GESÙ E LA SPADA, I SANTI E LA GUERRA…

Nel vangelo c’è proprio tutto?
Caro signor Giancarlo, grazie della lettera comparsa su
Missioni Consolata. Finalmente un discorso educato,
che si fa carico delle obiezioni di chi scrive e che, soprattutto,
non fa ricorso all’ironia che sovente maschera
malamente un complesso di superiorità, per nulla confacente
a chi, oltre tutto, si definisce cristiano.
Ciò detto, ragiono su alcune tue osservazioni che mi
lasciano perplesso. Affermi: «Non mi risulta che nel vangelo
esista una parola a legittimazione di uccisioni a scopo
di difesa». Hai ragione, ma ti domando: «Sei sicuro che
tutto quello in cui crediamo sia chiaramente affermato nei
vangeli o nel Nuovo Testamento? Citare i dogmi di cui nel
tempo, con l’aiuto dello Spirito, ci siamo arricchiti, mi
sembra sin troppo facile. Ti parlo allora dei sacramenti».
Il battesimo e l’eucaristia sono documentati (ma per la
seconda non tutti i cristiani concordano); la confessione
è oggetto di profonda discussione; e gli altri sacramenti?
Non proseguo. Il mio scopo è solo farti riflettere sulla tua
affermazione. Forse con più ragione mi sento di affermare
(e credo tu sia d’accordo con me) che ciò che è
espressamente vietato nel Nuovo Testamento è certamente
male (ma anche qui con dei «distinguo»).
Ti propongo un ulteriore passo, molto emblematico:
tutte le volte che Gesù incontra dei soldati non dice loro
di buttare la spada alle ortiche, ma di fare con onestà il loro
mestiere, che (a scanso di equivoci) è quello di difendere
la comunità (allora erano le popolazioni dell’impero)
con la spada, cioè anche uccidendo.
Parliamo, se lo desideri, delle beatitudini: beati i pacifici
(o «operatori di pace»). Certo il cristiano è operatore
pacifico, ma: le beatitudini sono riferite al singolo individuo;
si può essere operatore di pace pur combattendo
(pensa ai santi militari, per i quali la spada non è stata d’intralcio
alla santificazione).
Consentimi anche un discorso antropologico. Secondo
la tesi da te sostenuta, l’uomo o una società non hanno
mai la possibilità di difendersi se ciò comporta la possibilità
o la certezza di uccidere; pertanto:
– sono moralmente colpevoli i carabinieri che sparano, anche
se contro omicidi o mafiosi e per legittima difesa; – non
sono in sintonia con Cristo coloro che combatterono le
battaglie di Poitier, Lepanto e Vienna, che salvarono la nostra
civiltà e, a mio giudizio, lo stesso cristianesimo;
– fu ingiusta e illegittima la guerra contro il nazismo.
Credo che ci sia sufficiente materiale per meditare sulla
«consistenza» del pacifismo (lo definisco così per distinguerlo
dalla realtà di pace che il vangelo ci chiede di
costruire).
L’ultimo punto: i comunisti che votano contro la guerra
sono motivo di gioia. Consentimi la battuta: hanno sempre
votato contro le guerre, anche durante gli anni del più
oscuro stalinismo, poiché le guerre per loro erano sempre
e solo scatenate dalla insaziabile ingordigia dei biechi
capitalisti, affamatori dei popoli rappresentati da quella
sentina di tutti i vizi che sono gli USA (a proposito: mi
sembra che questi discorsi siano tutt’altro che superati).
È vero: una prostituta guiderà lo stuolo delle vergini, e
il pastore lascerà le pecore fedeli per cercare quella perduta;
ma la prima si è pentita e le pecore fedeli sono difese
da un recinto costruito dal pastore.
Possiamo dire lo stesso dei «fratelli comunisti»?
Proprio quelli (che sono per te motivo di gioia) non hanno
avuto una parola di rimpianto per le moltitudini trucidate
dalla ideologia (sicumera, stupidità, satanismo?) che
ancora professano; le loro mani (le stesse di alcuni che votano
contro la guerra) sono ancora rosse per gli applausi
rivolti al «grande padre Stalin», a Mao, a Pol Pot dopo essere
andati, magari anche a nostre spese, a constatare de
visu i «paradisi» che i suddetti avevano creato.
Tutto ciò ha nulla a che fare con la solidarietà, la giustizia
e la pace; il perdono è la nostra caratteristica, ma
prima del perdono c’è la giustizia. Dobbiamo fare festa
per i peccatori che si convertono, non per quelli che violentano
la verità (non è forse questa la prerogativa della
«Bestia»?).

San Francesco ministro degli esteri?
Caro signor Musso, la tua lettera mi ha lasciato una
sensazione di tristezza: mi è apparsa lontana dallo
spirito di speranza, ma anche di severo ammonimento
che riconosco nelle pagine del vangelo.
Ho riletto i quattro vangeli, per vedere se contengono
qualche sostegno a taluna delle gravi obiezioni da te avanzate.
Non vi ho trovato nulla, ad eccezione di un passo (Lc
22, 35-38). Francamente, mi sembra che la parola di Dio
dovrebbe essere letta più con il cuore che con l’intelletto,
colta nel suo insieme profondo piuttosto che analizzata con
l’atteggiamento del giurista, puntualizzando sui termini e sulle
virgole.
Per introdurci a ciò che, secondo il mio cuore, è lo spirito
del vangelo, nulla mi sembra più adatto di due preghiere.
In una si dice: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li
rimettiamo ai nostri debitori»; nell’altra: «Porta in cielo tutte
le anime, specialmente le più bisognose della Tua misericordia
». Altrove ci sono stati impartiti questi ammonimenti:
«Così anche il mio Padre celeste farà
a ciascuno di voi, se non perdonerete
di cuore al vostro fratello» (Mt
18, 35)… «non giudicate per non essere
giudicati, perché col giudizio
con cui giudicate sarete giudicati e
con la misura con la quale misurate
sarete misurati» (Gv 7, 1-2)… «chi di
voi è senza peccato, scagli per primo
la pietra contro di lei» (Gv 8,7).
Non pare anche a te, signor
Antonino, che lo spirito del messaggio
di Cristo sia proprio quello
del perdono, accanto a quello del fiducioso abbandono in
Lui? «Avete inteso che fu detto: amerai il tuo prossimo e
odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e
pregate per i vostri persecutori… Se amate quelli che vi amano,
quale merito ne avrete? Non fanno così anche i pubblicani?
E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa
fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?» (Mt
5, 43-47).
Tu mi chiederai: è possibile fare politica con il vangelo?
La risposta mi sembra chiara: non solo si può, ma si deve.
Un vescovo del nord Italia, subito dopo l’attentato al World
Trade Center, quando ferveva il dibattito su quale risposta
dare al terrorismo, si è espresso alla tivù in questi termini.
«San Francesco mi sta bene come santo, ma non come
ministro degli esteri». Il papa, però, nel messaggio
per la giornata mondiale della pace (1° gennaio 2002), ci
ha ammoniti: «Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia
senza perdono». Perciò non dobbiamo temere di dire anche
ad un vescovo: «Rifletti, perché alla luce del vangelo ora
stai sbagliando». Qualcuno, a suo tempo, lo fece con il vescovo
Romero, in Salvador, ed è stata una illuminazione,
che ha portato il vescovo alla conversione.
La giustizia? Può essere una di quelle parole «contenitore», prive di significato definito o, meglio, alle quali ciascuno
sembra essere libero di attribuire il contenuto che più
preferisce. Così c’è la giustizia dei carabinieri, che sarebbero
legittimati ad uccidere i «malfattori» in nome della legalità;
c’è quella di George W. Bush in nome della civiltà occidentale
e quella di Bin Laden in nome dell’islam; c’è la giustizia
che Sharon invoca per gli ebrei, quella reclamata dai
palestinesi, quella che Milosevic pretende per i serbi, quella
che le nuove destre estreme europee reclamano in nome
del diritto alla salvaguardia della propria identità culturale…
Tutti rivendicano la legittimità dell’uso della forza in nome
della loro giustizia, ovviamente l’unica degna di questo nome.
Così si perpetua il gioco al massacro.
C’è poi la giustizia del «discorso della montagna», al quale
si ispira il papa: la giustizia dei «poveri in spirito», dei «miti
», dei «misericordiosi», degli «operatori di pace» e… degli
utili idioti pacifisti. Tu dici: «Le beatitudini sono riferite al singolo
individuo». Così esisterebbero un’etica cristiana individuale
e un’etica cristiana sociale, che possono anche essere
antitetiche? Dici ancora: «Tutte le volte che Gesù incontra
dei soldati non dice loro di buttare la spada alle ortiche,
ma di fare con onestà il loro mestiere… anche uccidendo».
Ma questo non è scritto nel vangelo
o negli Atti degli apostoli. Io ho trovato
solo un passo, che potrebbe
prestarsi a qualche equivoco e che
recita: «Chi non ha spada venda il
mantello e ne compri una» (Lc
22,36). Ma non credi che sia lo sfogo
amaro di Colui che si trova davanti
all’ostinato rifiuto del mondo di
accoglierlo? Ha operato il bene, eppure
lo tratteranno come un malfattore.
Allora si acquistino pure delle
spade, così si avrà un motivo in più
per calunniarlo. «Perché vi dico: deve compiersi in me questa
parola della Scrittura: e fu annoverato tra i malfattori»
(Lc 22,37).
Tu dici infine: «Si può essere operatore di pace pur combattendo
(pensa ai santi militari, per i quali la spada non è
stata d’intralcio alla santificazione)». È vero: per esempio,
san Francesco e sant’Ignazio di Loyola sono stati soldati;
però si sono guadagnati la santità non perseverando nella
guerra, ma dopo aver cambiato radicalmente vita, a dimostrazione
che nessun errore è tanto grande da non permettere
una luminosa redenzione, con l’aiuto del Padre, a
patto di non ostinarsi a costruire giustificazioni su giustificazioni,
ma purificandosi in un profondo pentimento.
Invece sembra che, dalla battaglia di Ponte Milvio in poi,
gli uomini si siano dati un gran da fare per elaborare ogni
giustificazione che consentisse loro di professarsi cristiani
pur continuando a fare i propri comodi. Forse il più subdolo
e tragico tiro mancino che la storia ha giocato alla chiesa
è stato, nell’anno 313, l’editto di Milano di Costantino,
quando il cristianesimo è diventato religione di stato (e quindi
strumento di potere) e il convertirsi una faccenda di convenienza
politica.
Ho l’appello contro la guerra di alcuni veterani delle forze
armate degli Stati Uniti. In esso sta scritto: «Se mai i popoli
dovranno essere liberi, deve arrivare un momento in cui
essere un cittadino del mondo ha la precedenza sull’essere
il soldato di una nazione. Quel momento è arrivato».

ANTONINO MUSSO GIANCARLO TELLOLI




I GRANDI MISSIONARI Caterina Drexel

LA DONNA DEL WEST

Cresciuta in una solida
famiglia cristiana, erede
di un’enorme fortuna,
Caterina Drexel (1858-
1955) ha messo tutta
se stessa a servizio
dell’evangelizzazione,
educazione e promozione
umana degli indigeni
e afro-americani degli
Stati Uniti. Benché sia
ancora poco conosciuta,
è una delle figure più
significative della chiesa
americana e universale.



Il nome è un programma: Filadelfia
significa «amore fraterno».
La fondò con le sue mani, nel
1682, William Penn, quacchero, uno
strano miscuglio di misticismo e affarismo,
per essere la capitale del suo
«sacro esperimento»: ottenuta dal re
d’Inghilterra l’immensa regione da
lui battezzata Pennsylvania (selva di
Penn), aprì il suo dominio a tutti i
perseguitati di ogni sètta e confessione
religiosa in cerca di pace e libertà.
Da tutta l’Europa a migliaia fioccarono
i coloni, tedeschi soprattutto.
La città gustò il sapore della storia:
nel 1776 vi fu firmata la dichiarazione
d’indipendenza dei primi 13
stati americani; ma l’ideale di fratellanza
era ormai affogato in quello degli
affari. Filadelfia crebbe con la
puzza sotto il naso: da una parte lo
snobismo ed esclusivismo dei big ten
(10 famiglie installatesi prima del
1749) e della borghesia; dall’altra le
periferie, con masse di bianchi e neri
che facevano miseria.


RICCHEZZA IN PRESTITO


Questa era Filadelfia, quando, il 26
novembre 1858, vi nacque Caterina,
secondogenita di Francesco Drexel,
figlio di un emigrato austriaco, e Anna
Longstroth, morta un mese dopo
il parto. Per due anni la bimba e la sorella
Elisabetta (1855-90) furono affidate
agli zii patei, finché il padre si
risposò (1860) con Emma Bouvier
(prozia di Jacqueline Kennedy). Dal
secondo matrimonio nacque un’altra
figlia, Luisa (1863-1940).
Pur non essendo nel numero dei
big ten, i Drexel erano tra le famiglie
più ricche e famose di Filadelfia, ma
senza quella puzza sotto il naso.
Francesco, ricco finanziere, era stimato
per la sua filantropia verso asili,
orfanotrofi, ospedali e istituzioni
caritative. Inoltre, finanziava le iniziative
della moglie.


Due giorni la settimana il cancello
posteriore di casa Drexel si apriva a
centinaia di poveri della città e, aiutata
dalle figlie e un domestico, Emma
rispondeva alle richieste di cibo,
vestiario, scarpe, affitto, secondo le
necessità delle famiglie. Aveva intessuto
una fitta rete di assistenza a
quanti si vergognavano di mescolarsi
agli altri bisognosi: foiva medicine,
consigli e denaro; ma sempre con
discrezione. «La bontà può essere
cattiva, se si lascia dietro un po’ di
puzza» insegnava mamma Emma.
La gente la chiamava la «signora
generosa»: in 20 anni distribuì fra i
poveri oltre mezzo milione di dollari;
solo alla sua morte (1883) si seppe
che pagava l’affitto a 150 famiglie.
Non si trattava di pura filantropia.
I Drexel erano convinti che i beni
materiali fossero un prestito da condividere
con i meno fortunati. «Dio
ci ha elargito molto e con tanta abbondanza:
siate dispensatrici dei
suoi doni» diceva papà Francesco.
In casa c’era un oratorio, dove i
membri della famiglia si riunivano
per recitare insieme le preghiere della
sera. Quando il papà tornava dal
lavoro, s’inginocchiava e pregava nella
sua stanza. «La preghiera era come
il respiro» ricorderà più tardi Caterina.
Ma niente bacchettoneria.
Grazie alla posizione del padre, le
figlie ricevettero una solida educazione
da insegnanti privati, ebbero
modo di frequentare l’alta classe di
Filadelfia, viaggiare negli Stati Uniti
e in Europa e godersi le vacanze nella
casa estiva, che il padre aveva comperato
a Saint Michel nel 1870. Ma
anche qui madre e figlie continuavano
ad aiutare i bisognosi.
A Saint Michel i Drexel strinsero
amicizia col parroco James O’Connor,
che Caterina scelse come direttore
spirituale.



SCELTA DI CAMPO


Caterina aveva 21 anni quando l’idilliaca
esistenza dei Drexel andò in
frantumi: nel 1879 a Emma fu diagnosticato
un tumore che, dopo tre
anni di grandi sofferenze, amorosamente
assistita dalla figlia, la portò
nella tomba (1883).
L’immensa ricchezza familiare non
poté fare nulla per prevenire la sua
morte. Caterina cominciò a pensare
seriamente alla vita religiosa. Scrisse
a O’Connor, diventato vescovo di Omaha,
nel Nebraska, per chiedere
consiglio. La risposta fu: «Rifletti,
prega e aspetta».
Due anni dopo (1885) morì anche
il padre, fulminato da un infarto, lasciando
un enorme patrimonio (vedi
inserto), con cui le figlie continuarono
sulla scia dei genitori: Luisa cominciò
a sostenere le opere dei padri
Giuseppini di Baltimora e, sposatasi
nel 1889, fondò una scuola professionale
per ragazzi di colore in Virginia;
Elisabetta, andata sposa nel
1890, morì l’anno seguente, dopo avere
dato vita a un istituto tecnico
per orfani in Pennsylvania.
Caterina concentrò l’attenzione sui
più emarginati della società americana:
indigeni e afro-americani, cominciando
con l’aiutare alcuni missionari
operanti tra i nativi del Dakota e
del Nebraska.


Dopo la lettura di un best seller
sulla situazione degli indiani, Un secolo
di vergogna di Helen Jackson,
nel 1885, Caterina fece un viaggio
nel Far West, dove incontrò Nuvola
Rossa, capo dei sioux del Dakota, e
toccò con mano lo stato di abiezione
e degrado dei nativi nelle riserve.
Non meno scioccante era la vita
della popolazione di colore. Benché
l’abolizione della schiavitù fosse stata
decretata da 20 anni, dopo la guerra
civile (1861-65) tra abolizionisti
del nord e schiavisti del sud, i neri
continuavano a essere oggetto di pregiudizi
razziali e angherie. Ben lungi
dall’essere liberi, vivevano in condizioni
d’inferiorità, mal retribuiti, privati
dell’accesso all’istruzione e dei
più elementari diritti umani e costituzionali.
Le piantagioni, poi, rimanevano
un’istituzione sociale senza
sbocco, dove essi continuavano a essere
oppressi come nel passato.
Caterina cominciò ad alzare la voce
contro le ingiustizie, prendere
pubblicamente posizione in ogni caso
di evidente discriminazione razziale
e impegnarsi in tutti i modi per
cambiare mentalità e atteggiamenti
della società americana.
Al tempo stesso sentì l’urgenza di
un apostolato diretto in favore degli
indiani e afro-americani: la carità doveva
essere accompagnata da formazione
cristiana e promozione umana.
Cominciò a costruire scuole nelle riserve,
pagare i salari dei maestri e fornire
agli indigeni cibo e vestiario. Riuscì
pure a trovare alcuni preti per aprirvi
nuove missioni.
Altrettanto fece nell’est e sud, a favore
della popolazione di colore.


«MADRE E SERVA DEI NERI E INDIANI»


Persisteva l’idea di consacrarsi a
Dio. Caterina sentiva una forte attrazione
verso la vita claustrale, per contribuire
all’espansione del vangelo
con preghiera e penitenza. Aveva già
cercato una comunità religiosa in cui
attuare il suo progetto, ma il papa le
scombussolò la vita.
Era il gennaio del 1887. Le sorelle
Drexel fecero un viaggio in Europa;
a Roma furono ricevute in udienza
privata da Leone XIII. Caterina gli espose
la situazione sociale dei nativi,
parlò della sua vocazione e aggiunse:
«Se entrassi in clausura, dovrei abbandonare
coloro che il Signore mi
chiede di aiutare. Forse sua santità
potrebbe designare una congregazione
religiosa, disposta a dedicare
tempo e sforzi alle missioni tra gli indiani
». Il papa rispose con una domanda:
«Bene, figliola, perché non
diventate voi stessa missionaria?».
Le parole del papa la fecero infuriare.
Pianse tutto il pomeriggio.
Neppure il viaggio di ritorno, in nave,
riuscì a sbollire l’emozione. Appena
sbarcata, consultò il direttore
spirituale, mons. O’Connor, il quale
le consigliò di fondare una propria
comunità religiosa, in cui coniugare
vita contemplativa e servizio ai neri e
indiani.


Con grande coraggio e fiducia nel
Signore, Caterina decise di consacrare
a lui non solo la sua fortuna, ma
tutta la vita. Entrata nel convento
delle suore della Misericordia, a Pittsburg,
emise la professione religiosa
in quella comunità alla fine del 1889.
Dopo un anno di rodaggio nella
vita consacrata e gestazione della
nuova creatura religiosa, il 12 febbraio
1891 Caterina pronunciò i voti
come prima suora del Santo Sacramento,
seguita da 13 compagne.
La formula da lei usata suonava così:
«Faccio voto e prometto a Dio
povertà, castità e obbedienza… e di
essere madre e serva degli indiani e
della gente di colore».
Dopo la provvisoria permanenza
nella casa di Saint Michel, la comunità
si stabilì nel nuovo convento
Saint Elizabeth a Cowell Heights,
ora Bensalem, poco lontano da Filadelfia.
Per 44 anni Caterina guidò e
formò la sua famiglia religiosa, infondendo
il suo carisma: adorazione del
Signore presente nell’eucaristia e servizio
agli indiani e afro-americani,
specialmente attraverso l’educazione
cristiana, assistenza sociale e promozione
umana.


Amore e devozione eucaristica da
sempre scorrevano nelle vene della
famiglia Drexel. «Abbiamo ricevuto
tante e svariate grazie – diceva papà
Francesco -. Accostiamoci puntualmente
al santo sacramento, facciamo
del nostro meglio per dimostrare che
apprezziamo i mezzi di salvezza che
ci sono stati offerti come sostegno alla
nostra vita spirituale».
Nell’eucaristia Caterina trovò la
sorgente delle prime iniziative a favore
dei poveri e oppressi e la molla
che la spingeva a combattere ogni
sorta di razzismo. «Nell’eucaristia
Cristo dà tutto se stesso, per essere
cibo per tutti, senza distinzione di
razza o di colore» diceva.
Una volta stesa la Regola, madre
Caterina ottenne il permesso (cosa
rara a quei tempi precedenti il pontificato
di Pio X) di ricevere quotidianamente
la comunione, affinché
le sue suore attingessero da questo
sacramento la forza per riconoscere
e servire Cristo nei più emarginati
della società americana.
La definitiva approvazione della
Regola arrivò nel 1913: la rapidità di
tale conferma dimostra quanto grande
fosse il bisogno di una congregazione
di tal genere, capace di rispondere
a una delle più gravi necessità
sociali e cristiane degli Stati Uniti.



EDUCAZIONE A TUTTO CAMPO


Da Saint Elizabeth le suore cominciarono
a sciamare, per visitare le famiglie povere, ospedali e prigioni,
raggiungere le scuole e missioni via
via fondate da madre Caterina. Nel
1894 fu aperta St. Catherine’s School
a Santa Fé, Nuovo Messico: una
scuola-convitto per i bambini pueblo.
Lo stesso anno comprò una proprietà
a Rock Castle, in Virginia, dove
costruì St. Francis de Sales School:
collegio per ragazze di colore, simile
a quello per ragazzi costruito da Luisa
nelle vicinanze. Nel 1902 fondò St.
Michael’s School nella riserva indiana
dei navajo.


Impossibile seguire tutte le altre
fondazioni di missioni, chiese, scuole,
collegi, centri, seminati in 21 stati
dell’est e del Far West americano.
Ben presto Caterina comprese che
le suore non potevano coprire tante
iniziative: era priorità assoluta preparare
maestri indiani e neri capaci
di lavorare in mezzo alla propria gente.
Per questo, nel 1917, fondò Xavier
College a New Orleans (Louisiana),
che nel 1925 diventò Xavier
University, la prima e unica istituzione
di studi superiori degli Stati Uniti
destinata agli afro-americani.
La Xavier University svolse un
ruolo di pioniere nell’educazione
mista. Tutte le sue fondazioni, infatti,
avevano lo scopo di favorire la
maggiore integrazione possibile tra i
vari gruppi etnici: Caterina diceva
che tutti erano figli di Dio, indipendentemente
dalla cultura e colore
della pelle.


Una verità lapalissiana, per noi, ma
non per quei tempi: nessuna università
cattolica del sud era disposta ad
accogliere studenti di colore; quelle
statali cominceranno ad aprire i battenti
a tutti, senza distinzione di razze
o religione, solo a partire dal 1954.
Ogni anno Caterina visitava regolarmente
tutte le missioni, anche le
più lontane, affrontando disagi e sacrifici
notevoli, a motivo delle condizioni
dei mezzi di trasporto di quei
tempi; ma continuò a farlo fino a
quando le cattive condizioni di salute
le impedirono di viaggiare.


BASTONI TRA LE RUOTE


Le difficoltà più gravi, incontrate
da Caterina, non erano certo dovute
alla geografia. La sua decisione di abbracciare
la vita religiosa fu uno
shock per l’alta società di Filadelfia e
altre città della costa orientale; lo zio
Antonio Drexel cercò di dissuaderla,
pregandola di «restare con chi le
voleva bene»; i giornali uscirono con
titoli cubitali in prima pagina: «Miss
Drexel in convento: rinuncia a sette
milioni di dollari»; i paparazzi la inseguivano
in convento.


La giovane miliardaria, che rinunciava
a tutto per mettersi al servizio
delle classi più disprezzate, era un
pugno nello stomaco per una borghesia
attaccata alla vertiginosa crescita
materiale, ma indifferente alle
masse di indigenti che popolavano le
periferie delle città.
Anche nella chiesa non trovò sempre
lo sperato sostegno e incoraggiamento:
non tutti gli ordini e congregazioni
religiose erano disposti a
offrire personale per operare in modo
stabile nelle missioni da lei fondate;
le era difficile trovare sacerdoti
che garantissero la vita sacramentale
a studenti e insegnanti.
Nel sud degli Stati Uniti, poi, esisteva
una forte opposizione all’educazione
di coloro che erano stati
schiavi fino a pochi anni prima. Tale
opposizione si traduceva in azioni legali,
per rendere impossibile la vendita
di proprietà a madre Caterina,
propaganda di stampa contro i suoi
sforzi, minacce e atti di violenza contro
le stesse proprietà da lei acquistate
(vedi riquadro).
Tra gli indiani stessi non fu sempre
rose e fiori: molti di essi, per diversi
motivi, non mostravano interesse
per l’educazione.



PROFEZIA SCOMODA


Fatiche e lotte logorarono il cuore
di Caterina: nel 1935, a 77 anni, fu
colpita da crisi cardiaca, che la indebolì
gravemente e la ridusse gradualmente
a uno stato di quasi immobilità.
Libera dai gravosi impegni
direttivi della comunità, per 20 anni
si dedicò interamente alla vita di adorazione
contemplativa, cosa da lei
desiderata fin dalla giovinezza.
Nella vita di preghiera non dimenticava
i suoi indiani e afro-americani,
per cui aveva dato tutto, fino
all’ultimo respiro, esalato il 3 marzo
1955. Le sue ultime parole furono:
«Spirito Santo, vorrei essere una piuma,
perché il tuo soffio mi porti dove
ti pare e piace».
Tra la focosa giovane, recalcitrante
al pungolo papale (episodio che le
piaceva ricordare sorridendo), e l’anziana
donna, arresa senza resistenza
al soffio dello Spirito, quanto cammino
percorso! Furono 97 anni vissuti
intensamente e con un’enorme
carica interiore, armonizzando in
maniera calma e serena vita contemplativa
e attività inarrestabile, giorniosa
sintonia con lo Spirito e lotta per
spezzare le barriere dell’indifferenza
e pregiudizi.


Quella di Caterina Drexel fu una
presenza profetica e, come tale, scomoda
nella società e nella chiesa americana.
Le denunce d’ingiustizie
sociali contro le minoranze etniche,
la convinzione dell’importanza di offrire
a tutti una istruzione di qualità,
gli sforzi da lei compiuti per tradurre
tale convinzione in realtà, hanno
preceduto di quasi 100 anni quei
problemi diventati oggi di pubblico
interesse negli Stati Uniti. Fu certamente
anche grazie a lei se, nel 1954,
un anno prima della morte, la Corte
suprema degli Stati Uniti abolì la segregazione
razziale nelle scuole.


«A volte mi domando cosa sarebbe
stata mai l’America – dice Norman
Francis, rettore della Xavier University
-, cosa sarebbe stata la chiesa
cattolica riguardo alle minoranze
etniche, se non ci fosse stata lei: ha
salvato la chiesa dall’imbarazzo nel
campo della giustizia sociale».
Di fatto, la chiesa statunitense, se
è diventata gradualmente consapevole
della necessità dell’apostolato
diretto in favore di indiani e afro-americani,
deve dire grazie a Caterina.
Anche oggi, la sua figura continua
a essere un pungolo nel fianco
dei cristiani, ossessionati dallo «standard
americano», fatto di consumismo,
giochi di borsa, lotterie e altri
mezzi di facili guadagni.
Beatificata nel 1988 e canonizzata
nel 2000, Giovanni Paolo II ha proposto
santa Caterina Drexel come
modello alla chiesa universale con
queste parole: «Possa il suo esempio
aiutare i giovani in particolare a riconoscere
che non si può trovare tesoro
più grande che nel seguire Cristo
con cuore indiviso, utilizzando
generosamente i doni che abbiamo
ricevuto nel servizio degli altri, per
collaborare alla costruzione
di un mondo più giusto
e più fraterno».


INCIDENTI


Che molti non condividessero le sue
idee in fatto di giustizia sociale,
Caterina lo sapeva, ma glielo ricordarono
spesso con minacce e violenze.
Ecco alcuni casi.
Il giorno in cui fu posta la prima pietra
del convento St. Elizabeth, fu trovato
nei paraggi un candelotto di dinamite.
Nel 1913, per impedire che le suore del
Santo Sacramento insegnassero nella
scuola di Macon, il governo della Georgia
fece una legge che proibiva ai
bianchi di insegnare a studenti neri.
Nel 1915, a New Orleans, quando Caterina
comprò un edificio per iniziare
lo Xavier College, i vandali distrussero
tutte le finestre.


Nel 1922, a Beaumont (Texas), quelli
del ku klux klan affissero sulla porta
della chiesa, dove le suore avevano
aperto una scuola, un cartello con
questa scritta: «Basta servizi religiosi
qui! Non staremo a guardare, mentre
preti bianchi frequentano prostitute
negre di fronte alle nostre famiglie.
Chiudete entro una settimana o
colpiremo con catrame e piume».
Pochi giorni dopo, un violento temporale
si abbatté sulla città, distruggendo
la sede del ku klux klan.
Nel 1925 Caterina trovò un terreno
per espandere la Xavier University,
ma poté acquistarlo solo tramite terzi.
Quando il bell’edificio fu inaugurato,
un prete esclamò: «Inutilis labor!»
(fatica sprecata). Caterina non sentì il
commento: guardava la cerimonia da
una finestra del terzo piano, lontano
dalla piattaforma dei dignitari.
A Wilmington (Delaware) Caterina finanziò
con 4 mila dollari la costruzione
di una chiesa, in sostituzione
della vecchia, a condizione che fosse
aperta a bianchi e neri. Ma il parroco,
compaesano di Caterina, non stette
ai patti: riservò la nuova ai bianchi e
usò la vecchia per i neri.


CONTI… IN TASCA


Alla sua morte, Francesco Drexel lasciava
un patrimonio di 15,5 milioni
di dollari, il più grande registrato
nella Filadelfia di quei tempi: il
10% (1,5 milioni) da distribuire subito
a 29 istituzioni caritative; i restanti
14,5 milioni (oggi pari a 250
milioni di dollari) furono spartiti fra
le tre sorelle, non ancora sposate, con
vincoli precisi, per scoraggiare eventuali
cacciatori di eredità.


Il padre stabilì per testamento che
tutto il patrimonio costituisse un fondo,
di cui le figlie godevano solo gli
interessi e che alla loro morte passasse
in eredità ai rispettivi figli. Se
una moriva senza eredi, gli interessi
dovevano andare alle sopravvissute;
se tutte e tre fossero scomparse senza
figli, il fondo doveva essere diviso
tra i beneficiari dell’iniziale 10%.
Gli interessi di ogni sorella ammontavano
a 1.000 dollari al giorno. Alla
morte di Elisabetta (1890) e di Luisa
(1940), Caterina diventò unica beneficiaria.
Morta anche lei (1955), tutto
il fondo Drexel passò alle istituzioni
menzionate dal testamento paterno.
Non un centesimo rimase nelle tasche
delle suore del Santo Sacramento.


In 60 anni, Caterina fondò 145 missioni
cattoliche, 12 scuole per indiani
e 50 per afro-americani, distribuendo
circa 20 milioni di dollari, una
cifra di molto superiore all’intero e intoccabile
patrimonio paterno.
Cresciuta nell’opulenza e maneggiando
tanti soldi, Caterina prese sul serio
il voto di povertà: usava le matite finché
diventavano mozziconi; adoperava
vecchie buste della corrispondenza
per scrivere le note; ricuciva i legacci
rotti delle scarpe, invece di comprarli
nuovi; nelle lunghe traversate in treno
viaggiava in carrozza giornaliera, meno
costosa del vagone letto.
Ridotta quasi all’immobilità, rifiutò di
comperare una carrozzella; a stento
accettò che un falegname mettesse
quattro ruote a una sedia di legno.


Nel 1924 convinse il Congresso a
emendare la legge tributaria federale:
chi per 10 anni avesse dato il
90% dei redditi in carità era esente
dalle tasse. Con tale emendamento,
conosciuto come «scappatornia della
suora di Filadelfia», risparmiò un terzo
delle entrate, altrimenti finite nelle
casse dello stato.

Benedetto Bellesi




Storie di barboni e volontari

COSÌ VICINI, COSÌ LONTANI
Incontrare, conoscere e aiutare i «senzafissadimora»
non è facile. La loro realtà è fatta di fame, freddo,
malattia, solitudine. Ma quando l’obiettivo è raggiunto,
la soddisfazione è veramente irripetibile.

LA SOLIDARIETÀ
COME DENOMINATORE

Svolgo l’attività di volontaria alla
«Bartolomeo & C.» da parecchi
mesi, ed è un’esperienza meravigliosa
dal punto di vista umano.
Grazie ad un’introduzione graduale
ed attenta, non ho avuto esperienze
traumatizzanti. Sicuramente
sto imparando a conoscere realtà a
me sconosciute, anche se vecchie
come il mondo e più diffuse di
quanto non si creda.
Sono venuta in contatto con un
mondo fisicamente così vicino al
nostro, eppure così lontano. È vicino
perché lo incontriamo nelle stesse
strade del centro dove ci rechiamo
a fare shopping, al cinema o al
ristorante; al tempo stesso è così
lontano, perché presenta problemi
di fame, freddo, malattia e solitudine,
che neppure immaginiamo.
Essere volontari alla «Bartolomeo
& C.» è un’esperienza di amicizia e
scoperta reciproca, sia nei rapporti
con gli altri volontari che in quelli
con gli utenti. I rapporti con gli altri
volontari sono improntati alla disponibilità
e all’avere un denominatore
comune: la solidarietà. Il rapporto
con gli utenti è segnato in
prima battuta dalla curiosità reciproca
e subito dopo dall’affetto, dal
sentire che siamo importanti gli uni
per gli altri. E come tutte le esperienze
di volontariato, si riceve molto
di più di quello che si dà. Alle volte
un sorriso ed uno sguardo ripagano
la levataccia al «Bivacco»
(nome della casa di accoglienza,
ndr), la domenica mattina: ci si è alzati
presto ma ne valeva la pena.
Ho conosciuto G. al pranzo organizzato
a Foo di Coazze il
giorno di Pasqua. Ero seduta a tavola
con lui. Mi ha confidato di essere
un ex-alcolista, e per questa sua
condizione di «ex», che aveva faticosamente
raggiunto dopo molto
tempo, non avrebbe toccato il vino
a tavola.
Mentre G. mi parlava delle sue
esperienze, mi ha confidato di aver
scritto un libro di poesie, durante
gli anni bui trascorsi in manicomio.
Alla fine della giornata, quando ci
siamo salutati, mi ha promesso che
mi avrebbe regalato una copia del
suo libro. Il sabato successivo è arrivato
in via Sacchi con il libro impacchettato
in una carta a fiori con
un nastro rosa, e un bigliettino di
accompagnamento: un’immagine
che non dimenticherò mai.
Nel libro ci sono i momenti più
bui di quegli anni della sua vita:
paure, amori non ricambiati e tanta
solitudine. Poi, quando gli si è dischiuso
davanti un mondo diverso,
fatto di amicizia e solidarietà, è stato
come un raggio di sole in una
giornata scura.
Per quanto mi riguarda, ancora
una volta, ho avuto la dimostrazione
che facendo volontariato si riceve
più di quello che si dà. Come l’affetto
di una persona quasi sconosciuta.
PAOLA C.

PRIMO: NON GIUDICARE
Nella nostra società orientata al
successo, al profitto, ai risultati immediati,
esistono persone (e non sono
poche) che lottano per ottenere
una brandina in un dormitorio, un
piatto di pasta in una mensa, un
paio di scarpe e un paio di pantaloni
usati in un centro di accoglienza.
In questi anni di volontariato alla
Bartolomeo ho scoperto un mondo
nuovo, quello sopradescritto, composto
dagli ultimi, dai dimenticati,
dagli emarginati, da coloro che possono
contenere tutti i loro beni materiali
in una borsa di plastica.
Come ogni realtà nuova va scoperta,
non guardandola furtivamente
dall’esterno, ma immergendosi
in essa: parlando con i senzafissadimora,
mangiando con loro,
ascoltandoli.
Dal contatto con loro ti accorgi
che dietro al degrado fisico, all’abbandono
delle convenzioni sociali,
si nasconde una persona, con le sue
emozioni, le sue giornie, i suoi dolori,
i suoi desideri, la sua capacità di
sorridere, di riflettere, di entusiasmarsi.
In una parola, la sua voglia
e volontà di vivere.
Forse la vita con loro è stata dura
o forse sono stati loro eccessivamente
duri con la vita: comprendere
ciò è difficile, il più delle volte impossibile.
In ogni caso non è nostro
compito giudicarli per quello che
hanno fatto, ma accoglierli per
quello che sono.
È così che può uscire una carica
inesauribile di umanità, uno stimolo
alla vita che raramente si trova altrove.
PIERO
RESTITUIRE SPAZIO E TEMPO
Tra le molteplici attività della
«Bartolomeo & C.», esperienza
fondamentale è l’ospitalità nottua
presso il «Bivacco», casa di accoglienza
dotata di 20 posti letto
destinati ad un’utenza maschile. Si
tratta di una struttura privata, gestita
unicamente da volontari. Gli
ospiti, dopo un colloquio preliminare,
sono inseriti in un ambiente
dove possono ricevere un ricovero
notturno, provvedere all’igiene personale,
consumare il pasto serale e
la colazione, cambiare e lavare gli
abiti, ricevere la visita di un medico
e seguire le terapie necessarie, lasciare
in deposito un numero limitato
di bagagli, accedere a sale provviste
di attrezzature ricreative dove
incontrare gli altri utenti e trascorrere
in loro compagnia la serata.
Il Bivacco, tuttavia, non rappresenta
solo un indispensabile servizio
finalizzato all’emergenza, ma un
primo passo verso la ricostruzione
di un’identità personale, perduta
nella deriva sociale di cui la persona
senzafissadimora è stata protagonista.
La mancanza di un reddito,
l’esclusione sociale, l’estraneità
agli stili comportamentali della cultura
dominante hanno infatti come
conseguenza non solo l’assenza o la
perdita di una casa intesa come edificio
fisico o materiale (protezione
da agenti estei, punto di rifoimento,
luogo di reperibilità), ma il
venire meno della propria identità
nello spazio e nel tempo.
Nel procedere verso l’emarginazione,
lo spazio urbano vissuto dal
senzafissadimora si limita alla mappa
dei luoghi anonimi ed impersonali
dove egli mangia, riposa o
aspetta un aiuto. Ciò produce una
capacità di orientamento dettata
unicamente dalla ricerca di una sopravvivenza
minimale, ma contemporaneamente
costituisce nel territorio
cittadino un punto di riferimento
residuale o alternativo all’abitazione.
Anche la prospettiva temporale si
contrae. L’unica dimensione disponibile
è il presente, l’unico margine
d’azione è la reazione immediata alle
provocazioni del momento, il futuro
non è altro che il susseguirsi di
situazioni alla cui costruzione il soggetto
non si sente chiamato a partecipare.
Il Bivacco diventa allora un luogo
concreto dove la persona può
sperimentare ruoli o relazioni altre
rispetto a quelle della strada, recuperare
la propria storia in un ambiente
disposto all’ascolto, frequentare
uno spazio di socializzazione
contrapposto alla misantropia
od al ripiegamento su di sé, riavvicinarsi
agli affetti spesso soffocati
dalla diffidenza o dall’opportunismo
che caratterizzano la sua esistenza
quotidiana.
L’accoglienza al Bivacco è quindi
centrale, perché ci offre la possibilità
di non limitare il nostro intervento
alla distribuzione di beni o a
prestazioni di tipo assistenziale; essa
pone le basi di una progettualità
che possa aprire ai nostri amici la
dimensione del futuro, a loro troppo
spesso negata.
PAOLA O.

Una testimonianza da Volgograd (Russia)
LE PATATE DI MIKAIL, IL FUNERALE DI NINA
Storie di barboni raccontate da un volontario della «Giovanni XXIII».
di Marco Giovannetti
Volgograd. È la veglia della notte di pasqua. La
chiesa è quasi piena e alla fine di ogni lettura il
sacerdote invita i fedeli a testimoniare come Dio sia
presente nella loro vita. Fino a quel momento solo
qualche timido tentativo, forse banale e scontato.
Mi giro, guardo Mikail che mi strizza l’occhio. Poi
si alza e comincia a parlare.
È un giorno qualunque e Mikail sta per andare al
lavoro, ma una telefonata di un amico gli comunica
che c’è la possibilità di avere delle patate. Mikail
è confuso, pensa e ripensa. La sua famiglia ha bisogno
di quelle patate, ma il rischio è quello di tardare
al lavoro. Mikail decide di mettere al primo
posto il bisogno della sua famiglia, di suo figlio, di
sua moglie, ma non sa che questo lo stato non glielo
perdonerà. Così si avvia in auto, a fianco la moglie,
dietro il figlio e lo zio, davanti a sé la tragedia.
Mikail ha un incidente, i passeggeri muoiono tutti.
Mikail è l’unico a rimanere vivo; sarà poi lo stato
ad ucciderlo.
Mikail non è colpevole, l’incidente è casuale, ma
questo allo stato non interessa. Sarà giudicato per
il ritardo al lavoro. La condanna: 15 anni di prigione.
Mikail ha perso tutto. Scontato il carcere, si reca
dai genitori, l’unico legame familiare rimasto, ma
nel corso di quei 15 anni sono morti e nessuno si
era mai preso l’incarico di comunicarglielo. Da quel
momento in poi la sua vita sarà sulla strada.
Non ha più nulla, né affetti, né casa. Ha perso la dignità
e la fede. Mikail non crede più in Dio: se Dio
esistesse, non permetterebbe tanta sofferenza; è
impossibile, non può essere. Mikail è sicuro: Dio
non esiste.
In chiesa, il silenzio. Mikail ripete che Dio non esiste
e davanti a questa storia nessuno si permette
di ribattere. Forse anche il sacerdote si rende conto
che dire a Mikail «Dio ti ama», non basta.
Mikail continua il suo discorso. Parla del nostro incontro
ed io mi commuovo. Non ce la faccio a trattenermi.
Parla della dignità ritrovata, della famiglia,
del rispetto, della speranza… Guarda dritto
il Cristo inchiodato e dice: «Ora so che Dio esiste».
È questa la pasqua qui a Volgograd, nel
sud della Russia, dove sono tre anni che
vivo come volontario della «Comunità
papa Giovanni XXIII».
Quante storie, quanti volti, ognuno
importante, unico, irripetibile.
Sguardi, sorrisi, pianti, lutti, speranza,
impotenza, tutto custodito nel profondo
del cuore, come una ricchezza inestimabile.
Ho il ricordo nitido di ogni incontro anche
se è durato pochi minuti, intensi, forti…
come un pugno allo stomaco. Ho visto
tanti amici morire. Molte volte il pezzo
di strada fatto insieme è stato verso la morte.
La fatica di sopportare quei momenti di silenzio,
fatti solo di uno sguardo in cui ti dici tutto. Per certe
cose le parole non servono, come con Nina.
Quante volte ci siamo guardati ed io ho capito che
tu non avevi più voglia di lottare, ma mi chiedevi di
accompagnarti verso la morte, in maniera dignitosa,
da essere umano.
Che fatica, cara Nina. Che fatica accettare la tua
rassegnazione, che male mi ha fatto pensare che
forse era ormai troppo tardi. Proprio tu che sbandieravi
il tuo essere «barbona» con orgoglio davanti
a tutti; tu che accostavi quella condizione a parole
come libertà, scelta, felicità. Sempre accompagnata
dalla tua amica bottiglia, che però non è
stata in grado di farti sentire amata, ma ti ha aiutato
a dimenticare, a non pensare che tu, quella vita,
non l’avresti mai scelta.
Ricordo il giorno del tuo funerale. Eri bellissima, ti
avevamo vestita come a te piaceva e non solo, per
te si sono aperti quei cancelli che ti hanno visto viverci
davanti per 15 anni. Mai ti avevano permesso
di entrare in chiesa: a te era vietato, non ne eri
degna.
Ma forse, nel giorno più bello della tua vita, il Signore
ha fatto capire a tutti che siete voi ad aprirci
il Regno ed io l’ho capito nel momento in cui eravamo
dentro alla chiesa ortodossa, cattolici e ortodossi
vicini, insieme, uniti da te, angelo di Dio,
dalle ali sporche e l’abito stracciato.
Veglia su di noi, cara Nina, insieme a tutti coloro
che ora vestiti di Luce, ci guardano da Lassù.
Sono questi gli incontri qui a Volgograd, quando
andiamo in strada a portare un panino con un
thé caldo e a condividere la vita di persone emarginate,
sbattute fuori dalle mura di questa società.
La nostra casa, che si trova fuori città, in un quartiere
povero, non ha mura che dividono. Al contrario,
accoglie chi vuole condividere con noi un
po’ della propria esistenza.
Ora siamo in 8 e la nostra vita è
molto semplice. Siamo una famiglia
un po’ particolare, ma ci vogliamo
bene. I nostri passi sono
molto lenti. Per noi il ritorno ad
una vita «normale» è lungo: l’uso
del sapone, del bagno, rispettare
gli orari. Ma ciò di cui
siamo veramente fieri è che ci
abbracciamo, ci chiamiamo
per nome, ci prendiamo per
mano e camminiamo insieme
con la speranza di arrivare, prima
o poi, a varcare i confini di
una terra dove regni la giustizia
e dove ogni cuore si possa
sentire accolto e riscaldato.

Lia Varesio




Storie di barboni e volontari

BARTOLOMEO NON HA LE CHIAVI

ERA UNA SERA D’INVERNO
Alcolisti, malati di mente, ex-carcerati, malati di Aids e da qualche anno anche tossici e immigrati. Il mondo dei «senzafissadimora», meglio conosciuti come «barboni», è sempre più popolato. E sempre più difficile da gestire.

QUANDO ESMERALDA URLAVA
Sul finire degli anni ’70 appartenevo
a una parrocchia che gestiva
una mensa in cui andavano a mangiare
i poveri. Lì mi occupavo di anziani
e malati. Un giorno, andando
in Fiat (dove lavoravo come operatore
sociale), mi imbattei in una
donna. Era sporca, vestita malamente,
scalza, scarmigliata e urlante.
E la gente, vedendola, scappava.
Quello che più mi colpì non era
tanto lo stato della donna, ma proprio
il vedere che la gente scappava.
E allora, mi chiesi, dovrei scappare
anch’io? Mi avvicinai sorridendole.
Lei smise di gridare. Disse di
chiamarsi Esmeralda. Le domandai
perché gridasse e lei mi rispose in
piemontese: «Grido al mondo la
mia disperazione». L’accompagnai
in un bar a mangiare qualcosa e mi
raccontò la sua storia di donna dimessa
da un ospedale psichiatrico.
Poi, assieme, facemmo uno strano
itinerario: dalla stazione di Porta
Nuova alla mensa del Cottolengo,
dove incontrammo tante persone
come Esmeralda.

BARTOLOMEO
AVEVA 54 ANNI

L’associazione «Bartolomeo &
C.» è nata 23 anni fa, precisamente
in una notte d’inverno del 1980. Andavamo
in giro a fare la ronda, cioè
a cercare i nostri amici barboni e
perché non gelassero portavamo loro
panini, coperte e roba calda.
Quella sera non trovammo Bartolomeo
al suo solito posto, nella
stazione di via Fiocchetto. Così cominciammo
a cercarlo, fino a che
arrivammo nel centro storico di Torino
in via Conte Verde, vicino al
Duomo, dove sorgeva una casa diroccata
nella quale Bartolomeo
qualche volta si rifugiava.
A un certo punto inciampai in un
mucchio di cartoni e nylon e, mentre
cercavo di rialzarmi, vidi spuntare
un piede. Allora chiamai i ragazzi,
togliemmo i cartoni e sotto
trovammo il cadavere assiderato di
Bartolomeo. Bartolomeo aveva 54
anni. Noi che non avevamo ancora
scelto un nome per il nostro gruppo,
quella notte decidemmo di chiamarci
«Bartolomeo & Compagni».
Quell’evento fece definitivamente
maturare in noi la scelta di continuare
a cercare queste persone
chiamate popolarmente «barboni»,
aiutandoli in primis conquistando
la loro fiducia e poi elaborando dei
programmi per loro. Ad esempio la
reiscrizione anagrafica, in modo tale
che potessero riacquistare un’identità,
visto che molti di loro erano
stati «cancellati» dall’anagrafe e
vivevano nel totale anonimato.
Chiedemmo alla polizia ferroviaria
il permesso di transitare in stazione,
per contattare la gente che di
lì transita. Aprimmo un ufficio all’interno
della stazione centrale, poi
affittammo alcune stanze, dove collocammo
i malati di mente e successivamente
i malati di Aids.
All’epoca a Torino i dormitori
erano molto pochi, alcuni in situazioni
davvero allucinanti. La città
allora non garantiva quasi niente e
quindi cominciammo a rompere le
scatole al sindaco del tempo, Diego
Novelli, che si rivelò sensibile a
queste problematiche, tanto che mi
chiamò ad andare a lavorare all’ufficio
per i «senzafissadimora», nato
nel 1981. Poi venne aperta la casa
di accoglienza di via Marsigli a cui
fecero seguito tanti altri interventi
sul territorio.

L’AUMENTO
DEI «NUOVI POVERI»

Nel 2001 alla porta della Bartolomeo
& C. hanno bussato 220 nuovi
casi. La stragrande parte sono
maschi (90,53%), l’85,26% disoccupati,
il 3,16% occupati e l’11,58
pensionati. Sono malati di mente,
malati di Aids, immigrati, alcolisti,
ex-carcerati, qualche transessuale.
Il 52,41% sono single, circa il 30%
divorziati o separati, ma il 10% è
sposato. Gli analfabeti sono solo
l’11%, mentre il 45% ha fatto la
scuola media e il 15,26% le superiori.
Sotto il profilo dell’età prevale
la fascia che va dai 30 ai 60 anni
(circa il 60%) ma stanno crescendo
i giovanissimi e gli anziani.
Soprattutto i nuovi poveri hanno
poco a che vedere con i barboni tradizionali.
Il panorama è molto cambiato.
Il barbone tradizionale, il
classico «clochard», è quello che dà
meno problemi, ma sono rimasti
davvero in pochi. In questi ultimi
anni ci troviamo di fronte a persone
molto più giovani e sempre più
«sballate» psicologicamente. Tossici
molto più cattivi, arrabbiati; gente
carente di valori, che ammazza
per un nonnulla. Assistiamo all’aumento
dei sieropositivi, dei tossicodipendenti,
di quelli che abusano di
droga e alcornol.
Troviamo residui di vecchia immigrazione
meridionale che si associano
agli extracomunitari, delinquono
insieme, danno vita a
clan. I vecchi barboni vivono sempre
peggio, spiazzati dai nuovi poveri,
che magari rubano loro il sacco
a pelo e le scarpe. La caratteristica
di questa nuova povertà è
proprio l’assoluta mancanza di valori:
vogliono tutto subito.
C’è gente davvero difficile, magari
con più problemi: buca, batte
e beve. Poi c’è il problema dei malati
sieropositivi e quelli in Aids
conclamato. Casi cronici in cui la
prevenzione non serve più ed è
molto difficile fare capire loro la
necessità di seguire una serie di
norme.

PRECIPITARE
NELLA POVERTÀ

Abbiamo persone che vivono da
barbone ma senza esserlo, persone
che provengono da famiglie disgregate;
e poi immigrati. Decine e
decine di casi di persone normali
precipitate nella povertà. Le cause
sono molteplici, spesso disgregazione
familiare. Gente di buona famiglia,
che però in famiglia non si
ritrova più.
Abbiamo incontrato un ragazzo
di 16 anni che diceva di non sentirsi
giovane: «A casa nessuno mi parla,
nessuno mi vede e nessuno mi
ascolta». Il padre sempre in giro
per lavoro, la madre pure lei assente,
impegnatissima tra bingo, canasta
e amiche. E lui che fa? Non sta
in casa, è pieno di problemi, i genitori
gli danno tanti soldi, ma non sa
come usarli e così viene da noi ad
elemosinare la merenda per poter
parlare.
C’è un signore di mezza età, che
faceva l’agente di scorta a un importante
uomo politico, poi un
giorno molla tutto, lavoro e famiglia,
per approdare a Torino a fare
il barbone. Ora è stato recuperato,
è diventato un operatore della Bartolomeo
& C.. Fa le commissioni e
aiuta me e i volontari.
Esistono anche i poveri da usura.
C’è una donna di sessant’anni, che
faceva la manager e aveva parecchi
attici. Poi l’usura l’ha devastata fino
a condurla sul lastrico. L’esaurimento,
l’insorgere di problemi
mentali, il baratro. Oggi è riuscita
ad avere una casa popolare. Si è rimessa
in quadro, ma vive sempre
con il terrore di rincontrare i suoi
ricattatori. Ci siamo sempre occupati
non solo di assistenza, ma di
promozione. I risultati li abbiamo
avuti grazie a interventi efficaci che
hanno permesso a queste persone
di ristabilirsi psicologicamente e
che adesso ci aiutano a lavorare con
gli altri.
Noi pratichiamo la filosofia del
«dare la canna da pesca e non il pesce». Ai nostri assistiti offriamo dei
lavoretti e, quando hanno qualche
soldo, li accompagniamo in banca
per aprire un conto, imparare a gestirsi,
non spendere più di quello
che hanno, ecc… Hanno bisogno di
essere supportati e seguiti. Hanno
difficoltà ad alzarsi al mattino, a rispettare
i tempi. Ma se una persona
ha problemi di mente, non può
stare nei tempi perché è fuori del
tempo.
Quando vediamo che una persona
ha delle potenzialità, allora la
collochiamo nelle case e, quando
sono in grado di gestirsi da soli, allora
li aiutiamo ad ottenere una casa
popolare, il lavoro se si può, in
modo tale da conquistare una certa
autonomia.

QUEL CADAVERE
NELLA CELLA FRIGORIFERA

Alla vigilia di Natale del 2001 fui
chiamata dall’ispettore di un commissariato
di zona, perché avevano
in frigo una persona da 12 giorni e
non sapevano chi fosse. Così andai
alle celle mortuarie dell’ospedale
delle Molinette.
Aveva 35-40 anni. Lo avevano
trovato morto d’infarto davanti al
supermarket delle Molinette e ancora
non erano riusciti a dargli un’identità.
Colpisce vedere che in una
città pullulante di fermenti positivi,
si possa morire nell’anonimato. C’è
gente che se ne va, in silenzio. Sono
tutti «caduti» sul fronte della nostra
indifferenza.
A Torino ci vuole una casa di
pronta accoglienza, aperta 24 ore su
24, gestita dal Comune e dai volontari
insieme. Un luogo che possa essere
un punto di riferimento per
tutti quelli che di giorno e di notte,
se hanno freddo, possano stare lì a
giocare a carte, a farsi la barba, ad
usufruire di una certa rete di servizi.
Questo posto oggi non esiste.
Le persone continuano a girare da
un dormitorio all’altro. C’è gente
che non ha un luogo dove andare
per cambiarsi e lavarsi. Uno dei nostri
va a stendersi le mutande nel reparto
dialisi dell’ospedale Mauriziano!
E poi non c’è continuità sui
casi.
Se una persona viene accolta dal
Comune o dai servizi per l’emergenza
freddo, dopo tre mesi questa
va fuori e più nessuno la segue. Se
non è in grado di pagarsi una pensione
per dormire o se non è in grado
di comprarsi da mangiare, come
fa? L’intervento oggi non è adeguato
ai bisogni delle persone.

DALLA PARTE
DEGLI «ULTIMI»

A queste persone manca la casa e
il lavoro, ma anche tutta una vita
di relazione: non sanno come vivere
il tempo «libero» e, quando sono
in crisi di identità più profonda,
mancano dei referenti che siano in
grado di gestire questi momenti,
aiutandoli ad avere ancora voglia
di vivere, curarsi, riacquistare
un’autonomia. Troppe volte queste
persone non trovano risposte.
Ogni giorno alla «Bartolomeo &
C.» arrivano persone che ci interpellano
come pugni sullo stomaco.
Penso allora a tutti coloro che riempiono
le sedi dei partiti, delle chiese,
delle associazioni e mi chiedo come
mai così tanti tra loro sono prigionieri
di chiusure mentali e
pregiudizi. Penso a quanto disagio
in meno ci potrebbe
essere, se ci fosse meno
burocrazia nell’applicazione
delle leggi.
Oggi si parla molto di
qualità della vita, ma attorno
a noi si respira
ancora troppa intolleranza
verso i problemi
degli «ultimi». Non è
solo colpa dello stato.
Ogni cittadino dovrebbe
avere il coraggio di
guardare in faccia la realtà,
perché tutti siamo in colpa
se il disagio aumenta. E come
aumenta!

NON RIMANERE
SPETTATORI

Non bastano le scelte politiche,
sociali, culturali, se
non c’è la scelta e una risposta
dentro noi stessi.
Non fare da spettatori, ma
chiedersi cosa stiamo facendo
concretamente per gli altri. Il
nostro è un tentativo quotidiano
fatto di limiti, ma anche di
atti concreti di condivisione.
Che cosa ha fatto Cristo per
gli emarginati? Cristo nasce
da emarginato, le prime persone
che incontra sono i pastori,
non i re. Chiude la sua
vita tra i ladroni.
Noi che lo vogliamo seguire
dobbiamo vederlo e scoprirlo
negli altri. Signore, quando ti
abbiamo visto? Tu eri nell’alcolista,
nel malato di mente,
in quell’amico che si buca…
Se il nostro fratello non ce
la fa da solo a portare la
croce, noi abbiamo il dovere
di aiutarlo.
È ora di smetterla di essere
spettatori. Occorre
diventare protagonisti attraverso
il nostro impegno
concreto e quotidiano.

UN RIPARO, UNA PANCHINA, UN BICCHIERE DI VINO
di Enrica, volontaria della «Bartolomeo & C.»
Al mattino Bartolomeo viene svegliato da svariati
fattori: la voce di un passante, la pioggia
che s’insinua tra le sue coperte, un clacson di
un’auto, l’abbaiare di un cane. Per lui le operazioni
del risveglio sono velocissime. È sufficiente alzarsi
in piedi e sistemare le proprie cose, preparandosi
a… spostarsi.
Bartolomeo difficilmente ha un luogo di lavoro da
raggiungere, raramente delle occasioni fisse d’incontro
con altri. Bartolomeo non ha bisogno di portare
un orologio al polso.
La sua giornata ha come sole tappe costanti i pasti.
Bartolomeo sa che, per poter fare colazione, può
recarsi dalle suore o in altro luogo ove viene somministrata
tra le 8 e le 9. Per avere un piatto di pasta
bisogna andare invece in corso «buonappetito»
tra le 12 e le 13, mentre la tazza di latte serale viene
servita in via «buonanotte» dalle 19 alle 20.30.
Se ha fame, si recherà in quei posti a quelle ore. Se
non ci andrà nessuno se la prenderà con lui.
Durante il resto della giornata Bartolomeo vaga
per la città. Gli incontri con i compagni di strada
sono solitamente casuali. Bartolomeo si reca ai
giardini, perché sa che lì può trovare
il suo amico e bere insieme un bicchiere
di vino di poco costo, comprato
nel supermercato. Se non c’è
da bere, forse potranno fumarsi una
sigaretta. Tuttavia, se quel giorno
Bartolomeo non andrà ai giardini,
nessuno lo cercherà né si preoccuperà.
Nel suo girovagare egli può trovare
un quotidiano abbandonato su una
panchina e trascorre un po’ di tempo
nella lettura. Se è fortunato, può
commentare le vicende politiche
con un’altra persona, appena conosciuta
su quella stessa panchina.
Qualche volta, se ha contatti con i
servizi sociali, Bartolomeo va dall’assistente
sociale. Nella sua mente
le cose pratiche occupano uno
spazio piccolissimo. Tutto il resto è
lasciato… a che cosa? Proviamo ad
immaginare. Bartolomeo osserva le
cose che capitano: la lite tra due
persone, l’incidente stradale. Dentro
di sé le commenta.
Bartolomeo ricorda il suo passato,
forse ha trascorso anni diversi, nei
quali la sua giornata era simile a
quella di una persona «normale»,
con una casa e un lavoro. Forse li
rimpiange, forse no.
Bartolomeo presta una grande attenzione
al cielo, ai mutamenti meternorologici.
Per lui è importante che
non piova.
Èsera ormai. Bartolomeo stende
le sue coperte in un luogo riparato.
Se fa molto freddo deve bere
del vino, forse molto vino, altrimenti
per lui è impossibile prendere
sonno. Riesce a crearsi un suo
spazio, con le sue cose tutte ammassate
attorno a lui e alla fine …
si addormenta.

Lia Varesio




GUATEMALA aspettando il «Comla7»

DA ROMERO A GERARDI

Tutta la chiesa
americana si prepara
a vivere un nuovo
congresso missionario
che si celebrerà
a Città del Guatemala
dal 19 al 30 novembre
2003, dal titolo:
«Chiesa in America,
la tua vita in missione».
Obiettivo generale
è «animare la vita
delle chiese particolari
del continente affinché,
a partire dalla loro
esperienza
evangelizzatrice,
assumano in maniera
responsabile e solidale
l’impegno della missione
ad gentes».

«Vogliamo vivere un congresso
che, a partire dalla
piccolezza, povertà e
martirio, rafforzi la comunione, rivitalizzi
la missione e animi la testimonianza».
Con questa prospettiva, la chiesa
in Guatemala e in tutta l’America ha
iniziato il suo cammino verso la celebrazione
del settimo Congresso
missionario continentale. L’appuntamento
è a Città del Guatemala, dal
19 al 30 novembre 2003.

LE TAPPE
La scelta del Guatemala come sede
del nuovo Congresso missionario
è stata fatta nell’ottobre del 1999 a
conclusione del Comla6/Cam1 nella
città di Paranà (Argentina). Questo
del Guatemala, sarà il Comla7:
settimo Congresso di una giusta e
benemerita iniziativa che ha già fatto
le nozze d’argento, da quando, nel
1977 a Torreón (Messico), è iniziato
il cammino missionario latinoamericano
dei Comla.
Un cammino che si è affermato a
Tlaxcala (Messico 1983), consolidato
a Bogotá (Colombia 1987), aperto
all’immenso mondo missionario
con il Comla4 di Lima (Perù 1991),
ha integrato le culture dei popoli con
il Comla5 di Belo Horizonte (Brasile
1995), ha rafforzato una maggiore
consapevolezza missionaria nella
chiesa locale con il Comla6 di Paranà
(Argentina 1999).
Quest’ultimo ha preso il nome anche
di Cam1 per l’inserimento della
chiesa degli Stati Uniti e del Canada
in un comune ambito missionario.

LA FISIONOMIA
Ogni Comla ha avuto la propria fisionomia
e proiezione, in base al momento
storico-ecclesiale e alla particolare
sensibilità del paese organizzatore
e ospitante. Guardando la
cartina dell’America, proprio nel
punto in cui il continente, fra nord e
sud, diventa più stretto (si può dire
più debole), vi è il Guatemala e gli altri
paesi dell’America Centrale. In
questo punto del logotipo del congresso
brilla una stella: il continente
non si spezza, ma si rafforza nella fede
e nella missione; da questo punto
si irradia una luce che vuole proiettarsi
con nuovo vigore verso l’evangelizzazione
del mondo intero.
Per il Guatemala e per tutta la
chiesa in America Centrale il contributo
specifico alla missione si fonda
su un’esperienza evangelizzatrice
che parte dalla piccolezza, dalla povertà
e dal martirio: tre realtà che caratterizzano
la chiesa pellegrina in
questi paesi. Siamo di fronte a una
chiesa con poche risorse umane e
materiali, ma con una fede viva e radicata.
Salta agli occhi, innanzitutto, la
piccolezza, situazione geografica,
politica ed ecclesiale, che i paesi dell’istmo
americano condividono con
le vicine isole dei Caraibi: incombe
su di loro il rischio costante di perdere
lo spazio minimo della propria
autonomia.
Questa fragilità endemica è aggravata
dalla povertà generalizzata, che
condanna la maggior parte di queste
nazioni a essere i paesi più deboli e
poveri del continente e del mondo.
Su questi paesi piccoli e poveri si
sono accaniti gli imperi del mondo
per dominarle, impiantandovi ideologie,
imponendo governi, calpestando
i diritti delle persone e delle
istituzioni, scalzandone l’identità
culturale e religiosa per mezzo di sètte
straniere e locali, seminando ovunque,
in questi paesi dell’istmo,
terrore e morte.
Il caso più emblematico è stato
quello del Guatemala, dove, negli ultimi
decenni, le morti violente, secondo
i calcoli più conservatori, hanno
superato ampiamente il numero
di centomila, fra indigeni, catechisti,
sacerdoti, religiose, compreso il vescovo
ausiliare della capitale, mons.
Juan José Gerardi Conedera. Difensore
della vita e dei diritti umani, fu
assassinato in circostanze non ancora
accertate, nella cantina della sua
casa parrocchiale, il 26 aprile 1998,
due giorni dopo (è significativo) la
pubblicazione del rapporto della
commissione nazionale della verità,
da lui presieduta, su numerose uccisioni
di contadini, catechisti e altri civili
e religiosi, da parte delle forze
dell’ordine e militari.
Chiunque abbia una minima conoscenza
della storia recente dei paesi dell’America Centrale, e in particolare
del Guatemala, condivide
queste affermazioni che io stesso ho
ascoltato da testimoni degni di fede,
nei luoghi dove si sono svolti i fatti.
La triplice prospettiva della missione
a partire dall’America Centrale
– piccolezza, povertà e martirio –
risuona nell’inno del Cam2:
«Dal cuore dell’America
dalla nostra piccolezza
e dalla nostra povertà
andiamo a dare amore.
Per le strade del mondo
a predicare Gesù
con Gerardi e con Romero
porteremo la nostra croce.
Con Gerardi e con Romero
trionfo della croce».
Ancora una volta si dimostra che
il martirio è duro, ma qualificante.

RAFFORZARE
L’IDENTIKIT CATTOLICO

Nonostante interessi stranieri abbiano
cercato di smembrae l’unità
nazionale e religiosa, per mezzo di una
semina pestifera di sètte di ogni tipo,
nella regione centroamericana, e
specialmente in Guatemala, sussistono
tre amori, tenuti in gran conto
dal popolo e che il congresso missionario
si propone di rafforzare; è
una eredità irrinunciabile per l’identikit
del cattolico: l’eucaristia, la Madonna
e il papa.
Qualche mese fa, in occasione di
un incontro regionale preparatorio
del Cam2, ho partecipato in Guatemala
a una fervente processione eucaristica,
arricchita da motivi e segni
della cultura indigena: tappeti di fiori
e rami, un altare tipico, invocazioni
particolari.
Accanto alla sede delle Pontificie
opere missionarie (Pom) e alla segreteria
del congresso sta per terminare
la costruzione di un santuario eucaristico
per l’adorazione perpetua: iniziativa
di Antonio Beasconi, direttore
delle Pom e cornordinatore generale
del congresso, ardente devoto
dell’eucaristia, cuore della missione.
Durante il suddetto incontro, all’inizio
dei lavori, vi è stata l’intronizzazione
di un’immagine della vergine
di Luján, portata dall’Argentina,
per indicare la continuità con il Cam
precedente, e ogni giorno si cominciavano
le attività portando in processione
un’immagine tipica della
vergine venerata nei paesi dell’America
Centrale.
Anche nel luogo in cui si sta preparando
il congresso, si diffonde la
devozione alla Madonna, soprattutto
con la recita frequente del rosario.
Papa Giovanni Paolo II sta seguendo
le tappe di preparazione al
Cam2: ha benedetto il manifesto del
congresso che padre Beasconi,
cornordinatore del Cam2, gli ha presentato
a maggio 2002; ha composto
una preghiera speciale per il congresso;
il 30 luglio 2002 è stato in
Guatemala per canonizzare, in un
clima di grande fervore popolare,
fratel Pedro de Betancur, primo santo
dell’America Centrale, «uomo fatto
carità», esempio di evangelizzatore
secolare con un ardente zelo missionario.
Infine, a novembre, il papa
sarà presente nella persona di un inviato
speciale, che porterà il suo messaggio
e presiederà il Cam2.

MISSIONE E COLLEGIALITÀ
Fin dagli inizi, la preparazione del
Cam2/Comla7 si sta realizzando sotto
la responsabilità comune delle
conferenze episcopali dei sei paesi
dell’istmo, cornordinati dal segretariato
episcopale e direttori nazionali
delle Pom. Oltre ai vescovi, spesso
partecipano alle riunioni preparatorie
i vicari generali e i vicari della pastorale
delle diocesi centroamericane,
una novità rispetto ai congressi
precedenti.
In questo modo, la missione rientra
a pieno titolo nella pastorale ordinaria
delle diocesi, come chiedeva
il concilio e come chiede Giovanni
Paolo II (cfr. RM 83). Nei sei paesi, a
rotazione, si sono svolte riunioni preparatorie
regionali, oltre a quelle
proprie di ogni paese, per i diversi
gruppi ecclesiali: famiglie, seminari,
infanzia e altri.

ANNO SANTO MISSIONARIO
La realizzazione del congresso in
Guatemala è un’occasione perché
crescano nelle chiese particolari la
comunione e la solidarietà, non solo
fra i paesi dell’America Centrale e
dei vicini Caraibi, ma in tutto il continente,
dal Canada all’Argentina.
Il Cam2/Comla7 vuole offrire ai
popoli del continente la possibilità
di mostrare a tutto il mondo come
viene vissuto e annunciato il vangelo
in queste loro realtà e, allo stesso
tempo, l’opportunità di scambiarsi
esperienze, a partire dalle diverse
forme di inculturazione del vangelo
al servizio della stessa missione.
Questi e molti altri punti sono contenuti
in forma chiara e pedagogica
nelle nove schede dello strumento di
lavoro del congresso, per la preparazione
di persone e gruppi di tutto
il continente, durante l’anno santo.
Dall’1 dicembre 2002 al 23 novembre
2003, la chiesa centroamericana
si prepara al congresso con un
«Anno santo missionario», per vivere
in modo intenso e creativo questo
«passaggio del Signore nelle nostre
nazioni che hanno un bisogno urgente
di giustizia, verità e pace», come
affermano i vescovi dell’America
Centrale.
E continuano: «L’Anno santo missionario
deve rilanciare con rinnovato
entusiasmo un’ampia e intensa
missione evangelizzatrice, che comprenda
tutti senza differenze: cattolici
che si sono allontanati e non cattolici
», dentro e fuori dal continente.
L’Anno santo missionario «deve
essere ritmato sull’anno liturgico, affinché
emerga con forza la natura
missionaria della chiesa».
Quest’anno è previsto come un
tempo per condividere la ricchezza
di un vangelo capace di trasformare
la persona e la società, un tempo per
intraprendere iniziative di solidarietà
e comunione, «per lottare contro il
sottosviluppo, estrema povertà ed esclusione,
ispirandoci alla testimonianza
dei nostri martiri e ai valori
che caratterizzano le nostre comunità
», promuovendo anche gesti concreti
di pace, giustizia e riconciliazione
tra famiglie e popoli. Da queste
nazioni, colpite da povertà, guerre,
instabilità politica, disastri naturali,
forti migrazioni, scaturiscono pure
luci di speranza, stimolanti esperienze
di evangelizzazione e di missione.
Il Cam2 vuole essere un’occasione
privilegiata, un kairós, per proporre
un’evangelizzazione nuova e più inculturata,
non solo con e fra i poveri
e i «piccoli», bensì a partire da
questi, e che, allo stesso tempo, si radichi
in un terreno propizio, reso fecondo
dal sangue dei suoi martiri di
ieri e di oggi.
Nel logotipo del congresso, la croce
di Cristo spezza le barriere (indicate
dal guscio dell’uomo)
affinché nascano la vita e
la gioia per tutti.

Romeo Ballan




COREA DEL NORD prove di… cambiamento


ENIGMA DA DECIFRARE

Da una decina d’anni la Corea del Nord ha intrapreso la strada delle riforme in campo economico, religioso e diritti umani. I leaders del Nord e del Sud Corea si sono stretti la mano, ma la riunificazione è ancora un sogno. Persistono enormi difficoltà economiche e, sotto l’aspetto strategico, il paese rimane nel mirino americano.

Nella piazza Kim Il Sung di Pyongyang, centinaia di studenti allineati si muovono all’unisono seguendo il ritmo scandito dalla voce della coreografa. Nello slargo laterale, altre ragazze in divisa militare marciano seguite dalla loro istruttrice. Tutto intorno la vita scorre normalmente: le macchine dei funzionari di partito, di governo e organizzazioni non governative accreditate
nel paese, si incrociano con i tram e i pullman pieni di passeggeri che tornano a casa dopo una giornata di lavoro.
Ogni tanto, una delle centrali elettriche che alimentano diversi settori della città cessa di funzionare: allora i tram si fermano, le luci dei lampioni e delle case si spengono e su tutto cade un silenzio che urla la difficile situazione in cui l’intero paese è costretto a vivere.

CAMBIO DI GUARDIA

La crisi generalizzata, che da anni sta colpendo l’economia nordcoreana, non risparmia nessun campo. Dal 1991, anno del dissolvimento dell’Urss e del Comecon, il sistema che garantiva l’interscambio economico tra i vari paesi del blocco socialista, la Corea del Nord si è trovata di punto in bianco a dover fronteggiare, praticamente da sola, una situazione economica aggravata da un’impressionante serie di catastrofi naturali. L’improvvisa morte del leader e fondatore della Repubblica democratica popolare di Corea, Kim Il Sung, avvenuta nel 1994, ha aggravato ulteriormente la già precaria condizione sociale, aprendo numerose e inquietanti incognite sul corso politico che il suo successore designato, Kim Jong Il, avrebbe impartito al governo. Le scene di pianti e di isteria collettiva, trasmesse dalla televisione nordcoreana appena divulgata la notizia della dipartita del Grande Leader, si alternavano alle tensioni che lungo il 38° parallelo andavano facendosi sempre più tangibili. Pochi giorni prima, Jimmy Carter, a nome dell’amministrazione Clinton, aveva incontrato Kim Il Sung, riuscendo faticosamente a strappargli la promessa di incontrare il collega della Corea del Sud. Al tempo stesso il problema della centrale nucleare di Yongbyon, da cui, secondo gli Stati Uniti, veniva trattato il combustibile esausto per estrarre plutonio in quantità sufficiente per preparare due-cinque bombe atomiche, era un’altra questione insoluta che aggravava i rapporti tra Pyongyang e Washington. La successione al vertice ora rimetteva tutto in discussione.

PERSONAGGIO RIVALUTATO

I giornali di tutto il mondo dipingevano Kim Jong Il esattamente come lo avevano descritto per anni i servizi segreti sudcoreani e statunitensi: un gigolò viziato, totalmente incompetente di economia e politica, quanto esperto di belle donne. Sul suo conto si raccontava che era alcolizzato, amava le macchine sportive, in particolare le Ferrari, con cui scorrazzava per le strade della capitale, divertendosi a investire i pedoni, che possedesse un’intera collezione dei film di 007 e che, per trastullarsi nelle noiose notti nord coreane, faceva rapire belle fanciulle scandinave. Chiaro che, con un leader di questo genere, la Corea del Nord e il mondo intero non avevano di che rallegrarsi. Eppure bastarono pochi mesi perché Kim Jong Il sconfessasse tutti i suoi detrattori, sorprendendo gli analisti: in poche settimane venne firmato un trattato con gli Usa, in cui la Corea del Nord s’impegnava a non proseguire ricerche nucleari, rivolte a scopi militari, e subito dopo cominciò ad aprire spiragli di dialogo con i suoi vicini. I vertici militari, il cui assenso è indispensabile per mantenere saldo il potere in Nord Corea, vennero rimpastati, così pure quelli del Partito dei lavoratori, mentre il carisma del nuovo leader, offuscato da quello del padre, fu rafforzato grazie ad una capillare campagna di propaganda. «In un paese come la Corea del Nord, per salire i gradini del potere non basta avere il pedigree di famiglia – mi dice Noriyuki Suzuki, direttore di Radiopress, l’agenzia giapponese che monitorizza e analizza tutti i dispacci e i comunicati ufficiali di Pyongyang -. La concorrenza al posto di segretario generale del partito era spietata e sarebbe bastato un minimo passo falso perché Kim fosse spodestato. Un pazzo o un burocrate robotizzato non avrebbe certo potuto giocare le sue carte con oculata saggezza come ha fatto lui». Sulla stessa linea è il parere di uno dei maggiori analisti sudcoreani del Nord, Lee Jong Suk dell’Istituto Sejong di Seoul: «Leggendo gli articoli dei mass media occidentali, sembrava che si stesse giocando una partita a scacchi tra concorrenti a cui erano rimasti solo i pedoni, mentre Kim Jong Il aveva a disposizione regina, torri, cavalli e alfieri. In realtà la successione non è mai stata sicura e sono note le divisioni all’interno della famiglia stessa di Kim Il Sung, con la potente alleanza tra la seconda moglie del Grande Leader, Kim Song Ae, che premeva per favorire il suo figlio naturale, Kim Pyong Il, e il fratello di Kim Il Sung, Kim Yong Ju. Il fatto che Jong Il sia riuscito a sconfiggere le opposizioni gioca a favore della sua abilità come politico». Tutto questo, a detta degli stessi osservatori più esperti, dimostra quanto poco si conosca della Corea del Nord e dei suoi politici, al di fuori dei propri confini. La figura di Kim Jong Il, pur continuando a venire dipinta con tinte fosche, viene rivalutata, in particolare in Sud Corea, dove lo stesso Nord non è più visto come un antagonista contro cui combattere, bensì come un interlocutore con cui dialogare e da aiutare. Specialmente ora che la contrapposizione con gli Stati Uniti di Bush rischia di creare tensioni sempre più pericolose nella regione. La recente nuova crisi nucleare, scoppiata in tutta la sua drammatica pericolosità nell’ottobre 2002, con la dichiarazione di Pyongyang di voler riattivare le centrali di Yongbyon e le ricerche nucleari, ha origine dalla decisione di Bush di voler sospendere unilateralmente gli invii di combustibile, sottoscritti dall’accordo del 1994. Seoul, comprendendo la pericolosità della situazione, ha chiamato Pyongyang ai tavoli delle trattative, contravvenendo alle disposizioni della Casa Bianca. E Pyongyang ha risposto.

ECONOMIA DISASTRATA

A livello economico, le riforme suggerite dagli organismi finanziari internazionali e introdotte nel sistema hanno cominciato a creare qualche crepa nel controllo statale della produzione e della distribuzione dei beni di consumo. I tradizionali mercati dei contadini, che ogni decade vengono allestiti nei distretti nordcoreani, se prima erano appena tollerati dalle autorità, oggi hanno una sorta di protezione anche da parte del governo, che ha aumentato anche l’area di terreno a uso privato concesso a ogni famiglia. Nelle fabbriche, almeno le poche che il petrolio, oramai centellinato, permette di far funzionare, i lavoratori si sono visti assegnare salari in base alla produttività. Il problema è che, spesso e volentieri, questa è crollata, non per negligenza degli operai, ma per i numerosi black-out che straziano la continuità lavorativa. Nelle cooperative, i raccolti, dopo anni di carestie, hanno cominciato ad essere abbondanti; ma la micidiale mistura fatta di varie penurie, penuria di mezzi, penuria di parti di ricambio, penuria di carburante, non ha migliorato la situazione alimentare nei villaggi più isolati. I raccolti spesso marciscono sui campi dove sono accumulati per mancanza di mezzi di trasporto. Persino i funzionari governativi di rango più elevato, quelli residenti a Pyongyang, ad esempio, incontrano molte difficoltà nell’espletare i loro impegni. La guida incaricata di accompagnarmi in visita alla Corea, obbligatoria per ogni straniero, mi fa immediatamente capire che la situazione economica è disastrosa e che un eventuale contributo per le spese di benzina è benaccetto, anche se non obbligatorio. La crisi non risparmia neppure l’apparato militare: le forze armate nordcoreane appaiono, anche al profano, deboli, male armate e spesso capita di vedere, lungo le autostrade deserte che si diramano da Pyongyang, mezzi militari in panne o a secco di carburante. Anche a Panmunjom, al 38° parallelo, dove le due Coree si incontrano, i soldati nordcoreani, seppure scelti tra i più robusti e alimentati con razioni più abbondanti rispetto ai commilitoni dislocati nelle zone interne, appaiono piuttosto mingherlini se confrontati con i colleghi sudcoreani. Insomma, quello che gli Stati Uniti continuano a definire il terzo esercito del mondo, pronto ad attaccare il Sud è, in realtà, molto meno temibile e aggressivo di quanto si voglia far apparire.

QUALCOSA STA CAMBIANDO

Del resto il governo, ansioso di ottenere aiuti, non fa mistero della crisi. La prima volta che sono sbarcato in Nord Corea, nel 1996, era difficile far ammettere a un qualsiasi funzionario che il paese era economicamente impantanato e i visitatori venivano convogliati in fabbriche, scuole, ospedali modello.
Poi, piano piano, durante le successive visite, qualcosa è cambiato: altre porte hanno cominciato ad aprirsi. Prima spiragli, poi si sono spalancate, mostrando l’aspetto più reale della nazione: cittadini che spigolano chicchi di riso o grano, che raccolgono legna da ardere per far fronte ai rigidi invei, ospedali regionali privi di medicine, orfanotrofi che ospitano bambini scheletrici.
«C’è stato un periodo in cui si raccoglievano e si mangiavano cortecce, radici ed erbe selvatiche» mi dice Kim Hyoun Ho, direttore del dipartimento europeo del Comitato per le relazioni culturali con i paesi esteri.
Oggi, grazie agli aiuti delle Ong presenti e paesi donatori, la situazione comincia a migliorare, anche se il contrabbando con la Cina continua a rappresentare una pratica comune e chi ha i soldi per corrompere le guardie di frontiera, può importare ogni genere di mercanzia, per rivenderla al fiorente mercato nero. Chi, per lavoro o parentela, può contare su rapporti con l’estero, ha la possibilità di ottenere valuta pregiata, grazie alla quale comprare prodotti importati nei grandi magazzini delle città: stereo, televisori a colori, radio, telecamere, macchine fotografiche, pasta, liquori, vino, abbigliamento.
Con i dollari, euro o yen, c’è solo l’imbarazzo della scelta, e in una società dove, teoricamente, la divisione di classe è ridotta al minimo, sono proprio questi status simbol occidentali a individuare le reali differenze sociali esistenti nel paese.

PIÙ LIBERTÀ RELIGIOSA

Ma i cambiamenti in atto in Corea del Nord non si individuano solo a livello economico o sociale: i diritti umani, che durante gli anni Sessanta-Ottanta venivano calpestati, per lo meno come lo erano al Sud, oggi cominciano ad essere più rispettati.
Le condizioni di vita nei campi di rieducazione (in realtà vere e proprie aree di centinaia di chilometri quadrati, vietate anche ai cittadini liberi nordcoreani e adibiti a ospitare migliaia di prigionieri), sono diventate più tollerabili. Le amnistie, la necessità di nuova forza lavoro e l’attento monitoraggio delle organizzazioni che si occupano di diritti umani hanno indotto e autorità nordcoreane a chiudere numerosi campi e liberarne i detenuti.
Accanto a questi esempi di liberalizzazione, si è parallelamente sviluppata una maggiore libertà religiosa, già avviata, peraltro, alla metà degli anni Ottanta, con l’inaugurazione di nuovi templi buddisti e chiese cristiane, tra cui quella cattolica di Changchung.
Anzi, proprio con il Vaticano il governo di Pyongyang ha mantenuto buoni rapporti. Le organizzazioni di assistenza sociale cattoliche, come la Caritas, Misereor, i monaci benedettini lavorano già all’interno del paese, godendo della stima dei funzionari nordcoreani.
Questa fiducia, riposta principalmente per via dell’assenza di secondi intenti politici a cui sottoporre gli aiuti, rischia però di essere rovinata dalla presenza delle sètte cristiane e buddiste sudcoreane, giapponesi e statunitensi, appostate lungo i confini settentrionali cinesi.
Finanziate dai vari dipartimenti del governo Usa, la maggior parte di queste chiese avvicinano i contrabbandieri nordcoreani dando loro soldi e pacchi viveri da distribuire nei villaggi all’interno della nazione. Si spera, così facendo, di creare un retroterra culturale e religioso adatto per stabilire eventuali chiese e punti di informazione per controllare la reale consistenza del regime.
A Pyongyang e nelle principali città, questo lavoro è affidato a missionari che, camuffati da uomini d’affari, hanno la possibilità di girare in lungo e in largo ampie zone del paese e contattare direttamente le famiglie.
Elargendo generosamente yen e dollari, sembra si siano già creati una rete di proseliti, i cui uomini più fidati sono veri e propri «dormienti», informatori al servizio dei servizi segreti sudcoreani, statunitensi e giapponesi, pronti a uscire allo scoperto e agire, in caso di una sollevazione popolare.

SCONTRO IN VISTA

Un’ipotesi, questa della rivolta, che nessun governo della regione nordorientale dell’Asia si augura, perché la caduta improvvisa del regime di Kim Jong Il destabilizzerebbe, in modo forse irrimediabilmente pericoloso, i fragili equilibri instauratisi tra le varie capitali.
È con questa paura che Seoul e, in misura più timida, Tokyo, hanno mostrato freddezza nei confronti di Bush e della politica da lui intrapresa nella regione. Il Rapporto Armitage, lungo i cui parametri si dipana la ragion di stato della Casa Bianca, afferma testualmente che «se non è possibile giungere a una soluzione diplomatica, è meglio scoprirlo prima che dopo, per proteggere meglio i nostri interessi di sicurezza. Se la Corea del Nord non lascia altra scelta che il confronto, questo deve essere giocato secondo i nostri termini, non i loro».
Questo confronto coinvolgerebbe anche la Cina, la quale è una potenza fondamentale in Asia. Il ruolo che il Rapporto Armitage affida a Pechino, però, preoccupa gli alleati USA:
«Nessun approccio con la Corea del Nord può essere vincente, se non ci si assicura la cooperazione con la Cina. Pechino deve capire che sarà punita per il fallimento o sarà premiata per la sua cooperazione». E ancora: «La cooperazione attiva della Cina è vitale e dato che Cina e Usa dividono comuni interessi nella penisola coreana, ci si aspetta che la Cina agisca in maniera positiva. Nel caso scoppi un conflitto, come risultante di una inadeguata cooperazione, Pechino dovrà assumersene la responsabilità».
Con queste premesse, appare chiaro che il futuro dell’Asia nordorientale è più nelle mani dei governanti di Washington che dei paesi interessati ad un eventuale conflitto.

Scheda Corea del Nord

Superficie: 122.762 Kmq (meno della metà dell’Italia)
Popolazione: 24.039.000 (2000)
Gruppi etnici: coreani, cinesi (0,2%)
Capitale: Pyongyang
Religione: buddisti, confuciani, cattolici
Tasso alfabetizzazione: 95%
Ordinamento politico: repubblica socialista dinastica guidata (dal luglio 1994) da Kim Jong Il, figlio di Kim Il Sung
Economia: l’industria è in grave crisi, anche a causa dell’isolamento internazionale; il paese gode di una buona dote di risorse minerarie; l’agricoltura (riso, mais, frumento), arretrata e colpita da calamità naturali (inondazioni e siccità), non copre le necessità interne, tanto che la carestia è cronica Sotto la soglia di povertà: non esistono cifre ufficiali
Relazioni interazionali: dal giugno 2000 sono in corso colloqui con la Corea del Sud, mentre rimangono tese le relazioni con gli Stati Uniti; per le relazioni economiche è importante il vicino Giappone.

Piergiorgio Pescali

 



DOVE OSANO GLI AQUILOTTI

ROVERETO (ITALIA)la «Consolata trentina»
Quando i missionari
della Consolata arrivarono
in Trentino per fondarvi
un seminario, nel 1925,
ad attenderli c’era
la «Consolatrice»,
venerata nel santuario
della Madonna del Monte,
di cui si celebra
il 4° centenario.
Da questo luogo oltre 150,
tra sacerdoti, fratelli,
suore e volontari laici
hanno spiccato il volo
per le missioni
della Consolata in Africa
e America Latina.

C’era una volta… un «capitel».
Così veniva chiamato in
dialetto trentino il pilone
con l’immagine della Madonna, costruito
a metà strada sulla via montana
che unisce Lizzana e Rovereto.
Ne fa menzione, per la prima volta,
Domenico Porta, in un atto notarile
del 21 gennaio 1485. Vi sorgeva accanto
un romitaggio, dove viveva in
preghiera e penitenza frate Pietro,
un domenicano bavarese.
Poi, per oltre un secolo, il capitel
fu dimenticato dalla «storia» e trascurato
dalla gente: rovi ed erbacce
d’ogni genere erano cresciute tutto
attorno, fino a nasconderlo agli occhi
dei passanti… fino al 1602.
Un giorno, all’inizio di quell’anno,
un certo Andrea
Rossi, di Rovereto, si sentì
interiormente invitato a salire fino al
capitel. Benché non si reggesse bene
in piedi, essendo da vari anni sofferente
di artrosi deformante, arrancò
con le stampelle fino a quel luogo, si
aprì a fatica un varco tra gli arbusti
e si trovò di fronte all’immagine
sbiadita della Madonna.
Subito fu preso da commozione e
da una nuova ispirazione: «Se solo
avessi un po’ di forza – pregò rivolto
all’immagine – taglierei tutti questi
rovi e farei restaurare questa nicchia».
Non aveva finito di pregare che
sentì tornare in sé le forze, gettò a terra
le grucce e cominciò a gridare
«grazie» alla Madonna. Piangendo
di gioia, corse a casa ad abbracciare
i familiari.
Il fatto prodigioso si sparse in un
baleno: la gente di Rovereto aiutò il
signor Rossi a ripulire il luogo e restituire
alla vista dei passanti la «columna
lateritii operis… pictura certe
non rustica… colores jam jam evanescentes
», come la descriveva il gesuita
padre Gumpperberc (colonna in
mattoni, pittura per niente rustica…
colori evanescenti).
Per restaurare immagine e colonna,
il signor Rossi si rivolse a un suo
amico pittore, un certo Giovanni di
Rovereto, detto «Giona». All’inizio
questi ricusò l’incarico, poiché una
contrazione di nervi alla mano destra
gli impediva di usare il pennello. Ma
poi, più per la devozione alla Madonna
che per guadagno, si mise all’opera.
Al primo tocco di pennello
si accorse di maneggiarlo con fermezza,
sicurezza e agilità, come se la
mano non fosse stata mai malata.
Anche questa notizia si propagò
rapidamente a Rovereto e nei dintorni.
Il capitel cominciò ad essere
meta di pellegrinaggio, sia per curiosità,
sia per chiedere conforto alla
Madonna. Tra i pellegrini ci fu pure
una nobil donna roveretana, Domenica
Millana, da tanti anni affetta
da cecità completa: fattasi accompagnare
dai domestici, la donna raggiunse
il capitel, si prostrò davanti all’immagine
della Vergine e pregava
con tanta fede e fiducia da commuovere
i presenti.
Improvvisamente si mise a gridare:
«Miracolo! Ci vedo! La Madonna
mi ha guarita». La gente che
poc’anzi piangeva di compassione,
ora versava lacrime di gioia e si stringeva
intorno alla miracolata.
Tali guarigioni suscitarono scalpore
in tutta la Val Lagarina e attirarono
l’attenzione dell’autorità ecclesiastica.
Il parroco di Lizzana,
don Alessio Tomasi, sotto la cui giurisdizione
era il luogo dei miracoli,
fu nominato «commissario» dell’inchiesta
per appurare la veridicità dei
fatti. Ne uscì così convinto, che la
sua relazione fu approvata dal vescovo
e lui stesso si diede da fare per
proteggere il luogo sacro.
Il capitel fu subito circondato da una
protezione in legno; poi, nell’autunno
dello stesso anno 1602, fu iniziata
la costruzione di una cappella
in muratura e di un altare davanti alla
sacra immagine.
Ben presto la Madonna del
Monte, come cominciò a essere
chiamata l’anonima icona,
diventò il centro della devozione
di tutta la Val Lagarina e altre valli
confluenti. I devoti accorrevano numerosi,
specie nelle feste mariane,
tanto che la cappella non poteva più
contenerli. Con l’aiuto della gente,
di alcune famiglie facoltose e il contributo
della curia di Trento, la cappella
fu ulteriormente ampliata, raggiungendo
la grandezza attuale. Nel
1607 l’opera era compiuta.
Da quell’anno il capitel diventò meta
di numerosi pellegrinaggi, tanto da
richiedere la presenza di una comunità
religiosa per la cura del santuario
e l’assistenza spirituale dei fedeli.
Fu contattato un gruppo di minori
riformati, ma la loro presenza fu contestata
dai frati già presenti a Rovereto,
che non vedevano di buon occhio
l’arrivo di altri concorrenti.
Intanto la gente accorreva a chiedere
grazie alla Madonna, specie durante
il tristissimo periodo della peste
(1630), tappezzando le pareti della
chiesa di ex voto per grazie
ricevute. Nel 1636 il vescovo di
Trento si recò in visita pastorale alla
popolazione di Rovereto e ne approfittò
per consacrare il santuario
della Madonna del Monte.
Nel frattempo, accanto al santuario,
i parrocchiani di Lizzana avevano
fatto costruire una casetta per il
cappellano che si recava a celebrare
la messa per i pellegrini. Ma la sua
presenza saltuaria non era più sufficiente:
bocciata l’idea di un convento,
si ripiegò sulla fondazione di un
«romitaggio».
A partire dal 1640 la casa del cappellano
fu occupata da due o tre eremiti
che, vivendo con i proventi
della questua e del proprio lavoro,
provvedevano alla cura spirituale del
santuario.
Nel 1650, il parroco di Lizzana,
don Domenico Lunardelli, decise,
assieme al popolo, la costruzione
dell’attuale artistica facciata, assegnando
l’opera allo scultore Sartori
da Castione, su disegno dell’ingegnere
Giovanni Scottini da Lizzana.
Nei primi decenni del secolo XVIII
fu posta, alla base del pilone, una lapide
con la scritta che toglieva la Madonna
del Monte dall’anonimato:
«Dedicato alla beata vergine Maria,
Consolatrice degli afflitti». Negli anni
seguenti Orlando Fattori da Desenzano
affrescò le pareti del presbiterio
con le raffigurazioni che si
vedono attualmente; poi toccò alle
pareti laterali della navata e alla volta,
nel cui grande ovale fu dipinta
l’assunzione della Vergine. Lo stesso
pittore, tra il 1760 e il 1770, abbellì
la facciata con un’esuberante decorazione
barocca.
Al tempo stesso, l’artista Marco
Marini da Crossano rifece il pavimento:
«Un ricamo di fine marmo
bianco, con intarsi di diversi colori»,
come lo descrisse uno storico dell’epoca.
Intanto una fosca nube scendeva
dall’Austria: l’imperatore Giuseppe
II (1741-1790) cominciò a
ficcare il naso nella vita della chiesa,
meritandosi il nomignolo di «re sacrestano
»: soppresse molti pellegrinaggi,
feste, confrateite; proibì la
recita del rosario in pubblico; chiuse
diversi conventi, monasteri, romitaggi
e santuari, allontanandone i religiosi
e confiscandone i beni.
Un decreto del 1786 colpì anche il
romitaggio e il santuario della Madonna
del Monte, incamerati dal comune
di Rovereto e subito messi all’asta.
Il primo bando andò a vuoto:
nessuno si fece avanti per comperare
il santuario e i beni annessi; a un
secondo, nel 1788, li comperò un tale
Valentino Gasperini di Villa Lagarina,
per 850 fiorini, una ventesima
parte del valore reale.
Egli si limitò a coltivare il terreno
e abitare nella casa degli eremiti.
Forse voleva riaprire al culto il santuario,
ma la legge lo proibiva e, dopo
un anno, rivendette tutto a un
certo Giuseppe Grandi, uomo senza
scrupoli, che spogliò la chiesa degli
arredi più preziosi e vendette i
due altari laterali.
Anche quello centrale stava per essere
asportato, quando intervenne la
gente di Rovereto: una notte di fine
febbraio 1790, uomini bene armati
salirono al Monte, presero possesso
della chiesa, riordinarono l’altare, accesero
lumi all’interno e fuochi all’esterno,
segnalando alla città e ai paesi
vicini la riapertura del santuario.
I soldati imperiali e le autorità civili,
senza intervenire con la forza,
concordarono con i preti della zona
di riaprire la chiesa al pubblico, con
una grande festa, celebrata il 6 marzo
1790.
Intanto il santuario, «con annessi
e connessi», fu riscattato da altri
compratori e, nel 1794, passò totalmente
nelle mani della nobile famiglia
Tacchi. Il nuovo proprietario si
diede subito da fare per avere il permesso
di riaprire la chiesa al culto
pubblico, per restaurare l’edificio
saccheggiato e provvedere un cappellano
stabile, che si curasse dell’assistenza
spirituale di fedeli e pellegrini.
Ma solo nel 1829 arrivò il primo
cappellano, nella persona di don
Valentino Zampiccoli.
Sotto l’attenzione della famiglia
Tacchi e con la presenza di un cappellano
stabile, la Madonna del
Monte diventò uno dei più importanti
e venerati santuari del Trentino.
Per oltre un secolo la Madonna continuò
a consolare, asciugare lacrime
e ascoltare i sospiri di generazioni di
devoti, che ricambiavano favori e
grazie ricoprendo le pareti della
chiesa di dipinti, ricordi, documenti
ed ex voto svariati e suggestivi.
Alla vigilia dello scoppio della prima
guerra mondiale (1914), Rovereto
si affidò, con una solenne processione,
alla protezione della Vergine;
poi ci fu una dispersione generale.
Anche il rettore del santuario, don
Francesco Menapace, fervente irredentista,
dovette scappare, per non
cadere nelle mani degli austriaci e finire
sulla forca, come il compaesano
Damiano Chiesa.
Nel furore delle battaglie combattute
nella zona, il santuario fu colpito
da varie granate, che ne sfondarono
il tetto, distruggendo l’affresco
della volta e gli ex voto che coprivano
le pareti laterali.
Finita la guerra iniziarono i lavori
di restauro; ma soltanto nel 1937 il
cav. Giovanni Tacchi commise il rifacimento
degli affreschi. E sopravvenne
la seconda grande guerra, che
sfondò il tetto una seconda volta. Tra
le macerie, rimasero incolumi il presbiterio
e il capitel.
Nel frattempo, la cura del santuario
era passata nelle mani dei missionari
della Consolata, che ne curarono
i restauri e lo riportarono agli
splendori di arte e di fede del secolo
XVIII.
Correva l’anno 1925. Mons.
Filippo Perlo, vice generale
dei missionari della Consolata,
aveva esteso il reclutamento di vocazioni
a tutta l’Italia e cercava luoghi
strategici in regioni promettenti.
Il Trentino era una di esse.
I padri incaricati della ricerca,
Giuseppe Gallea e Francesco Gamberutti,
dopo vari tentativi, stavano
per arrendersi, quando il sig. Cesare
Tommasini, direttore dell’Ufficio di
propaganda missionaria di Rovereto,
e la zelante sorella Amelia suggerirono
di stabilirsi nel santuario della
Madonna del Monte, da dieci anni
senza cappellano.
Fu grande la sorpresa dei due missionari,
quando, prendendo visione
del luogo, lessero l’iscrizione sotto la
nicchia: «Dedicato alla beata Vergine
Consolatrice». Si trovarono subito
a casa. Fu firmato con la famiglia
Tacchi un contratto di affitto per 25
anni; il 7 luglio 1925 il vescovo di
Trento diede l’autorizzazione per aprire
la casa religiosa; il 21 dello stesso
mese arrivarono il padre Umberto
Bessone, direttore, e il chierico
Lorenzo Gaudissard, «propagandista» e formatore.
Era quella la prima casa che i missionari
della Consolata aprivano
fuori del Piemonte. L’apprensione era
naturale. Ma, quando il padre
Bessone, alla vigilia della partenza da
Torino, andò a salutare il padre fondatore,
l’Allamano lo rincuorò così:
«Devi andare a Rovereto volentieri,
perché la Madonna del Monte è venerata
in quel santuario proprio col
titolo di Consolatrix afflictorum, l’identico
titolo della nostra Consolata.
È quindi semplicemente un cambiamento
di nome, ma sempre nella
casa della stessa madre».
All’inizio di settembre di quello
stesso anno, l’antico romitaggio risuonava
della voce di una dozzina di
ragazzi trentini, «un nido di aquilotti
– scriveva uno storico di quegli anni
– che, all’ombra del santuario e
scaldati dall’amore della nostra Madonna,
si apprestano a spiccare il volo
in lontane contrade ultramarine,
per portare la lieta notizia che Cristo
è nato anche per loro».
Nel centro di reclutamento o, come
si diceva a quei tempi, «casa apostolica
», gli allievi venivano soltanto
«accettati e disgrossati, ossia aiutati a
comprendere cosa significava diventare
missionari della Consolata e preparati
ai corsi ginnasiali nella casa
madre di Torino». Una ventina d’anni
dopo il centro fu trasformato in vero
e proprio seminario.
Le fatiche e speranze furono subito
premiate: a 11 anni di distanza, nel
1936, 12 «aquilotti» trentini furono
ordinati sacerdoti e tre fratelli fecero
la professione religiosa, pronti a
spiccare il volo verso «le lontane
contrade ultramarine»; il primo fu
padre Ruggero Angheben, partito
per le missioni del Kaffa (Etiopia) alla
fine dello stesso anno.
Dopo 78 anni di presenza alla Madonna
del Monte, i missionari della
Consolata contano nelle loro file 66
trentini, tra padri e fratelli (37 hanno
già spiccato il volo per il cielo) e
altrettante suore. E continuano ad animare
la chiesa trentina
nell’amore alla Madonna
e alla missione.

Benedetto Bellesi




TANZANIA come cambiare il sistema economico?

«POVERI, SALVIAMOCI A VICENDA!»
Oro, diamanti e pietre preziose non mancano.
Ma dove finiscono i loro proventi?
A quanto ammontano?
Come vengono investiti?…
A dispetto delle ricchezze, la povertà penalizza
soprattutto i villaggi, dimenticati dallo stato.
Per risolvere i problemi, si fa strada una nuova strategia,
fondata sulla «concorrenza» degli stessi poveri.
L’apporto della chiesa è oggi più che mai necessario.

La chiesa cattolica deve puntare
su nuove strategie per aiutare
la popolazione a superare
la grave situazione economica del
Tanzania e valorizzare le ricchezze
del suolo.
Questa dichiarazione è stata fatta
da alcuni professori dell’università
di Dar es Salaam, insieme ad altri intellettuali,
nel Simposio internazionale
organizzato dalla Commissione
«Giustizia e pace» della Conferenza
episcopale del Tanzania.
Il Simposio, con lo slogan «Poveri,
salviamoci a vicenda!», ha approfondito
i problemi della povertà
e dello sgretolamento dell’associazionismo
che incombe sulla popolazione,
nonostante che il Tanzania
sia una nazione tranquilla, dove regna
la pace e con un’unica lingua, lo
swahili.
Il professore Haji Semboya ha dichiarato
che la chiesa ha vaste possibilità
di animare la gente, specialmente
i più poveri, affinché prenda
coscienza dei suoi diritti e delle sue
capacità di migliorare la situazione.
Il docente ha stimolato i vescovi cattolici,
con il cardinale Polycarp Pengo
in testa, a collaborare nell’educare
la popolazione, perché la chiesa è
parte del popolo del Tanzania. Il suo
apporto è oggi più urgente che in
qualsiasi altro periodo della storia.
Le difficoltà sociali non dipendono
dalla mancanza di risorse, ma dal
cattivo sistema economico: un sistema
ritenuto da tanti incapace di
produrre e distribuire beni alla maggioranza
dei cittadini.
A parere di Haji, in Tanzania abbondano
oro, diamanti, nonché la
pietra preziosa tanzanite, superando
molti altri paesi; però l’economia
dipende troppo dagli aiuti estei,
che comportano vincoli ed anche
«trappole» da parte di coloro che
concedono prestiti.
Nazioni come Botswana, Australia
e Sudafrica possiedono minerali
e operatori nel settore; però questi
paesi hanno accordi «societari» e,
perciò, i guadagni vengono ripartiti
fra tutti i soci, mentre il Tanzania incassa
solo tasse fiscali.
Haji ha sfidato i partecipanti all’incontro
con la seguente domanda:
«Chi conosce la quantità d’oro,
diamanti e tanzanite che ogni anno
si produce nel paese?». L’interrogativo
ha destato scompiglio, supposizioni
e dubbi. Ma nessuno ha saputo
dare risposte certe.
Un corrispondente del settimanale
cattolico Kiongozi,
giunto al Ministero delle miniere,
non è riuscito a contattare il
commissario ad hoc per conoscere il
quantitativo di minerali estratti in
Tanzania e quanto il paese si avvantaggi
dei giacimenti affidati a privati,
sia tanzaniani sia stranieri. Tuttavia
alcuni addetti dello stesso Ministero
hanno risposto che i dati sono
in elaborazione e che saranno notificati.
Ma finora non si è saputo nulla.
I delegati al Simposio hanno pure
denunciato che, negli accordi del
settore minerario, i cittadini non godono
di alcuna partecipazione e sono
tenuti all’oscuro di tutto.
Un impiegato del Ministero delle
miniere (non ha voluto rivelare il nome)
al giornalista di Kiongozi ha ricordato
che gli accordi sono segreti:
«Sai… tutti i contratti lo sono, ma
specialmente quelli in campo commerciale.
Nessuno vuole che la gente
conosca troppo da vicino l’ammontare
del suo capitale e l’andamento
del business!».
Damian Dalu, vescovo di Geita, a
chi gli ha chiesto informazioni sul
pagamento versato alle popolazioni
espropriate delle loro terre (ricche
di minerali) e trasferite altrove, ha risposto
laconicamente: «È uno scandalo.
Nessuno sa niente!». Ma l’affermazione
del vescovo contrasta
con quanto ha prospettato un direttore
distrettuale dello sviluppo, il
quale in un suo rapporto si è dimostrato
soddisfatto del risarcimento
pagato ai contadini e del progresso
realizzato dagli investitori nel distretto.
I partecipanti al Simposio hanno
aggiunto un’altra amara osservazione, e cioè: anche quando è evidente
che gli accordi penalizzano i cittadini,
non si fa nulla per modificare
la situazione, perché i contratti
firmati sono considerati «parola sacrosanta
di Dio».
Il professore Mkandala, dell’università
di Dar es Salaam, ha ricordato
che molte direttive sui
piani di sviluppo nazionale vengono
prese dal governo centrale; la loro
applicazione dovrebbe riguardare i
villaggi, ma in loco non si arriva mai.
Il docente ritiene che ai tanzaniani
non serve un’economia retta dalle
leggi del mercato neoliberista, poiché
non hanno strumenti per parteciparvi.
Rispetto al potere centrale, la chiesa
è in una posizione migliore, perché,
data la sua organizzazione decentrata
(diocesi, parrocchie, cappelle),
raggiunge anche i gruppi più
piccoli, sparsi nei villaggi. Mkandala
ha concluso: «Nel distretto è all’opera
un ottimo servizio scolastico;
esistono buone direttive e validi
strumenti per l’uso e il risparmio di
denaro (banche). Nello stesso tempo
nel distretto vivono migliaia di
coltivatori, sparpagliati in numerosi
villaggi: sono questi che devono essere
aiutati ad entrare nei programmi
economici del libero mercato. In
Tanzania la spina dorsale dell’economia
resta l’agricoltura».
Al termine del Simposio internazionale,
che ha visto personaggi di
Tanzania, Uganda, Kenya, Botswana,
Eritrea, Regno Unito, Germania,
Belgio e Olanda, i delegati hanno elaborato
alcune proposte da presentarsi
al presidente del Tanzania,
Benjamin William Mkapa.
Le proposte evidenziano soprattutto
un dato: gli sforzi per superare
la povertà non saranno mai efficaci
se gli stessi poveri, che vivono
nei villaggi e nei quartieri periferici,
non saranno fatti partecipi delle decisioni
generali che riguardano la loro
vita.
Nel consegnare le proposte al
presidente della repubblica
Mkapa, il professore Beda
Mutagahywa ha dichiarato: «Ecco le
conclusioni salienti, elaborate insieme,
sui problemi e modi di combattere
la povertà. In questo paese c’è
bisogno estremo di progetti pubblici
e di servizi sociali: servizi a favore
della popolazione, rivolti con maggiore
precisione e determinazione
soprattutto alla massa dei diseredati:
donne, bambini, giovani e anziani;
handicappati, carcerati, prigionieri
in attesa di giudizio, persone
vittime di credenze antiquate».
Si è pure ribadita la necessità di
rinnovare gli strumenti di potere, di
valutare la loro efficienza nei vari distretti
per renderli più efficaci, di
accertare che i progetti di sviluppo,
destinati al popolo, siano concretamente
realizzati.
Chiudendo il Simposio, il presidente
Mkapa ha affermato che i tanzaniani
dovranno lavorare con maggiore
energia, perché il lavoro è il
primo mezzo per vincere la povertà.
Ha aggiunto che i bisogni hanno
tante facce e voci; ecco perché è necessario
l’apporto di tutti: dal governo
ai singoli, dagli apparati pubblici
alle organizzazioni non governative.
Il fatto che i poveri aiutino se
stessi non è solo un’alternativa per
rispondere ai bisogni, ma anche una
chiamata rivolta a tutti per lavorare,
per avere nuove idee dalla base e cogliere
«l’assoluto della vita».
È certo determinante chi entra
nella guerra contro la povertà; ma lo
è anche il modo, giorno dopo giorno.
«Nel caso in cui un bisognoso ne
aiuti un altro, entrambi dovranno
sostenersi a vicenda nel cercare i
mezzi per superare la povertà, non
per condividerla… dipendendo
passivamente uno
dall’altro».

(*) Missionario della Consolata
in Tanzania per molti anni,
padre Giovanni Medri si è avvalso
di un «reportage» di Kiongozi
(23/29 novembre 2002),
settimanale cattolico nazionale
in lingua swahili.

PARTENDO DAL BASSO
Le proposte del Simposio
al presidente della repubblica Benjamin W. Mkapa

SIGNOR PRESIDENTE,
grazie di averci onorati della sua presenza
per raccogliere i frutti del nostro
Simposio. Lo scopo è stato la ricerca
di soluzioni e programmi per
aiutare i poveri.
Le seguenti proposte sono della Commissione
«Giustizia e pace» dei vescovi
cattolici del Tanzania e dei partecipanti
al Simposio, provenienti da
varie fedi del nostro paese e di altri
paesi dell’Africa e dell’Europa.
Ci piace ricordare che tutti hanno offerto
il loro contributo gratuitamente,
pagandosi anche il viaggio.

1. LA BASE PER LO SVILUPPO
È importantissimo tener presente che
la base di ogni sviluppo è l’uomo. Di
conseguenza tutte le iniziative per
sconfiggere la povertà devono partire
dalla persona, nella sua dignità, e
abbracciare l’intera umanità. Ciò significa:
accettare tutte le cose che
sono a vantaggio delle persone, di
tutti noi. È necessario accettare con
entusiasmo la cooperazione sociale.
Inoltre è necessario riconoscere che i
beni della terra, la nostra vita stessa
e le nostre diverse capacità sono dono
di Dio.
Noi, appartenenti a religioni diverse,
viviamo a contatto con il popolo e,
perciò, ne conosciamo i bisogni e anche
le soluzioni idonee al progresso.
È di grande importanza rinnovare le
strategie di sviluppo partendo dal
basso, per unire le strategie dall’alto.
È vitale irrobustire gli sforzi che si
compiono nei villaggi: è questa l’azione
dal basso.
Vi sono segni che fanno pensare ad uno
sgretolamento della cooperazione
sociale. Tali segni ci preoccupano. Allora
riteniamo di dover offrire la nostra
opera per l’unità del paese, operando
con i diseredati.

2. I SERVIZI ALLA SOCIETÀ
Molti servizi sociali arrivano fino al
gradino del distretto, ma non a quello
del villaggio. Bisogna rivedere gli
strumenti di governo, per accertare se
i progetti di sviluppo, a partire dall’alto,
giungano alla base. Occorre che
le direttive dei pubblici poteri siano
efficaci e siano controllate nei villaggi
dagli abitanti interessati.
In generale abbiamo scoperto che c’è
un vuoto tra distretti e villaggi. Tale
vuoto deve essere colmato, affinché
la popolazione abbia maggiori vantaggi
dai programmi messi in campo
dal governo. Siamo pronti a lavorare
per colmare il vuoto.
Sappiamo che la cooperazione dei cittadini,
a livello di base, non è facile,
poiché tocca campi diversi. Noi siamo
disponibili a cornoperare con il governo
per cercare i migliori metodi.

3. L’ISTRUZIONE
È necessario rivedere il nostro sistema
educativo e la sua efficienza, per
accertare se coloro che terminano le
scuole sono preparati all’azione e ad
incrementarla. L’educazione all’indipendenza,
associata alla creatività e
responsabilità personale verso la società,
deve essere fortemente inculcata.
Nei villaggi si insista su un insegnamento
diligente, favorendo le
scuole artigianali e le nuove tecnologie.
Noi continueremo a cornoperare per una migliore istruzione, per la formazione
artigianale e di nuove tecniche.

4. IL CAMBIAMENTO MENTALE
È penoso scorgere nei villaggi «una
mentalità di dipendenza» nelle opere
di sviluppo, come pure fra i leaders locali.
Dall’esterno, non si apprezzano
le risorse che i poveri possono offrire.
Mancano di partecipazione.
In tale situazione gli sforzi per cambiare
devono essere fatti con la partecipazione
del governo, delle associazioni
religiose e degli stessi abitanti.
È doveroso ricordare che un
posto di responsabilità non è un luogo
per arricchirsi.

5. LE RISORSE NATURALI
L’impiego delle risorse naturali e la loro
privatizzazione riguardano l’intera
nazione. I cittadini hanno diritto di
conoscere come vengono usati i beni.
Perciò è molto importante far conoscere
ai cittadini i progetti di sviluppo,
per associarli in modo più consapevole.
La compartecipazione e una
migliore chiarezza faranno diminuire
i conflitti nella società.

6. VALUTARE IL LIBERO MERCATO
È urgente che il governo valuti i risultati
del sistema del libero mercato,
specialmente tra i poveri. In ogni ambito
si verifichi, il più possibile, se sono
rispettati i diritti fondamentali dei
lavoratori. Il mercato libero, se non è
ben controllato dal governo, finisce
per opprimere maggiormente i bisognosi.
Essi vanno protetti con trasparenza.

7. I PIÙ VULNERABILI
Urgono servizi nazionali e locali, come
pure inteazionali, che vengano
incontro con maggiore attenzione alle
categorie più vulnerabili nella società:
donne, bambini, giovani, vecchi;
e inoltre: portatori di handicap,
quelli in custodia preventiva e in carcere,
quelli legati a credenze e abitudini
ancestrali.
È necessario costruire la società di
tutti, senza esclusioni. I disabili ricevano
i servizi necessari e siano inseriti
nella società, nella scuola e nel
lavoro senza discriminazioni. I diritti
dei detenuti siano rispettati, come
quelli di tutti.

8. I RIFUGIATI
La presenza di molti rifugiati in Tanzania
non solo mette in pericolo la sicurezza
del nostro popolo, ma interferisce
nello sviluppo delle regioni di
confine, dove chi è già povero deve
portare anche il peso di altri poveri.
La comunità internazionale cerchi le
strategie per porre fine ai conflitti
nella regione dei Grandi Laghi, come
ha fatto per Timor Est e Bosnia.

9. I MALATI DI AIDS
Ci si impegni di più per indurre la popolazione
a combattere l’Aids, anche
nei villaggi. Ci si preoccupi dei colpiti
da Hiv, che possono contagiare altri
a causa anche di credenze distorte
e abitudini antiche.
Siano protetti dal governo e dalla società.
Noi ci uniremo maggiormente
all’autorità pubblica per scongiurare
questi mali fra la nostra gente.

SIGNOR PRESIDENTE,
nel Simposio abbiamo capito che l’azione,
partendo dal basso della società,
ci aiuterà ad eliminare la povertà
molto più in fretta rispetto al
passato. La chiesa cattolica e le altre
comunità religiose sono pronte a collaborare
ancora di più col governo.
Invitiamo l’esecutivo ad essere più disponibile
per accordarsi con tutti per
il bene del popolo, specialmente nei
villaggi dove i leaders religiosi sono
più vicini alla gente e godono di familiarità.

mons. Paul Ruzoka,
vescovo di Kigoma e presidente
della Commissione «Giustizia e pace»
prof. Beda Mutagahywa,
animatore dei gruppi
di discussione del Simposio

Giovanni Medri




SE NON AVESSE DETTO «GUAI A VOI, RICCHI!»…

Caro direttore, da un suo editoriale apprendo che,
ogni anno, 40 milioni di persone muoiono di fame,
mentre tante vacche europee ricevono… un sussidio
giornaliero di 2,20 euro. Che vergogna!
La parola di Dio interpella tutti i credenti. La fede
deve mettere in discussione anche le nostre scelte economiche,
come pure l’uso dei beni personali e comunitari.
Nel vangelo Gesù dichiara: «Chi non rinuncia
a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo»
(Lc 14, 33).
Ho letto un libro che illustra «la chiamata dei cristiani
alla povertà». È il libro di CARLO MIGLIETTA, CONDIVIDERE
PER AMORE, Gribaudi, Milano 2003.
L’autore riporta anche la testimonianza di Arturo
Paoli, «piccolo fratello» per anni fra i poveri dell’America
Latina. Il missionario, riflettendo sull’impatto
che Gesù ebbe nell’uditorio con il suo «guai a voi,
ricchi!», pone un’inquietante domanda: «Chi è stato
messo al bando della società israelita, chi è stato crocifisso:
il Cristo delle beatitudini o il Gesù delle maledizioni?
Se Gesù avesse detto solamente “beati voi
poveri!” e non avesse aggiunto “guai a voi, ricchi!”,
sarebbe stato messo in croce?» (Ivi, pag. 86).
Il libro è in sintonia con gli ideali di Missioni Consolata.
È dedicato a padre Silvano Sabatini, vostro
missionario fra gli indios di Roraima (Brasile).
Caro direttore, «Condividere per amore» merita una
bella presentazione.

Una bella presentazione? Certamente, ed è la sua,
signor Agostino. Noi aggiungiamo che Carlo Miglietta,
medico, padre di famiglia e biblista, ha scritto pure:
«L’evangelo del matrimonio. Le radici bibliche della
spiritualità matrimoniale», «Perché il dolore? La risposta
della Bibbia», «La famiglia secondo la Bibbia.
I fondamenti della vita
matrimoniale». Volumi
tutti editi da Gribaudi.
«Condividere con amore» è
reperibile anche presso la
LIBRERIA «MISSIONI CONSOLATA», Via Cialdini 2/a –
10138 Torino;
tel/fax 011 447 66 95;
e-mail: libmisco@tin.it
Il dottor Miglietta cede i
proventi, derivati dai diritti
di autore, in favore degli
indios di Roraima.

AGOSTINO BERNARDI




A scuola di pace

Signor direttore,
le sottoponiamo la lettera
che, quali insegnanti della
scuola elementare di Cutrofiano
(LE), abbiamo
rivolto al presidente della
Repubblica italiana e al
presidente del Consiglio
dei ministri.
«Signor presidente,
le scriviamo nel nostro
ruolo sociale di formatori
e di educatori. Da alcuni
anni, sollecitati anche dal
Ministero della pubblica
istruzione, siamo impegnati
a educare le nuove
generazioni ai valori della
pace, della giustizia, della
salvaguardia dell’ambiente
e della convivenza
pacifica. Cerchiamo con i
nostri alunni di cogliere
l’importanza delle altre
culture e tradizioni religiose,
che nella loro diversità
domandano attenzione,
rispetto e valorizzazione.
Dovendo affrontare gli
inevitabili conflitti interni
o estei alle nostre
classi, ci alleniamo quotidianamente
in uno stile
educativo che privilegia
l’ascolto, il dialogo, l’analisi
delle «ragioni» di ciascuno,
per arrivare ad un
accordo, un’intesa, un
compromesso accettabile
e garante del rispetto di
tutti.
Insegniamo ai nostri
ragazzi il rispetto delle istituzioni
nazionali e inteazionali,
sostenute
esse stesse da leggi che
dovrebbero tutelare il
bene del singolo e della
collettività.
Abbiamo capito la fondamentale
importanza
della conoscenza e del rispetto
dei diritti umani,
che l’Onu è chiamata a
tradurre in scelte politiche
ed economiche da
proporre ai singoli stati,
perché diventino regole
di vita sociale.
Per questi motivi, riteniamo
doveroso manifestare
DISSENSO ad ogni
scelta del nostro paese
che voglia perseguire il
rispetto del diritto attraverso
l’uso della forza e
della violenza delle armi.
Condividiamo l’opinione
di quanti sostengono
che è finito il tempo di
giustificare la forza, mentre
occorre impegnarsi
per rafforzare la giustizia.
Gli insegnanti
della scuola elementare
di Cutrofiano – LE
(seguono 15 nominativi)

AAVV