
tutti e non solo dalle sinistre,
dai confederali, dai
girotondini, ecc., che, come
risulta evidente, hanno
solo lo scopo di mettere in
difficoltà BERLUSCONI e il
suo governo.
Oggi si critica Berlusconi
come ieri l’avvocato Agnelli:
entrambi hanno dato
lavoro a migliaia e migliaia
di italiani, mentre i
capi comunisti (ora DS)
cosa hanno fatto? (D’Alema
si è fatto la «barca» da
1 miliardo di lire; i soldi
dove li ha presi?).
Dobbiamo lavorare e
anche lottare per una pace
giusta e duratura, non di
parte e strumentalizzata a
favore di certe nazioni,
partiti, ecc., che vogliono
servirsene come… rivoluzione
«pacifista».

La politica italiana ci
interessa nella misura in
cui tocca il sud del mondo:
per esempio con la
legge (restrittiva) Bossi-
Fini sull’immigrazione o
con la nuova legge sull’esportazione
di armi, che
allenta i vincoli della precedente
185/90.
Il popolo iracheno è
stato certamente vittima
della dittatura di Saddam
Hussein, ma anche di 12
anni di embargo occidentale,
ingiusto quanto inutile…
a tal punto che si è
giunti alla guerra. Ora
tutti vogliono ricostruire.
Ma chi ci guadagnerà?

Piero Gonella




Il papa e la «piccola guerra» in Iraq

Spettabile redazione,
spero di ricordarmi ancora
il vostro indirizzo. Non
mi sono più abbonato a
Missioni Consolata, per il
vostro antiamericanismo.
Ora mi vedrei più che mai
in dissenso; DISSENSO anche
verso il papa, che paventa
una piccola guerra
in Iraq, ma si dimentica
dei milioni di cattolici
massacrati nel sud Sudan.
Tuttavia il mio dissenso
non vuole colpire i missionari.
Ho ricevuto oggi una
gradita lettera dall’Etiopia;
desidero contraccambiarla
accludendo alla presente
un’offerta per i missionari
di quella regione.

La guerra in Iraq costa
226 euro a ciascuno degli
oltre 6 miliardi di abitanti
del nostro pianeta,
senza contare il valore inestimabile
delle vite annientate.
Davvero una
«piccola guerra»?
Il papa, poi, è uno dei
pochissimi che condanna
tutte le guerre.

dr. Renzo Mattei




PASTICCIO GROSSO A L’AVANA

Sono passati solo 5 anni, ma sembrano anni luce:
come regalo a Giovanni Paolo II per la sua
visita a Cuba (gennaio 1998) Fidel Castro
svuotò le carceri dei prigionieri politici. All’improvviso,
si sono ripopolate.
Nel 2002 l’ex presidente degli Stati Uniti, Jimmy
Carter, in visita a Cuba, proclamò davanti all’Assemblea
e alla televisione che l’isola era strangolata
da 40 anni di ingiuste sanzioni, dal partito unico e
mancanza di libertà. Il lider maximo non si offese,
ma abbracciò l’ospite come se fosse il compagno Che
Guevara.
Un mese dopo, fu emendata la Costituzione: «Il sistema
socialista è irrevocabile».
Il 19 marzo scorso, mentre il primo missile americano
cadeva su Baghdad, la polizia segreta cubana cominciò
ad arrestare 80 dissidenti: giornalisti, intellettuali,
professori universitari, leaders di movimenti
di opposizione e di difesa dei diritti umani. Molti
di essi avevano appoggiato il «progetto Varela»: una
raccolta di firme per chiedere libertà di associazione,
parola, stampa, impresa ed elezioni multipartitiche.
Il Parlamento rigettò la petizione per vizio di forma;
molti promotori vennero imprigionati, processati a
porte chiuse e condannati a pene detentive oscillanti
tra i 15 e 27 anni; con l’accusa più banale: «Attentato
alla sovranità nazionale». Ossia, aver scritto e
detto cose contrarie al regime castrista.
Il 13 aprile furono fucilati tre giovani sprovveduti,
con l’accusa di «terrorismo»: avevano sequestrato un
traghetto e costretto l’equipaggio a fare rotta verso gli
Stati Uniti.
«Un balzo da gigante a ritroso – denuncia Amnesty
Inteational -. La pena capitale era congelata da tre
anni; processi sommari di massa non se ne vedevano
da 20».
Perché la sterzata del regime è avvenuta in concomitanza
con la discussione all’Onu sulla situazione
dei diritti umani a Cuba e la presentazione
all’Unione Europea della sua candidatura alla
convenzione di Cotonou (cooperazione tra EU a
78 paesi dell’Africa, Caraibi
e Pacifico)?
«È la sindrome dell’assedio
– spiegano i politologi -;
paura che Cuba diventi il
prossimo Iraq, con un’operazione
per un «cambio di regime» sullo stile di quella
che, nel 1989-90, rovesciò il dittatore panamense».
Le minacce non sono affatto velate. Dalla Florida, i
fuoriusciti cubani continuano negli attentati contro
l’economia e turismo dell’isola. L’incaricato degli affari
statunitensi a Cuba, James Cason, ha trasformato
il suo ufficio in un covo di dissidenti, spesso comprati
con regali vari, nell’intento dichiarato di scardinare
l’ordine costituito.
Anziché espellere l’incaricato come «persona non grata», Castro si è accanito contro gli oppositori che con
Cason non hanno nulla da spartire.
A chi giova questa strategia della tensione tra il dittatore
e l’impero americano? Non certo al popolo
cubano. Anzi, la reazione disperata del regime fa il
gioco dei falchi di Washington, che già accusano l’isola
di essere uno «stato terrorista e di preparare armi
di distruzione di massa».
Sarebbe ora che ognuno facesse un passo indietro.
È incomprensibile come il governo Usa,
mentre dialoga con Cina e Corea del Nord, continui
a considerare Cuba un pericolo per la sicurezza
americana. Ancora più incomprensibile è come si possa
punire un popolo con un embargo che dura da oltre
40 anni e condannato dall’Onu come «immorale» per 10 volte consecutive.
A 76 anni di età e 44 di dittatura, dopo aver tenuto
testa a 10 presidenti statunitensi, anche per Fidel è
giunta l’ora di pensare al «dopo Castro», mettendo
nel cassetto l’ideologia e cominciando a dialogare con
il suo popolo e a rispondere alle sue aspettative.
È pure il tema del messaggio che il papa, il 13 aprile
scorso, ha inviato al lider maximo. Oltre a esprimere
il suo «profondo dolore» per le pesanti pene e le
esecuzioni contro i cittadini cubani, il pontefice dice
al dittatore: «Sono certo che anche lei condivide con
me la convinzione che soltanto il confronto sincero e
costruttivo tra cittadini e autorità civili può garantire
la promozione di uno stato moderno e democratico,
in una Cuba sempre più unita e fratea».
È pure la convinzione nostra e del popolo cubano, che
attende una «nuova primavera
», da fare sbocciare pacificamente
e non imposta
da stranieri.

BENEDETTO BELLESI