UN SEME CHIAMATO… AMICIZIA

mons. Giovanni Battista Pinardi,
ausiliare di Torino ai tempi
del beato Giuseppe Allamano,
stretto amico di mons. Filippo Perlo
e di altri missionari della Consolata,
è in corso il processo di beatificazione.

«Il buon seme è gettato; fecondato
da tante fatiche,
dolori e illimitata fiducia in
Dio, fruttificherà il cento per uno».
Così si esprimeva il cuore di un vescovo,
mons. Giovanni Battista Pinardi,
che si apriva alla confidenza di
un altro vescovo, mons. Filippo Perlo,
primo successore del beato Giuseppe
Allamano alla guida dell’Istituto
dei missionari della Consolata.
L’indizio di un sincero legame tra
i due grandi pastori del secolo scorso
ci viene offerto dalla lettera di felicitazioni
che mons. Pinardi scrisse
al Perlo nell’agosto 1945, in occasione
del giubileo sacerdotale di
quest’ultimo.
Parroco e ausiliare di Torino il primo
(1880-1962), missionario e vicario
apostolico del Kenya il secondo
(1873-1948), che cosa alimentava
l’amicizia di questi due vescovi, così
differenti tra loro per stile ed esperienza
pastorale concretamente vissuta?

La loro amicizia
cominciò ai tempi degli studi nel seminario
di Torino. Nato a Castagnole
Piemonte (TO) il 15 agosto
1880, Giovanni Battista Pinardi era
di sette anni più giovane del Perlo,
nato nel 1873 e ordinato prete nel
1895.
Il loro legame continuò anche
quando il Perlo, dopo un breve periodo
di attività pastorale e servizio
come economo al santuario della
Consolata, entrò tra i primi nell’Istituto
missionario fondato dall’Allamano.
In occasione del suo invio in
Kenya, nella prima spedizione missionaria,
l’allora giovane chierico Pinardi
partecipò come cantore alla
celebrazione della partenza.
Ordinato sacerdote nel 1903 e
consacrato vescovo nel 1916, mons.
Pinardi seguì sempre con commozione
e interesse l’opera del Perlo,
attraverso due testimoni di eccezionale
importanza: il canonico Giacomo
Camisassa, zio di Filippo, e, soprattutto,
il beato Giuseppe Allamano,
del quale mons. Pinardi si
disse, visitandolo nel 1926, «uno dei
suoi più affezionati discepoli».
Mons. Pinardi stimò grandemente
l’attività missionaria di mons. Perlo,
ritenuto l’anima e l’artefice delle
fondazioni missionarie in Kenya, poi
consacrato vescovo nel 1909 nel santuario
della Consolata. «Pochi come
il sottoscritto – confidava mons. Pinardi
a mons. Perlo – hanno seguito
la tua vita, i tuoi sacrifici, i tuoi dolori,
le tue aspirazioni di vero missionario
del Signore; perciò doverosamente
e sentitamente mi sento accanto
ai tuoi confratelli…».
Ecco ciò che ha accomunato e alimentato
l’amicizia tra queste due figure
luminose di pastori: il sacrificio
della propria vita per il vangelo.

Mons. Pinardi conobbe
l’intelligenza brillante e concreta dell’attività
di mons. Perlo nella nuova
missione in Kenya, parlandone come
di un terreno completamente da
dissodare e che costò all’intrepido
vescovo missionario «sacrifici senza
nome», al punto da affermare che il
Perlo «…molto ha fatto, quanta
umana azione da Dio benedetta poteva
compiere».
Il sacrificio richiesto a mons. Perlo
toccò sul vivo la tempra della sua
fede, quando il mondo intero fu
sconvolto dalla seconda guerra mondiale,
le cui conseguenze si fecero pesantemente
sentire anche in terra
d’Africa: «L’immane guerra d’Africa
e mondiale si è abbattuta sul terreno
sì bene coltivato – scriveva ancora
mons. Pinardi, riferendosi alla
giovane missione africana -; penso
quanto ha sofferto il suo cuore, nel
vedere il frutto di tante fatiche sue e
dei suoi cari confratelli, ritardato e,
in apparenza, compromesso. Dico,
in apparenza, compromesso».
Ma l’uomo di fede è capace di una
diversa e ben più profonda visione
del mondo, scorgendo la crescita del
regno di Dio anche nelle sue apparenti
smentite e contraddizioni.
Il cuore di mons. Pinardi fu capace
di un sentimento di tanta e tale
compartecipazione alle fatiche del
Perlo per una sorta di connaturalità:
lo stesso mons. Pinardi era provato
nelle stesse sofferenze a motivo del
vangelo, seppure in contesto differente,
custodendo nel suo animo gli
stessi sentimenti che furono già dell’apostolo
Paolo: «È giusto, del resto,
che io pensi questo di tutti voi,
perché vi porto nel cuore, voi che
siete tutti partecipi della grazia che
mi è stata concessa sia nelle catene,
sia nella difesa e nel consolidamento
del vangelo» (Fil 1,7).

Per vocazione
e temperamento, mons. Pinardi non
fu missionario alla maniera del Perlo.
Il «terreno» dove egli si spese come
parroco e vescovo non richiedeva
il primo annunzio, ma una sempre
nuova incarnazione nei diversi
contesti storici: in questo fu davvero
missionario e pioniere, impegnato su
tanti fronti, tra cui spicca quello per
la stampa cattolica. In una congiuntura
storica che sfavoriva ogni iniziativa
di questo genere, nell’ottobre
1917 fondò l’Opera della buona
stampa e sostenne, pagando di persona,
la diffusione della stampa cattolica.
Quando nel 1930 Pio XI chiamò
da Sassari a Torino mons. Maurilio
Fossati, il papa disse al nuovo arcivescovo:
«A Torino avete un vescovo
santo, ma bisogna lasciarlo nell’ombra,
per non avere problemi con
il regime».
Mons. Pinardi non fu più confermato
né vescovo ausiliare, né provicario
generale e se ne stette, apparentemente,
nell’ombra nascosta del
suo servizio di parroco presso la parrocchia
di San Secondo. Ma il chicco
di frumento non teme l’ombra
della terra; anzi, l’accoglie come la
vera possibilità di portare frutto, che
non tardò a maturare. Esso ha il volto
di migliaia di poveri, malati e sofferenti,
che furono quotidianamente
accolti e aiutati da mons. Pinardi.
A San Secondo e in tutta la diocesi
di Torino è ancora vivissimo il suo ricordo
come di un vero padre dei poveri.
«Il buon seme è gettato; fecondato
da tante fatiche, da tanti dolori, da
illimitata fiducia in Dio, fruttificherà
il cento per uno»: quanto mons. Pinardi
scriveva del Perlo delinea bene
il suo stesso ministero pastorale.
È proprio il progressivo approfondimento
dei suoi frutti spirituali che
ha portato la diocesi di Torino ad avviare
il processo di canonizzazione,
che si trova ora depositato presso la
Congregazione romana per le Cause
dei Santi, dove è iniziata la seconda e
più impegnativa fase del processo,
nella speranza di poterlo un giorno
onorare come santo, venerando in lui
un pastore da imitare e un intercessore
da pregare.
Qui tornano a intrecciarsi le storie
dei santi torinesi, perché proprio un
figlio del beato Allamano, un altro
missionario della Consolata come
mons. Perlo, sarà il postulatore della
causa di mons. Pinardi, padre
Gottardo Pasqualetti, al quale vanno
il ringraziamento e l’augurio per
il suo impegno.
«Il buon seme è gettato; fecondato
da tante fatiche, da tanti dolori, da
illimitata fiducia in Dio, fruttificherà
il cento per uno»: la lunga amicizia
tra mons. Pinardi e le missioni della
Consolata è sicuramente uno di questi
frutti. E che la storia continui.

Luca Ramello




UNA SOFFERENZA «IMPOSTA»

Julien Andavo Mbia vescovo di Isiro-Niangara (Congo R. D.)
Nato nel 1950 a Faradje (Isiro) da famiglia cristiana,
sacerdote dal 1979, mons. Julien Andavo
Mbia ha conseguito la licenza in teologia alle
Facoltà cattoliche di Kinshasa e il dottorato
in teologia morale a Fribourg (Svizzera). Viceparroco,
economo alle Facoltà cattoliche, professore
di morale al Teologato di Bunia, rettore
del Filosofato interdiocesano di Kisangani, è
stato nominato vescovo di Isiro-Niangara il 19
dicembre 2002 e consacrato il 19 marzo 2003.

Monsignor Julien, lei è il vescovo
eletto di Isiro. In questa città
è stato consacrato, il 19 marzo
scorso, dal card. Frédéric Etsou-
Nzabi Bamungwabi, arcivescovo
di Kinshasa. Date le difficoltà
del momento, perché far venire
a Isiro proprio l’arcivescovo di
Kinshasa?
È stato previsto che il card. Etsou
come primo consacrante, affiancato
da mons. Laurent Monsengwo Pasinya,
arcivescovo di Kisangani e dal
nunzio apostolico, mons. D’Aniello
Giovanni.
Vi sono molteplici ragioni per la
presenza del cardinale. È il presidente
della Conferenza episcopale del
Congo. La sua venuta a Isiro vuole
sottolineare l’unicità e l’unità del
paese e della nostra chiesa. Manifesta
la preoccupazione e la sollecitudine
della chiesa universale per una
chiesa locale che soffre. Diventa così
un momento di solidarietà e di incoraggiamento
per i cristiani di Isiro e
anche per me, loro giovane vescovo.
La presenza del cardinale, presidente
della Conferenza episcopale, dell’arcivescovo
Monsengwo, presidente
della Secam, e del nunzio, rappresentante
del papa nella R.D. del Congo,
vuole essere anche un appello alla
coscienza dei nostri dirigenti politici,
che sono molto incerti sul da
farsi. Penso che la questione dell’incoraggiamento
da parte della chiesa
sia veramente importante.
Situazione di crisi. Come la vive
e come sopravvive la gente della
sua diocesi?
C’è una crisi molto acuta sul piano
economico, sociale, e politico. Vi sono
da noi uomini che pretendono di
fare politica, ma non hanno né la capacità,
né i mezzi per farla; non sanno
che cosa sia la politica, arrivano
al potere senza essere eletti e pretendono
di vivere a spese della popolazione.
Una volta il paese stava
bene. Aveva risorse. C’era la coltivazione
del caffè. Ora non esiste più
nulla. La gente si sposta in bicicletta,
anche per lunghe distanze. Ha bisogno
di essere incoraggiata, spinta
a darsi da fare. Perciò è importante
che la chiesa sia sul posto, che io rimanga
tra la gente.
Qual è la consistenza numerica
dei cattolici nella sua diocesi e
che rapporti mantiene con i seguaci
delle altre religioni?
Dal punto di vista numerico, non
ho molto da dire. Non ho le cifre sotto
mano. Ma posso affermare che i
cattolici sono la maggioranza. Ci sono
i protestanti e i kibamguisti, che
però recentemente hanno cominciato
a fare delle affermazioni su Gesù
Cristo e sullo Spirito Santo che li mettono
fuori dal Consiglio ecumenico
delle chiese. Il problema sono le sètte,
le chiese indipendenti
che sorgono
un po’ ovunque.
Vorrei sottolineare
la vitalità della
comunità ecclesiale.
Tutti gli aspetti
della vita sociale,
economica e culturale
sono più o meno
segnati dal cristianesimo,
incluse
le cerimonie funebri,
tanto importanti
nella vita socio-
culturale e
religiosa dell’africano.
Nei funerali
è la famiglia ecclesiale che si confronta
con la morte. Le cerimonie si
svolgono in un contesto cristiano. È
un momento di grazia, per cercare di
radicare ancora di più il vangelo nel
tessuto vivo del popolo.
È necessario che i cristiani siano
aiutati a perseverare nella loro adesione
a Cristo. Bisognerebbe, per
esempio, fare più leva sulla presenza
della beata Clementine Anuarite sepolta
nella cattedrale di Isiro, sviluppae
la devozione, sottolineare i
valori che essa ha rappresentato con
la sua vita. Nei miei giri per il paese,
ho potuto constatare che tutti hanno
desiderio di venire in pellegrinaggio
ad Isiro, per venerare la beata.
L’islam? Per il momento non è un

vero problema. È presente, ma non
ha una reale influenza. Non ha peso
sulla fede in quanto tale. Le poche
conversioni sono per interessi politici
o economici.
Quali sono le linee pastorali che
intende seguire nel suo ministero
apostolico?
La priorità, per me, è principalmente
legata agli agenti pastorali, a
tutti i livelli: sacerdoti, suore, laici,
persone consacrate, sia congolesi che
provenienti dall’estero. Attraverso il
mio ministero, intendo infondere loro
fiducia, contare su di loro e dire
che, benché vescovo, non tocca solo
a me condurre il gregge.
Oggi, l’episcopato congolese parla
della chiesa-famiglia: famiglia che,
come comunità domestica e come comunità
ecclesiale, parrocchiale e diocesana,
rifletta i valori evangelici.
Anche questo vuol dire inculturazione
del messaggio a tutti i livelli. Il
vangelo deve dire qualcosa di concreto
nella vita personale, nella famiglia
e nella società, indicarci cosa
significhi essere salvati da Gesù. Bisogna
quindi portare la gente a fare
una lettura contestualizzata del vangelo,
affinché possiamo essere evangelizzati
integralmente.
Cosa si aspetta dai missionari e
missionarie?
Per quanto riguarda il rapporto con
i missionari, vorrei far notare che il
processo di evangelizzazione non è
finito, non è mai finito; finché l’uomo
vive, vi sarà evangelizzazione. È
in questo senso che la chiesa è universale.
Non è la chiesa della mia famiglia
o della mia società, o di Isiro:
è la chiesa di Gesù che chiama tutti
gli uomini, di ogni colore, a vivere la
vita di Dio là dove si trovano; una vita
di carità, di comunione, al di là di
ogni frontiera. È così che i missionari
conservano sempre il loro posto,
anche quando i cristiani sono molti.
Perché l’evangelizzazione è permanente
ed è sempre da riprendere. La
presenza del missionario è fonte di

coraggio, perché si tratta di un uomo,
di una donna venuti da lontano,
condotti qui solo dalla fede. Il missionario,
quindi, non deve supplire
soltanto a una mancanza, per cui
quando questa mancanza viene colmata,
ha finito il suo compito. Il missionario
è un testimone di Gesù e tutti
noi ne abbiamo bisogno.
Il Congo è devastato dalla guerra.
La gente di Isiro come vede
la guerra? Ha qualche speranza
che presto finisca?
La guerra è imposta alla gente. Non
è voluta. La gente vuole la pace. Tutti
si augurano che la guerra finisca
presto. Ma si ha l’impressione di trovarsi
in una tragica impasse (vicolo
cieco) e non si sa come uscie. Per
farla finire, è importante tagliare i legami
che essa ha con i paesi esteri.
I mezzi per fare la guerra, infatti,
vengono dall’estero, dall’Uganda, dal
Rwanda. Questi paesi, purtroppo,
hanno una stampa efficiente, pronta
a mostrare come essi non c’entrino
con la guerra, ne sono fuori. Ma la
realtà è diversa.
E la società civile?
La società civile, purtroppo, non è
bene organizzata. A questo proposito,
faccio di nuovo un richiamo alla
stampa che può svolgere un ruolo
molto importante, soprattutto sostenendo
la volontà della popolazione e
incoraggiandola.
La chiesa congolese è una chiesa
di martiri. Si fa qualche cosa
per conservae la memoria?
È importante salvaguardare la memoria
dei martiri, a livello parrocchiale,
diocesano e nazionale. Per
questo sono importanti gli archivi
storici. Ci dovrebbe essere un gruppo
incaricato di raccogliere dati e
fatti che costituiscono la storia di
uomini e donne che hanno dato la
vita per Cristo e per i loro fratelli e
sorelle. Non vi è niente di peggio che
ignorare la memoria, perdere le tracce
del proprio passato. Bisognerebbe
che, a tutti i livelli, si potessero
avere le testimonianze che possono
incoraggiarci nella fede e meritano
di essere messe in evidenza. Per il
centenario dell’inizio del cristianesimo
nella diocesi, intendiamo prendere
delle iniziative in questo senso.
Avremmo voluto farlo in condizioni
più felici. Ma non siamo noi i padroni
della storia.

Giovanni Battista Antonini




NOVA MAMBONE (Mozambico) opere di promozione umana

SAPORE DI SALE
Una missione, idee chiare sullo sviluppo,
un «fratello» tuttofare…
E tante attività che non sono venute mai meno,
anche nei momenti più difficili.
Grazie a un «ragioniere» onesto…

Dopo la seconda guerra
mondiale, i missionari della
Consolata che avevano evangelizzato
il nord-ovest del Mozambico
da 25 anni, decisero di aprire
un nuovo campo di lavoro
missionario. Fu scelta l’attuale regione
costiera a nord di Maputo,
nella provincia di Inhambane, diventata,
in seguito, la diocesi di
Inhambane.
Una serie di missioni fu pianificata
lungo la strada nazionale che univa
la capitale con la seconda città più
importante del paese, Beira, 100
chilometri più a nord. Agli inizi degli
anni ’50, padre Vespertini si installò
al limite estremo della provincia,
presso la città coloniale
di Nova Mambone, sulla riva
del fiume Save, che separa la
provincia di Inhambane da
quella di Beira. Fu lì che, nel
1954, inaugurò la parrocchia
del Sacro Cuore, sette chilometri
circa a ovest della città.
Tutto questo per far ricordare
come, nel 2004, si festeggeranno
i 50 anni di fondazione di questa
parrocchia. E bisogna dire che l’evangelizzazione
fu davvero intensa
se oggi i cattolici costituiscono il
6% della popolazione e i cristiani il
20%. Due sono le etnie che hanno
accolto il vangelo: i vatshwa e i vandau.
I primi abitano la regione costiera
(la maggioranza dei quali nella
provincia di Inhambane); i secondi
si sono piazzati lungo il corso
del fiume Save, all’interno, verso
lo Zimbabwe. Numerose sono le
sètte tra i vatshwa, mentre i vandau
sono rimasti più attaccati alle loro
tradizioni ancestrali.

UN «FRATELLO» E TANTE OPERE
Quando i missionari si installarono
a Doane (a circa 7 chilometri
dalla città di Nova Mambone), non
c’era praticamente nulla. Cominciarono,
dunque, non solo a evangelizzare,
ma anche a dedicarsi a
un’intensa promozione umana.
Questa cominciò subito attraverso
una fitta rete di scuole e
dispensari; ogni una decina di chilometri,
nasceva una scuoletta elementare,
mentre le superiori trovavano
posto nella missione centrale,
arricchite anche da un collegio per
gli alunni più lontani.
Accanto alle scuole, per venire
incontro ai bisogni sempre più numerosi
delle varie istituzioni e della
popolazione, cominciò anche a
sorgere un atelier (segheria e falegnameria),
famoso per la sua produzione
di sedie, mobili, banchi di
scuola (la prima segheria dei missionari
della Consolata era stata installata
in Kenya, nel 1905, da fratel
Benedetto Falda). Con le costruzioni
in muratura, divenne
indispensabile pensare a mattoni e
blocchi di cemento; da qui le varie
foaci e una scuola per preparare
valenti muratori. E, viste le distanze,
l’uso dei veicoli portò alla creazione
di garages e alla formazione
di numerosi meccanici.
Tutte queste incombenze «tecnico-
materiali» venivano normalmente
svolte dai «fratelli coadiutori
», preparati a questo scopo. A
Nova Mambone, maestro incontrastato
è fratel Pietro Bertone; è lui
a farmi da guida nei vari laboratori
e officine, mostrandomi un’infinità
di aggeggi, di cui talvolta ignoravo
non solo l’uso, ma perfino l’esistenza.
– Fratel Pietro, ma tu sei capace di
far funzionare tutti questi marchingegni?
– Sì, ma il problema più grosso è la
loro riparazione. Sovente manchiamo
di pezzi di ricambio e, per farli
arrivare, occorre talvolta molto
tempo e, soprattutto, pazienza. Allora,
supplisce la fantasia.
Naturalmente il fratello non è solo
in questa impresa; in 50 anni la
missione ha formato decine di giovani,
oggi esperti nei vari mestieri e
capaci di mantenere la famiglia con
la loro attività.
Parroco della missione è il giovane
Arlei Pivetta, originario del Brasile.
Mentre mi fa visitare la chiesa,
pur non essendo io un esperto, mi
accorgo che la costruzione, ormai
cinquantenaria, ha bisogno di
qualche riparazione. «Ma – mi spiega
il padre – non è solo questione di
anni, bensì anche del terribile ciclone,
che ha investito la regione
nel febbraio del 2000. Dalle cronache
risulta che i grandi nubifragi arrivano
raramente: due o tre per secolo;
quello del 2000 è stato uno di
questi. C’erano delle onde alte seisette
metri, che hanno spazzato via
tutto; centinaia di persone sono
morte e migliaia sono rimaste senza
casa».
Uno dei sogni della missione, in
occasione dei festeggiamenti per il
cinquantesimo, sarebbe quello di
una buona riparazione della chiesa,
soprattutto con la sostituzione totale
del tetto, davvero danneggiato.

IL SALE… DELLA SALVEZZA
Durante le guerre degli anni
scorsi era praticamente impossibile
fare arrivare denaro in Mozambico,
ma sotto la spinta del regime
marxista, bisognava arrangiarsi con
l’autofinanziamento, chiesa e missioni
comprese. Fu allora che il
parroco di Nova Mambone, padre
Amadio Marchiol, ebbe un’idea geniale:
dal momento che la missione
sorgeva in riva all’oceano, si sarebbe
potuto estrarre sale dal mare.
Dopo aver consultato qualche esperto,
la cosa risultò fattibile e il
progetto andò avanti.
È sempre fratel Pietro che mi
porta a visitare le saline. Ogni giorno,
a causa della rapida evaporazione,
una cinquantina di operai vi
lavora a tempo pieno; e, nei periodi
caldi e secchi, quando il sale può
essere estratto in sole 48 ore, il numero
degli operai raddoppia, arrivando
a un centinaio. Per quindici
giorni al mese la marea arriva fino
alle saline e due pompe «succhiano
» l’acqua del mare, inviandola in
un grande bacino. Attraverso diverse
vasche di decantazione, vengono
eliminati gli altri sali minerali
e nell’ultima (dove l’acqua raggiune
i 26-28°) rimane il sale pulito
e commestibile.
Non è il fratello a occuparsi direttamente
del funzionamento delle
saline, che è invece affidato a due
responsabili locali, molto ben preparati
e competenti. Sono proprio
loro a farmi vedere l’ultima tappa:
con dei grandi rastrelli si lava il sale
nell’acqua e poi lo si accumula su
dei piccoli marciapiedi. Viene poi
trasportato in magazzini speciali,
dove viene seccato e «iodato». L’ultima
operazione è l’insaccamento,
perché il sale sia pronto alla vendita
e al consumo.
Questo progetto fu la carta vincente:
da allora, la missione trovò la
sua fonte di sostentamento.
È per venire incontro ai bisogni
della gente e dei missionari che sono
state pensate e realizzate tutte
queste opere sociali: dispensari,
scuole, segherie, garages, falegnamerie…
La missione è così diventata
una vera e propria «azienda» con
un bel numero di operai. Fratel
Pietro mi aggioa sui numeri.
«Abbiamo circa cento-centocinquanta
operai, dei quali i due terzi
lavorano nelle saline. Ci sono poi
otto operai nella falegnameria e sei
meccanici. Sei ragazze lavorano
nell’asilo della parrocchia, mentre
i quattro ragazzi che costruiscono
blocchi di cemento non sono operai
effettivi: ogni mattina diamo loro
quattro sacchi di cemento, con i
quali riescono a produrre un po’
meno di duecento blocchi».
Ma la missione, con le sue scuole
e collegi deve anche mangiare;
per questo non manca l’orto e allevamenti
vari. Un solo operaio (sordomuto)
tiene a bada tutto, soprattutto
il frutteto da cui partono, per
la gente, frutti di varie qualità per
diversificare la loro alimentazione.
Mi sorge spontanea una domanda:
«Come mai tutta questa “impresa”
non è stata toccata durante
il periodo della nazionalizzazione e
della guerra civile?».
– È grazie al nostro “ragioniere” –
mi spiega sempre fratel Pietro -. È
lui che ha salvato la missione.
Quando l’esercito e il governatore
arrivarono a vedere le saline, lui
disse che erano sua proprietà. E dal
momento che venivano nazionalizzate
le opere della chiesa e non
quelle dei privati, tutto fu salvo. Per
parecchi mesi a Nova Mambone vi
fu un solo missionario, ma il ragioniere
continuò a gestire l’attività
con profonda onestà e sui conti
bancari i soldi non mancarono di
essere regolarmente depositati.
Oggi, il ragioniere è in pensione,
ma i due figli ne continuano
l’opera; sempre
allo stesso modo…

Jean Paré




A Fatou manca la ricetta

Storie di malati e malattie nel Sud del mondo
In un ospedale africano:
«Per favore, dottore, niente anestesia locale.
Io ho i mezzi: mi faccia un’anestesia d’importazione».
(Serge Latouche, La fine del sogno occidentale)

Presentazione
SALUTE?
Dovrebbe essere un diritto universalmente riconosciuto. Non è così.
Nei paesi del Sud si muore di Aids, tubercolosi, malaria,
ma anche di morbillo e altre patologie normalmente curabili.
Intanto, in quelli del Nord…

Nei paesi occidentali il progressivo smantellamento
dei sistemi sanitari pubblici sta producendo
un sistema all’americana: soltanto chi può
permetterselo avrà le cure migliori. Sarah Delaney,
una giornalista statunitense, ha raccontato (1) la vicenda
di un amico riemerso da un coma profondo:
«Adesso, dopo circa un mese di cure dagli esiti incoraggianti,
il suo tempo è scaduto: la sua assicurazione
(privata) ha deciso che 30 giorni potevano bastare
e dall’ospedale l’hanno rispedito a casa. La sua
famiglia non può permettersi di pagare le costose cure
di cui avrebbe bisogno ancora per un anno. (…)
Negli Usa, l’assistenza sanitaria può essere eccellente,
ma solo per chi se la può permettere».
Se al Nord il problema è soprattutto di qualità, al Sud
è ben più grave. Nella quasi totalità dei paesi del Sud,
soprattutto in quelli dell’Africa (ma anche in America
Latina e in Asia), un servizio di sanità pubblica universale
e gratuito non è mai esistito. «Sono stanco di
vedere – ha denunciato James Orbinski di Medici
senza frontiere (2) – donne, bambini e uomini morire,
mentre so che un trattamento efficace esiste e potrebbe
essere alla loro portata. Sono stanco di constatare
come il profitto abbia sempre la meglio sul
diritto alla salute. Non ne posso più della logica per
cui chi non può pagare, muore».
«Mancava – si legge nel libro di Andrea Moiraghi (3)
– solo un’ulteriore tragedia che, puntualmente, è arrivata:
l’Aids. La sindrome da immunodeficienza acquisita
(…) è la nuova malattia dei poveri e sta causando
in Africa la più devastante epidemia che l’umanità
ricordi: il numero dei contagiati è tale che
intere generazioni di africani rischiano di scomparire.
Ma questo in Africa, non nei paesi occidentali, dove
l’infezione è relativamente sotto controllo, grazie
a costosissimi farmaci, inavvicinabili alla stragrande
maggioranza degli africani; tant’è che all’equatore è
nato questo slogan: “Il Nord del mondo produce i farmaci
e il Sud produce Aids”».
Si stima che ogni giorno 15.000 persone contraggano
l’Aids. La Sars, la polmonite atipica individuata
da Carlo Urbani, è a 6.500 casi mondiali in 3 mesi.
Il vaccino non c’è ancora, ma è già guerra (mondiale)
per i brevetti. Avvenne così anche negli anni
Ottanta per il virus Hiv, ma allora la guerra fu circoscritta
a due contendenti: l’équipe dello statunitense
Robert Gallo e l’Istituto Pasteur di Parigi. «L’argomentazione
– scrive Paul Benkimoun (4) – è chiara:
senza brevetti, niente profitti; senza profitti,
niente ricerca e sviluppo. Se non si colloca su un piano
etico, il ragionamento non fa una grinza, anche
se sarebbe necessario dimostrare che le aziende farmaceutiche
compiono effettivamente sforzi considerevoli
per coprire i costi di ricerca e sviluppo. In
realtà, dai bilanci pubblicati dai grandi laboratori
emerge che questi spendono una quantità di denaro
nettamente superiore per il marketing, la pubblicità
e le spese di gestione che per la ricerca e lo sviluppo,
mentre i profitti ammontano a cifre impressionanti».
Chissà cosa avrebbe detto e scritto Carlo Urbani sulla
corsa al deposito dei diritti sulle scoperte che riguardano
la Sars…
Per concludere, mi si conceda un piccolo ricordo
personale. Nel lontano 1988, con Carlo Urbani,
sua moglie Giuliana e altri amici facemmo un viaggio
in India del Nord e Nepal. Al ritorno in Italia Carlo
fu subito ricoverato per febbre tifoide. Già allora
egli aveva la volontà di conoscere luoghi, culture e
soprattutto persone ben al di là del consueto. Fino
al punto di prendersi una malattia tipica del luogo.
In questo dossier ritroverete alcuni vecchi articoli di
Carlo, pubblicati nell’ambito di «COME STA FATOU?»,
la rubrica che MC gli aveva affidato. Ora, in ricordo
dell’amico e collaboratore prematuramente scomparso,
noi abbiamo inventato il «PREMIO GIORNALISTICO
DOTTOR CARLO URBANI» che, al contrario di altri
concorsi, invece di distribuire riconoscimenti in denaro,
manderà i vincitori… a esercitare la loro professione
di medici.
Proprio là, dove l’«assenza di salute» è prassi quotidiana.
PAOLO MOIOLA

(1) Su Internazionale del 27 settembre 2002.
(2) Riportato in «Accesso ai farmaci», dossier di Msf – Italia
(si veda in bibliografia).
(3) Andrea Moiraghi, Pole pole, 2003 (in bibliografia). Segnaliamo
che lo scorso 26 maggio l’Unione europea ha
approvato una nuova regolamentazione che dovrebbe permettere
alle aziende farmaceutiche di vendere nei paesi
poveri i medicinali contro Aids, malaria e tubercolosi a
prezzi inferiori.
(4) Paul Benkimoun, Morti senza ricetta (in bibliografia).

Dove povertà e malattia
si generano a vicenda

di Carlo Urbani
(gennaio 1999)

Nel corso degli ultimi anni
si è assistito ad un
miglioramento globale della
salute delle popolazioni.
Tuttavia resta ancora
elevatissimo il numero di
individui, soprattutto nei
paesi della fascia
intertropicale, che non hanno
accesso alle cure sanitarie, e
lo scarto tra poveri e meno
poveri si è ulteriormente
approfondito.
Secondo l’Organizzazione
Mondiale della Sanità (OMS),
2 miliardi di individui vivono
nella povertà, e di questi 700
milioni vivono in situazioni di
estrema precarietà. Per queste
persone l’accesso a servizi
sanitari e a cure mediche non
è assolutamente assicurato,
quando addirittura
impossibile. La povertà genera
malattie, attraverso la
mancanza di igiene, strutture
sanitarie e adeguati
trattamenti, educazione. Per
questo in
molti paesi
l’attesa di
vita alla
nascita non supera i
50 anni, e sono malnutrizione
e tutta una serie di malattie
tropicali a compiere la
decimazione soprattutto nei
primi anni di vita.
Nel 1977 i governi e l’OMS
nell’Assemblea generale
hanno fissato l’obiettivo di
garantire la salute per tutti i
popoli del mondo entro l’anno
2000. Purtroppo tale
traguardo sembra ancora ben
lontano, e addirittura in
alcune aree si è assistito ad
un deterioramento della
situazione sanitaria e della
qualità della vita.
Per chi vive in un paese
sviluppato è in genere
difficile immaginare la
situazione nella quale la gran
parte dell’umanità vive nei
paesi in via di sviluppo. E di
molte delle
malattie più
diffuse al mondo
si sa quasi nulla,
spesso anche il nome
suona del tutto insignificante,
come avitaminosi,
schistosomiasi, dracunculosi,
dengue, e così via. Si
impiegano nel mondo risorse
enormi per la ricerca sul
cancro, o le cardiopatie, o le
malattie vascolari, ma non
tutti sanno che non è per
queste malattie che la
maggioranza dell’umanità
soffre e muore.
In questa rubrica, attraverso
brevi resoconti di giornate
di lavoro in alcuni paesi
tropicali, ci racconteremo
qualcosa che riguarda la
salute, o meglio l’assenza di
salute, in questo mondo dei
più sfortunati, dove povertà e
malattia si generano a
vicenda.

Pcome parassiti
I PARASSITI DEL MEKONG
Troppi bambini cambogiani hanno la «pancia grossa» o addirittura la
cirrosi epatica. Basterebbero 180 lire contro la schistosomiasi, ma…
Viaggio in un paese stremato dalla guerra civile e dalla povertà.
di Carlo Urbani
(gennaio 1999)

L’ATR72 della «Royal Air
Cambodge» sfiora con il
carrello le cime di alcuni
alberi. Dopo aver posato rumorosamente
le ruote sulla corta pista in
terra battuta, le turbine frenano
con un ruggito la corsa dell’aereo.
Un’ora abbondante di volo ci ha
portati all’aeroporto di Stung
Treng, nel nord-est della CAMBOGIA,
dove il Sesan e il Sekong si versano
nel Mekong, a circa 40 chilometri
dalla frontiera con il Laos.
Pochi minuti prima, seduto vicino
al finestrino, osservavo il paesaggio
sotto di me e, nei varchi tra
i cumuli di condensa tipici di quell’ora,
intorno a mezzogiorno, scorrevano
lentamente risaie, foreste e
fiumi. Il corso del Mekong, visto
dall’alto, lascia immaginare l’imponenza
di questo fiume, che disegna
ampie curve nel verde intenso
della vegetazione. A stento si possono
vedere i piccoli villaggi sulle
sue sponde, giusto una linea di
quadratini di un altro colore, tra
cui è magari identificabile il tetto
variopinto di una pagoda. Ed è difficile
immaginare in questo stupendo
quadro quante incredibili
atrocità siano state consumate, e
quanta sofferenza sia nascosta sotto
quegli alberi. Il verde intenso
della foresta a tratti scompare, per
lasciare il posto ad ampie macchie
grigiastre, testimonianza della
deforestazione selvaggia che incombe
nella regione.
Ora, sbarcati nell’aeroporto di
Stung Treng, ci prepariamo a risalire
un tratto del Sekong, per andare
a visitare gli abitanti di un gruppo
di villaggi più a monte. Poco più
tardi stiamo già scivolando sulle acque
blu e perfettamente lisce del
fiume, tra due pareti di impenetrabile
verde. Con me viaggiano due
medici e due microscopiste cambogiani.
Trasportiamo farmaci e
materiale di laboratorio.
Sulla piroga sventola la bandiera
di Médecins Sans Frontières
(MSF), che dal 1993 cerca di
far fronte in questa regione al grave
problema della schistosomiasi.
Oggi stiamo andando a verificare
la presenza della malattia in una zona
molto remota, ed eventualmente
distribuire il farmaco che trasportavamo,
il praziquantel.
La schistosomiasi è uno dei problemi
sanitari più importanti dei
paesi della fascia intertropicale, e la
forma diffusa lungo il fiume
Mekong è una delle più gravi. In
Cambogia le dimensioni del problema
sono state comprese solo di
recente, grazie all’intervento di
MSF che ne ha identificato l’area
più colpita e ha messo in opera delle
misure di controllo. In molti villaggi
lungo il Mekong i segni della
malattia sono drammaticamente
evidenti.
Gran parte dei bambini soffrono
di dolori addominali cronici, emettono
feci con sangue e muco, il loro
addome si gonfia progressivamente
per l’ingrossamento di milza
e fegato, ed a partire dagli anni
dell’adolescenza sviluppano i primi
sintomi della cirrosi epatica, la
stessa malattia che colpisce gli alcolisti.
Si forma acqua nella pancia
(ascite), si gonfiano le vene sulla superficie
dell’addome e si formano
varici nell’esofago. Negli stadi
avanzati della malattia il soggetto è
estremamente emaciato, sofferente,
con una enorme pancia, gambe
magre ed edematose, fino a che la
rottura delle varici esofagee e la
conseguente emorragia ne causa il
decesso. Coloro che sono infettati
da molti parassiti hanno anche un
arresto della crescita e dello sviluppo
sessuale, così che l’età apparente
trae spesso in inganno e un
ventenne può essere facilmente
preso per un bambino di 11-12 anni.
La schistosomiasi è causata da
un piccolo verme che vive nelle vene
intorno alla parete dell’ultimo
tratto dell’intestino. Se le uova prodotte
con le feci arrivano nelle acque
del fiume, si schiudono e liberano
un piccolo organismo che,
nuotando, viene attirato particolarmente
da un certo mollusco, una
piccola conchiglia che vive nelle
fessure delle rocce semisommerse
nel fiume. All’interno della conchiglia
il parassita matura e forma una
piccola larva. Questa lascia la conchiglia
e si libera nelle acque del
fiume. Se entra in contatto con la
pelle umana, è in grado di perforarla
ed attraversarla. Una volta penetrato
il parassita si lascia trasportare
dal sangue e, dopo un
complicato percorso, raggiunge la
sede definitiva del suo sviluppo,
appunto le vene intorno all’intestino,
per diventare adulto.
Il problema principale è causato
da quelle uova che, prodotte dalla
femmina, non riescono a mescolarsi
alle feci come previsto, ma vengono
portate via dalla corrente sanguigna
nelle piccole vene dove i
vermi vivono. Queste uova finiscono
intrappolate nel fegato, causandone
l’ingrossamento, la fibrosi, e
poi la cirrosi. Questo fa ingrossare
la milza e fa aumentare la pressione
del sangue nella vena porta.
Questa «ipertensione» causa l’ascite
e la formazione di varici esofagee.
Più sono numerosi i vermi adulti,
più grave è la malattia. Ne deriva
che solo i soggetti continuamente
esposti a nuove infezioni sviluppano
gravi sintomi. Essere esposti all’infezione
significa avere molti
contatti con l’acqua del fiume, nelle
zone dove ci sono quelle conchiglie
e dove nelle acque finiscono le
feci umane. In zone disabitate la
trasmissione non può esistere. E
chi ha più contatti con il fiume? Basta
arrivare in un villaggio per capirlo.
La nostra piroga quel pomeriggio
è arrivata a Sdau, un
villaggio di un migliaio di abitanti,
lungo il Sekong. È quasi il tramonto:
i colori del fiume e del cielo
sono stupendi. Spento il motore
dell’imbarcazione per arrivare dolcemente
sulla riva, piombiamo in
un piacevole silenzio, nel quale è facile
sentire le grida dei bambini che
giocano poco lontano, tutti immersi
nell’acqua del fiume… vicino le
rocce dalle quali si tuffano. Ecco il
primo bersaglio della malattia: i
bambini.
Il loro contatto con l’acqua del
fiume è importante. È forse l’unico
gioco disponibile e offre un piacevole
ristoro nell’afa soffocante. E
poi correre nei campi non è, forse,
così raccomandabile… in un paese
con una delle più alte concentrazioni
al mondo di mine antiuomo!
Poco più vicine alla riva le sorelle
più grandi, sedute sulle rocce semiaffioranti,
a lavare i poveri panni
o intente a sciacquare gli umili
utensili domestici: un cesto di
bambù, un mestolo, o qualche ciotola.
E sulla riva qualche bambino
più piccolo, che fa la cacca nel fiume.
Una scena normale lungo un
fiume tropicale, ma è questo il ritratto
della trasmissione della schistosomiasi.
Bambini infetti fanno
la cacca, dove probabilmente ci sono
delle uova di schistosoma. Poco
lontano le rocce ospitano la conchiglia
che fa diventare infettante la
larva, e nella stessa zona altri che
nuotano, ed il cerchio si chiude. Incuriositi
dal nostro arrivo i bambini
escono all’asciutto, mostrando i
loro enormi ventri, costellati di tante
piccole cicatrici. Ci accompagnano
silenziosi lungo il sentirnero
che sale al villaggio.
Girando nelle case, palafitte di legno
o di bambù per i più poveri, incontriamo
altri bambini, quelli che
non hanno abbastanza forza per
andare a schiamazzare nel fiume.
Sono seduti sulla scala che sale al
piano rialzato, con lo sguardo più
triste degli altri, e la pancia ancora
più grossa. Alcuni adulti sanno che
quei bambini sono malati di qualcosa
che ha a che vedere con il fiume,
ma sanno anche che per loro,
gli abitanti di Sdau, come per quelli
di tantissimi altri villaggi in Cambogia,
non ci sono cure. L’ospedale
più vicino è a due ore di piroga,
e poi bisogna pagare le medicine, e
quassù soldi non ce ne sono. Non è
facile avvicinare le persone, tutti
sembrano diffidenti, ed anche un
po’ spaventati. La strategia del terrore
fa ancora sentire il suo alito in
Cambogia. In questi villaggi è facile
morire anche per molto meno:
basta una diarrea o una polmonite,
quando poi non si accanisca su
questa gente una epidemia di febbre
emorragica o di malaria. Le
donne partoriscono nelle loro capanne
senza alcuna assistenza sanitaria
ed in precarie condizioni igieniche.
Ci dicono che a volte i bambini
muoiono vomitando sangue
(la rottura delle varici esofagee).
Nonostante l’evidenza decidiamo
di esaminare alcuni campioni di feci
per confermare la presenza della
malattia.
Intanto do un’occhiata al resto
del villaggio, mentre penso a
cosa servirebbe per restituire la
salute a queste persone. Sono colpito
dalla loro povertà. L’unico bene
che custodiscono in casa è una
piccola riserva di riso e qualche
utensile. Nella «passeggiata» mi accompagna
Huong, silenzioso ragazzino
con una fionda appesa al
collo, un viso pallido e affilato, ed
un enorme ventre che lo obbliga a
camminare con la schiena curvata
indietro, come una donna alla fine
della gravidanza. Mi osserva curioso
e, dal modo di sorridere, sembra
evidente che si aspetta qualcosa da
me.
Passiamo la notte nel villaggio,
rassicurati dagli abitanti che ci mostrano
i loro AK47, con i quali ci difenderebbero
dai khmer rossi. Al
mattino cominciamo a distribuire il
farmaco. Verrebbe voglia di curare
anche tutte le polmoniti, congiuntiviti,
anemie e quanto altro scorre
sotto i nostri occhi. Purtroppo,
quando le risorse sono carenti, occorre
stabilire delle priorità e la
schistosomiasi, per la grave malattia
e la mortalità che ne derivano,
qui a Sdau rappresenta una priorità.
Distribuiamo la dose di praziquantel
ad ogni abitante. In queste
situazioni costa meno trattare tutti
che esaminare tutti e trattare solo le
persone infette. È una delle regole
in simili programmi di sanità pubblica
nei paesi in via di sviluppo.
Huong vuole essere il primo
a ricevere la medicina, e rimane
vicino a noi ad assistere
al trattamento degli altri del
villaggio. Si fa anche fotografare orgoglioso
del suo ventre enorme. La
medicina tradizionale di queste regioni
tratta il dolore addominale facendo
delle piccole bruciature con
dei tizzoni ardenti sulla pelle. Per
questo le pance di chi ha la schistosomiasi
qui sono piene di cicatrici:
sono le bruciature che i bambini
crescendo accumulano, ogni
volta che si lamentano dei loro dolori.
Purtroppo chi è già gravemente
malato non beneficia del
trattamento: la cirrosi del fegato è
una malattia irreversibile.
Trattae i sintomi per allungare
la sopravvivenza è possibile, ma tali
trattamenti sono completamente
fuori della portata di chi vive in villaggi
come Sdau. Dopo due giorni
lasciamo il villaggio, con almeno un
problema in meno, ma allontanandoci
lo immaginiamo sprofondare
di nuovo nell’isolamento e nella
mancanza totale di cure mediche.
In zone come queste la schistosomiasi
interessa anche l’80% dei
bambini, e il trattamento costa 12
centesimi di dollaro: circa 180 lire.
Ma moltiplicare le 180 lire per le decine
di migliaia che aspettano di essere
trattati fa diventare il costo insostenibile
per il paese, e poi la mancanza
di infrastrutture ne rende
difficile la distribuzione, e negli
ospedali non c’è personale formato
per controllare la distribuzione del
farmaco e l’evoluzione della malattia,
e ancora in molte aree l’accesso
è difficile a causa dell’insicurezza:
khmer rossi, banditi, anche gli infermieri
cambogiani hanno paura
ad andare in certe zone. Così un
problema in apparenza semplice diventa
in realtà difficile in paesi (e
non sono pochi) come la Cambogia.
Quando, sei mesi dopo, torniamo
a Sdau, Huong è già
morto, ma in tanti altri l’infezione
è scomparsa. L’infermiere
che ci assisteva sa ora riconoscere
agevolmente i malati attraverso i
sintomi. E la gente è un po’ più fiduciosa.
A piccoli passi il programma sta
dando i suoi frutti. Dopo tre anni
di attività, in molti villaggi le «pance
grosse» stanno scomparendo,
ma ne restano altri in attesa. Di un
po’ di salute e pace. E magari di
una piroga di Msf.

B come bambini
SE I BAMBINI
URINANO ROSSO

Può un’opera idrica aggravare un problema sanitario?
Sì, purtroppo…
Viaggio tra i piccoli malati di uno sconosciuto paese africano.
di Carlo Urbani
(marzo 1999)

Da Nouakchott a Rosso –
Scendiamo verso sud sulla
strada asfaltata che unisce
Nouakchott, capitale della MAURITANIA,
alla frontiera con il Senegal,
segnata dal fiume omonimo. Duecento
chilometri di asfalto, a tratti
completamente inghiottito da alte
dune che si muovono secondo il
vento, sommergendo palmeti e pali
del telegrafo.
Dopo un viaggio di 4 ore si arriva
a Rosso, capoluogo della regione
e posto di frontiera. Qui la sabbia
del deserto, solo punteggiata da
una timida vegetazione di arbusti e
palmeti, incontra le acque del fiume
Senegal. Di Rosso colpisce la
povertà e la desolazione di una
sconfinata bidonville, dove migliaia
di persone vivono (o meglio sopravvivono)
in piccoli ripari di teli
di plastica o sotto latte. In questa
zona negli ultimi 3 anni i medici del
locale ospedale riferiscono un netto
incremento del numero di bambini
che urinano sangue.
Urinare sangue in Africa è sinonimo
di schistosomiasi urinaria,
una varietà dell’infezione dovuta
ad una specie del parassita che vive
nelle vene intorno alla vescica,
causandone alterazioni che portano,
tra l’altro, alla presenza di sangue
nelle urine.
In questa zona fino a 2-3 anni fa
la schistosomiasi urinaria, pur già
presente, non sembrava costituire
un grosso problema. Ora in alcuni
villaggi lungo il fiume pressoché
tutti i bambini urinano rosso, e da
alcuni mesi alcuni hanno anche
sangue e muco nelle feci, un segno
di schistosomiasi intestinale, finora
sconosciuta nella regione.
Sull’altra sponda del fiume, in
Senegal, sta accadendo la stessa cosa
e la situazione sanitaria costituisce
ormai una seria emergenza. Cosa
sta succedendo? Da circa 8 anni
è entrata in funzione una grossa diga
poco più a valle di Rosso. Le
modificazioni chimico-fisiche delle
acque del fiume hanno notevolmente
favorito la diffusione dell’infezione,
agevolando lo sviluppo
della conchiglia necessaria al parassita
per maturare.
Questa conchiglia vive attaccata
ad alcune piante acquatiche, che
proliferano semi-sommerse sulle
sponde dei corsi di acque dolci in
ambiente tropicale. Prima della diga,
quando il livello del fiume, seguendo
l’alternarsi delle stagioni,
variava notevolmente tra stagione
secca e piogge, queste piante non
avevano vita facile e, in genere, seccavano
nei mesi in cui il livello dell’acqua
del fiume scendeva.
Ora, invece, si è creato un nuovo
variegato e diffuso ambiente favorevole
al loro sviluppo. Infatti il fiume,
alzandosi di livello, ha portato
l’acqua nei canali o piccoli laghetti
di ogni villaggio, formando piscine
naturali usate per lavare, lavarsi e
soprattutto giocare. Ora il livello è
costante per 12 mesi l’anno e la vegetazione
cresce rigogliosa. Così in
queste acque la trasmissione del
parassita è ormai altissima e l’infezione
si è diffusa raggiungendo livelli
impressionanti.
Andiamo a visitare una scuola
a Rosso. Spiegata agli insegnanti
la ragione della visita,
questi ci accompagnano a incontrare
una classe. La scena è
comune alle migliaia di scuole dei
paesi più poveri dell’Africa subsahariana.
I bambini sono ordinatamente
seduti in terra, perfettamente allineati,
con una piccola lavagna sulle
gambe e un gessetto per scrivere.
La parete di fronte, tinteggiata di
nero, è piena di scritte e disegni
esplicativi. Chiediamo ai bambini
chi di loro ha visto la propria pipì
di colore rosso. Una buona metà,
dopo le prime esitazioni, alza la mano
con un timido sorriso. Il maestro,
non soddisfatto, insiste, dicendo
che la pipì rossa non costituisce
motivo di vergogna. Così un
altro gruppetto si unisce ai primi.
Restiamo a lavorare nella scuola
per tutta la giornata. Dopo aver
esaminato con una tecnica di filtrazione
ed esame al microscopio
campioni di urine di tutti i bambini,
confermiamo l’allarmante dato.
In un villaggio poco lontano da
Rosso, Boghè, troviamo una zona
dove tutti i bambini hanno ematuria
(sangue nelle urine) e, poiché ce
l’hanno tutti, nessuno si ritiene malato.
Considerando che i bambini
iniziano ad infettarsi quando passano
parte del loro tempo a giocare
nell’acqua, quindi verso i 5-6 anni,
e che la malattia impiega qualche
anno prima di determinare
sintomi importanti, è intorno alla
pubertà che i bambini cominciano
a sviluppare una ematuria visibile
ad occhio nudo. Questo fa sì che
molti, nelle popolazioni residenti
nelle aree endemiche, ritengano
che le urine rosse siano un segno
della avvenuta o incipiente maturità
sessuale, un po’ l’equivalente
delle mestruazioni nelle femmine!
Ma purtroppo non si tratta solo di
una questione di colore.
Anzitutto la perdita di sangue
contribuisce all’anemia. In queste
regioni la malnutrizione, la malaria,
ed alcuni vermi intestinali costituiscono
già importanti fattori di rischio
per l’anemia, e il sanguinamento
dovuto alla schistosomiasi
non fa che aggravare il quadro clinico.
Ricordo di aver visto bambini
seduti in un’aula scolastica (che
qui significa sul pavimento) risultare
avere 4 gr. di emoglobina per
decilitro di sangue (i valori normali sono tra 12 e 14, e l’OMS giudica
anemico un bambino quando il
livello scende ad 11). Un’anemia
così grave costituisce una seria malattia,
mettendo in pericolo la vita
stessa.
Ci spostiamo a Tonguene,
un piccolo villaggio
che vive prevalentemente
della
coltivazione della
menta, richiestissima
al mercato di
Rosso per la preparazione
del tipico
thè mauro, e di ortaggi,
prevalentemente
pomodori, melanzane, patate
e okra.
Il villaggio è costituito da un
grappolo di casupole addossate su
un dolce pendio ad anfiteatro. Nella
piccola valle centrale, un tempo
terreno sabbioso dove pascolavano
le capre, ora si è formato un laghetto,
in connessione con il
bacino del fiume aumentato
di livello per la costruzione
della diga.
Questo marigot è considerato
dagli abitanti
una vera miniera: con
l’acqua trasportata nei
catini sul capo delle
donne si innaffiano gli
orti, si cucina e tutti i bambini passano
interminabili ore a sguazzare
felici nelle sue acque.
La sera al tramonto, sotto due
fromagers che si protendono sulle
sue acque, le donne si raggruppano
per lavare le vesti, i bambini più
piccoli e loro stesse. Tutto sembra
andare per il verso giusto, sennonché
da alcuni mesi sono sempre più
numerose le donne di Tonguene
che si recano a piedi all’ospedale di
Rosso, per portare i loro figli stanchi,
inappetenti, che lamentano talvolta
bruciore a urinare. La diagnosi
è facile: è sufficiente guardare
il colore delle loro urine.
Così capita che un anziano del
villaggio guardi con preoccupazione
quel laghetto e dica che «tutto
questo progresso» lo riempie di
preoccupazioni!
Come porre rimedio al problema
della schistosomiasi in
Mauritania? Occorre formare
il personale sanitario per metterlo
in condizione di conoscere la
malattia e saperla trattare, ed educare
la popolazione riguardo ai sintomi
e alle possibilità di guarigione,
qualora sia assunto un determinato
farmaco. Nelle scuole si deve insegnare
ai bambini a non urinare
nel fiume: meglio in brousse, nella
savana, se non ci sono latrine. E poi
altre strategie, ormai sperimentate
e certamente efficaci nel controllare,
se non l’infezione, almeno la
malattia.
Il problema è sempre lo stesso,
un ritornello noioso che interrompe
spesso i progetti di sviluppo a
queste latitudini: la mancanza di
danaro.
In Mauritania problemi come la
schistosomiasi sembrano insormontabili,
e solo il supporto di un
donatore esterno (in genere, organizzazioni
inteazionali o un governo
o una Ong) può permettee
la gestione. Proprio in queste
settimane nella regione di Rosso,
compreso il villaggio di Tonguene,
grazie al supporto di una fondazione
tedesca e dell’OMS, è iniziata la
distribuzione di praziquantel, un
farmaco efficacissimo nel curare
l’infezione. Ma per molti altri villaggi
in altre regioni o paesi le urine
resteranno rosse a tempo indeterminato.

F come farmaci
PRIMA IL PROFITTO,
POI LA SALUTE

Le multinazionali farmaceutiche investono nei settori dove maggiore
è la possibilità di guadagnare, indipendentemente dai bisogni.
I brevetti sono ostacoli insormontabili. Insomma, i farmaci sono
trattati alla stregua di un qualsiasi altro prodotto.
Questa politica comporta gravi conseguenze per una larga fetta
dell’umanità.
Carlo Urbani

(febbraio 2000)

Un pomeriggio di ottobre del
1999, nella Cambogia nordorientale.
Stiamo percorrendo
una pista che costeggia il fiume
Mekong, risalendone il corso.
Andiamo a verificare lo svolgimento
di un programma di controllo
delle malattie parassitarie, gestito
dal ministero della sanità con
il nostro supporto tecnico. Il programma
sembra andar bene, e siamo
orgogliosi di aver abbattuto i
tassi di mortalità per queste malattie
nella regione.
Decidiamo di concederci una sosta
per sgranchirci un po’ e bere
dell’acqua. Ci fermiamo in un grazioso
villaggio, affacciato su una
bella insenatura del grandioso fiume.
L’aria è pulita e profumata, e la
luce dell’imminente tramonto colora
di violetto le acque del fiume, incoiciato
dal verde della esplosiva
vegetazione. Mi allontano un po’
dalla Toyota, e mi fermo sotto una
delle casupole, tutte uguali, tutte
estremamente precarie: un pavimento
di bambù su quattro alti pali
(le case sono così, anche per proteggersi
dalle inondazioni), quattro
pareti di foglie di palma intrecciate
e un tetto, anch’esso di foglie. Una
bambina sorridente sta appoggiata
alla ripida scala che conduce all’interno,
e in alto sua madre – così credo
– è seduta intenta a eliminare le
scorie da una manciata di riso. Mi
sorride. Così mi tolgo le scarpe e
salgo.
Seduta sul pavimento, la donna
ha sulle gambe un fagotto, che si
muove ritmicamente. Lei sposta un
lembo degli stracci e scopre un bimbetto
(10-12 mesi) ansimante, viso
affilato, occhi spalancati e una colata
di muco dal naso. Chiamo l’interprete,
per avere notizie di quel
piccolo visibilmente sofferente. È
così, mi dicono, da 3-4 giorni; ha anche
smesso di succhiare il seno. Lo
tocco: è bollente. Avvicino un orecchio
al suo dorso: polmonite. Non
si lamenta mentre lo esamino, continua
solo ad ansimare rumorosamente.
Apro la borsa per vedere cosa abbiamo
di utile in quella condizione:
trovo delle compresse di ampicillina
e di paracetamolo. Dovrebbero
andare. Poi l’interprete spiega alla
mamma come fare: bollire dell’acqua, schiacciare una compressa in
una ciotola, scioglierla e dae un
cucchiaio al bimbo ogni 8 ore; poi
reidratarlo con acqua, zucchero e
sale, poi il paracetamolo… cose banali
insomma, una serie apparentemente
semplice di istruzioni.
Ma la preoccupazione sul volto
della mamma sembra indicare tutto
il contrario: manovre complicate,
quasi impossibili, gesti del tutto
estranei alla quotidianità della sua
vita. Ci allontaniamo dalla casupola
lasciando il rantolo del bambino
con la polmonite alle nostre spalle.
L’indomani, sulla via del ritorno,
ci fermiamo di nuovo. La mamma
in lacrime ci dice che la sera prima
il bimbo ha chiuso gli occhi dopo il
tramonto e durante la notte ha
smesso di respirare.
Cosa ha di particolare questa
storia? Nulla, assolutamente
nulla. Rivela semplicemente
quanto accade ogni giorno, in migliaia
di villaggi, per milioni di bambini.
Ricordo la prima volta che misi
piede in Africa, fresco di studi di
medicina tropicale. Aspettavo con
ansia di vedere malati affetti da quei
misteriosi e «affascinanti» morbi
esotici. Rimasi quasi deluso quando,
nella prima giornata di consultazioni
mediche, vidi solo bambini
gravemente malati o prossimi al decesso
per banali infezioni.
Diarrea, infezioni delle vie respiratorie:
sono queste le prime cause
di morte nei paesi in via di sviluppo.
Il 95% dei decessi sono dovuti
a malattie infettive, per le quali
esistono efficaci trattamenti. Ma un
terzo della popolazione mondiale
non ha accesso ai farmaci basici.
Gran parte di queste malattie sarebbero
facilmente curabili; però,
proprio là dove più servono, i farmaci
relativi non sono disponibili,
spesso perché troppo costosi.
La causa di questa discrepanza
tra bisogni
e offerta risiede in
rigide leggi di mercato,
in base alle
quali i prezzi dei farmaci,
protetti da
brevetto, sono fissati
sulla disponibilità a
pagarli nei mercati
dei paesi industrializzati.
Alla base di gran parte dei disastri
sanitari, dell’impossibilità a
gestire epidemie o endemie, a prevenirle,
a impedire la morte per banali
infezioni, alla base di tutto possiamo
affermare oggi con certezza
che c’è un problema di farmaci. Vediamo
di capire di cosa si tratta.
Anzitutto mancano nuovi farmaci
utili in medicina tropicale, che
siano poco tossici, a basso costo ed
efficaci per debellare le malattie
(parassitarie, ad esempio), causa di
sofferenza e morte.
Basta un dato: negli ultimi 20 anni,
tra i 1.233 nuovi farmaci offerti
dal mercato internazionale, solo 11
avevano come indicazione malattie
tropicali, e di questi 7 venivano dalla
ricerca veterinaria. Per cui appena
lo 0,3% della ricerca farmaceutica
contemporanea è indirizzata alle
malattie ai vertici di ogni classifica
mondiale di morbosità e mortalità.
Perché? Semplice, perché queste
malattie imperversano in mercati
poco remunerativi. Le priorità sono,
quindi, più di ordine economico-
commerciale che medico.
Da un lato fiumi di miliardi vengono
investiti sulla ricerca di nuove
pillole contro l’obesità e l’impotenza,
dall’altro quasi niente per malattie
tropicali. Se poi talvolta (e c’è
l’evidenza) una multinazionale farmaceutica giunge a sintetizzare un
farmaco attivo su una malattia tropicale,
spesso il fabbricante decide
di non commercializzarlo, poiché la
sua vendita sarebbe poco remunerativa
nei paesi dove i pazienti interessati
sono concentrati.
A volte, per le stesse ragioni, farmaci
già disponibili, efficaci e semplici
da somministrare scompaiono
improvvisamente, come è stato il caso
della sospensione oleosa di cloramfenicolo,
usata per trattare la
meningite meningococcica (malattia
capace di uccidere in 24 ore). Tale
farmaco era l’alternativa al trattamento
con ampicillina, che richiede
4 infusioni endovenose al giorno,
contro un paio di iniezioni intramuscolari
in tre giorni per il cloramfenicolo.
Una bella differenza,
per trattare pazienti in strutture sanitarie
carenti di materiale e igiene.
Altro esempio, quello della efloitina.
Questo farmaco serve per
trattare lo stadio avanzato della tripanosomiasi,
più conosciuta come
malattia del sonno (trasmessa dalla
famosa mosca tse-tse). Bene, mentre
il vecchio farmaco usato (un derivato
dell’arsenico estremamente
tossico e somministrabile in dolorose
iniezioni) diveniva anche inefficace
per l’insorgenza di ceppi di
parassiti resistenti, appare questo
nuovo ritrovato. Sfortunatamente
due anni fa la ditta produttrice, detentrice
del brevetto, ha deciso di
sospendee la produzione per motivi
commerciali. E i circa 300 mila
malati si vedono rioffrire il vecchio
melarsoprol.
Questo è quanto accade, in questo
mercato globalizzato.
Uno dei problemi principali è
causato dal brevetto che
protegge il farmaco. Il brevetto
rappresenta un diritto sacrosanto
dell’industria per salvaguardare
i frutti dei suoi investimenti in
sperimentazioni. Accade però che
i brevetti si tramutino in micidiali
armi che limitano l’accesso ai farmaci.
Esistono paesi definiti in via di
sviluppo, ma in realtà detentori di
tecnologie sufficienti per una produzione
farmaceutica. Nazioni come
India, Thailandia, Sudafrica o
Brasile sono in grado di produrre
farmaci utili per le loro popolazioni
e quindi rivenderli a prezzi accessibili.
Il prezzo di farmaci come
il fluconazolo, efficace in gravi infezioni
fungine, crolla così dai 20
dollari al giorno per un trattamento
in Kenya, dove è importato, a
meno di un dollaro al giorno in
Thailandia, dove è prodotto da una
azienda nazionale.
Questo è reso possibile da una
norma che si chiama compulsory licensing,
o licenza obbligatoria.
A questo punto, la domanda che
sorge è: etica e sviluppo economico
del settore farmaceutico sono obiettivi
incompatibili?
Le più autorevoli riviste mediche
inteazionali (ad esempio, British
Medical Joual e JAMA) sostengono
che l’etica è compatibile con l’economia.
Per questo i medici, che
operano in questi contesti, sono
stanchi di dover pensare, di fronte
all’ennesima morte di un loro paziente:
«Mi spiace. Stai morendo a
causa di una inadeguatezza del mercato».
Il caso dell’Aids mostra poi cifre
apocalittiche. Il 95% dei malati di
Aids nel mondo non ha accesso a
farmaci efficaci per restituire salute
e dignità. Ma (fatto ancor più
grave) i trattamenti per ridurre significativamente
la trasmissione
verticale dell’infezione da madre
sieropositiva a figlio al momento
del parto non sono disponibili proprio
nei paesi dove questa modalità
di trasmissione sta segnando le
nuove generazioni, condannando a
morte entro 5-8 anni un bambino
già al momento della sua nascita.
Farmaci come l’Azt o la nevirapina,
efficaci anche se somministrati
per solo 4 settimane intorno alla data
del parto, sono vittime delle stesse
regole di mercato. Spietati brevetti
ne permettono la vendita a
prezzi proibitivi e ne impediscono
la produzione da parte di altre
aziende. Se è vero, si può sempre
applicare la licenza obbligatoria. Ci
ha provato la Thailandia iniziando
a produrre Azt per le sue donne
(tantissime) incinte e sieropositive.
Il farmaco ha avuto il costo abbattuto
del 7000%.
La reazione degli Usa, dove risiede
la ditta detentrice del brevetto, è
stata: non possiamo impedirtelo,
ma possiamo però ridurre le importazioni
dalla Thailandia… Cosa
questa insostenibile in questo momento
di crisi economica.
Ecco come vanno le cose.
Farmaci che ci sono, ma costano
troppo; farmaci che esistono,
ma non vengono prodotti,
germi che divengono resistenti ai
comuni trattamenti (Tbc, leismaniosi,
tripanosomiasi, ecc.), ma la ricerca
farmaceutica ha altri obiettivi…
e le cifre di morte e malattia
continuano ad avere parecchi zeri
nei paesi dei poveri del mondo.
Quello che basterebbe è esigere un
«diritto alla salute per tutti».
Già sentito?

SUGGERIMENTI
BIBLIOGRAFICI

ESPERIENZE
Andrea Moiraghi,
Pole pole.
Dentisti volontari in Africa,
Edizioni Camilliane, Torino 2003
CRITICHE AL SISTEMA
Paul Benkimoun,
Morti senza ricetta.
La salute come merce,
Edizioni Elèuthera, Milano 2002
Medici senza frontiere (Msf)
Accesso ai farmaci:
la malattia del profitto,
Dossier di Msf-Italia, Roma 2001
SANITÀ ITALIANA
Paolo Coaglia-Ferraris,
Camici e pigiami,
Editori Laterza, Roma 1999
Paolo Coaglia-Ferraris,
Pigiami e camici,
Editori Laterza, Roma 2000
Informatore anonimo,
La mala-ricetta,
Fratelli Frilli Editori, Genova 2000
SITI INTERNET
• Medici senza frontiere: www.msf.it
• Organizzazione mondiale
della sanità: www.who.org
Tutti i libri sono acquistabili
od ordinabili presso la
«Libreria Missioni Consolata»,
via Cialdini 2/a, Torino;
tel./fax 011.4476695,
e-mail: libmisco@tin.it.

Carlo Urbani (a cura di Paolo Moiola)




INDIA tensioni nello stato del Gujarat

POVERO GANDHI, SEMPRE MENO DI MODA!
Gujarat, uno dei 28 stati dell’«Unione».
Nel 2002 ha riproposto il drammatico «cliché»,
che fin dall’indipendenza (1947)
tormenta il subcontinente indiano:
lo scontro fra indù e musulmani.
Né mancano violenze verso i pochi cattolici.
C’è dell’altro: la religione del giainismo, per esempio.

SANGUE NEL GUJARAT
Che cosa è rimasto del sogno di
tolleranza di Gandhi nel luogo dove
è nato e cresciuto?
Oggi, 27 dicembre 2002, Rajkot
pare una città tranquilla. Pochi giorni
sono trascorsi dalle elezioni, che
hanno concluso un anno drammatico
della storia dello stato indiano del
Gujarat. La tragedia di Godhra, in
febbraio, quando un treno carico di
pellegrini indù fu incendiato da musulmani,
causando la morte di oltre
70 persone, ha segnato l’inizio di una
serie di violenze inaudite, dovute
all’estremismo religioso. La reazione
degli induisti, a marzo, causò
oltre mille morti e decine di migliaia
di senza tetto.
Il capo del governo del Gujarat,
Narendra Modi, non è riuscito a
controllare la situazione. Anzi, la
stampa indiana (che mi pare libera
e critica) lo accusa pesantemente di
aver soffiato sul fuoco, cavalcando
la rabbia popolare e pretendendo di
indire le elezioni in un clima guastato
da tensioni. «Il signore che divide,
che fomenta l’odio tra i cittadini
». Queste ed altre espressioni si riferiscono
al discusso personaggio, la
cui foto occupa da mesi le prime pagine
dei giornali. La vita di Modi,
che abita con l’anziana madre in una
modesta casa nei dintorni di Ahmedhabad,
è sobria, monacale: un
forte contrasto con la veemenza con
cui ha portato il partito induista BJP
(Bharatiya Janata Party) al trionfo
nelle elezioni dello stato…
Lascio l’auto davanti alla statua
bianca del mahatma Gandhi, che a
Rajkot è vissuto da ragazzo, quando
suo padre era il primo ministro del
raja del Saurashtra. Attraverso i giardini
e infilo una stretta via, bordata
dalle bancarelle del mercato. I colori
e gli odori sono quelli tipici dell’India.
La meta è la casa di Gandhi, dove
sono esposte foto e oggetti appartenuti
al mahatma. Nell’elaborare la filosofia
della non violenza, egli certamente
fu influenzato dal giainismo,
la religione che nel Gujarat ha
comunità e centri importanti. Grazie
all’intraprendenza dei fedeli jaina,
infatti, il Gujarat è uno degli stati
più ricchi dell’India. Notevoli sono
le industrie tessili ed elettroniche.
La convivenza tra popoli di diversa
religione, lingua e cultura è una
caratteristica del subcontinente indiano.
Negli ultimi anni, però, si sono
acuite le tensioni tra le comunità
indù, che rappresentano la maggioranza,
e quelle islamiche e cristiane.
L’islam penetrò in India da queste
terre e anche i primi contatti con
l’occidente avvennero qui, in Gujarat.
Quando i britannici decisero di
aprire una base commerciale, scelsero
Surat, mentre i portoghesi
mantennero una colonia a Diu e Daman
fino al 1961.
La regione del Saurashtra, dove
mi trovo, è una penisola stretta tra il
golfo di Cambay a est e il Kutch a ovest,
una landa desertica confinante
con il Pakistan. Essa non fece mai
parte del Raj britannico, ma restò divisa
in piccoli principati fino all’indipendenza.
Oggi molti tra i raja e le maharani,
per mantenere i loro palazzi, hanno
aperto le porte ai visitatori, che possono così godere del fascino di dimore
storiche. Ora tutto pare tranquillo.
Però l’anno che si chiude è
stato traumatico per lo stato indiano
del Gujarat.
PELLEGRINAGGIO SUL MONTE
La città di Junagadh, a sudovest di
Rajkot, è dominata da un colle, circondato
da una fortezza. Scavate
nella roccia sono numerose le grotte
buddiste finemente scolpite. Dentro
le mura possenti sorge una moschea,
costruita con colonne e fregi
di un tempio indù. Il Gujarat ha subito
nei secoli numerose incursioni
islamiche e non è raro trovare questo
tipo di costruzione. Ma l’induismo
ha resistito, a dispetto di tante
devastazioni.
Salgo sulla terrazza, da dove si gode
un bel panorama sui monti vicini
che, domani, saranno meta di una
visita-pellegrinaggio.
Parto prima dell’alba. Quando arrivo
alla base del monte Giar, è ancora
buio, ma la folla preme. C’è un
via vai di portatori e pellegrini, sadu
e venditori. Affronto la ripida ascesa,
che in 3 mila gradini mi porterà
a uno dei più famosi e antichi complessi
templari del giainismo. Passano
le portantine con corpose signore,
pesanti sulle spalle di magri individui
scalzi.
Cerco di resistere alla fatica, ma
ecco che mi viene offerto un bastone
su cui appoggiarmi: Nitika Jain
ha 16 anni ed è curiosa di sapere
tutto di me. Mi segue fino in cima al
monte, parlando fitto e rivolgendomi
tante domande, orgogliosa del
suo buon inglese. «Vengo da Ujain,
dello stato del Madhya Pradesh – mi
spiega -, dove frequento la scuola
nel convento delle suore cattoliche,
la migliore della città. Studio inglese
e informatica». Poi mi presenta
la sua famiglia: i genitori, in abiti
bianchi di pellegrini, una sorella e
un fratellino di 5 anni. Bella gente,
ma nessuno parla inglese.
Il cielo si rischiara e noi affrontiamo
l’ultimo tratto di salita, che ci fa
superare uno strapiombo roccioso.
Quando arriviamo nel luogo sacro,
l’aria si sta riscaldando.
Visito diversi templi; il più grande,
del XII secolo, è dedicato al 22°
saggio (Tirthankara), rappresentato
da una statua in marmo nero, dagli
occhi inquietanti, lucidi, di madreperla.
I templi jaina sono luoghi sereni,
pieni di vita e, sovente, testimoni di
un’arte raffinata. Si trovano templi
giainisti in migliaia di villaggi indiani,
spesso affiancati da ostelli, scuole,
biblioteche, accessibili a pellegrini
di ogni credo.

L’ISOLA PER BERE ALCOOLICI
Dopo aver attraversato rade foreste
di alberi di tek e le brulle pianure
del Kathiawar, arrivo a Somnath,
in riva al Mare Arabico. Qui sorgeva
il tempio d’oro di Somraj, il dio
della luna, che secondo la leggenda
è stato riedificato in argento, poi in
legno e infine in pietra. La fama del
ricco tempio giunse anche al terribile
Mahamud Ghazni, che nel 1024
scese dal suo regno afghano per razziare
e distruggere il sacro edificio.
Oggi il tempio di Somnath è una
costruzione complessa, ma senz’anima,
essendo stato rifatto negli anni
’50. Il sito è spettacolare, alto sulla
vasta spiaggia, battuta da onde. I
frammenti di pietra dell’antica costruzione
sono stati raccolti e vengono
conservati in un piccolo tempio
indù, trasformato in museo. Nel
villaggio si notano uomini con il copricapo
islamico e donne avvolte da
un manto.
Proseguo lungo la costa del Mare
Arabico e arrivo a Diu, l’isola che fu
un’enclave portoghese fino a pochi
anni fa e ora dipende dal governo
centrale di Delhi. Le strade della cittadina
sono animate e gli alberghi
pieni di visitatori. Questo è l’unico
luogo, nel Gujarat, dove è possibile
bere alcornolici e oggi, ultimo giorno
dell’anno, i locali sono presi d’assalto.
Le chiese e il forte che domina
l’abitato sono magnifici, ma malinconici.
La grandiosa chiesa di san Paolo
(l’unica rimasta aperta al culto) è in
uno stato penoso di abbandono. Il
chiostro, ricco di piante, è circondato
da un porticato splendido dall’intonaco
azzurro. Salgo attraverso
l’ampia scalinata che porta al primo
piano, dove sono le aule di catechismo.
Cerco un sacerdote o un fedele
che mi possa guidare nella visita,
ma non incontro nessuno. Uscendo,
l’unica persona desiderosa di darmi
qualche notizia è la venditrice di bibite,
dal suo banchetto sul viale, che
mi parla in portoghese.
L’ultima notte del 2002 la trascorro
a Gir, nella foresta che protegge
gli ultimi esemplari del leone asiatico.
Nel lodge della riserva alcune famiglie
di Delhi si stanno preparando
alla festa di fine anno. Incontro
pure tre ragazze in pantaloni e camicetta:
Medha, Mayanka e Shivika.
Sono «modee» e mettono subito
in chiaro di non volere seguire la tradizione
del loro paese. Viaggiando
in India è un po’ difficile incontrare
donne vestite all’occidentale.
Le giovani parlano molto bene inglese
e ne sono orgogliose. Due di
loro frequentano scuole cattoliche,
anche se sono indù. Stasera staremo
insieme in giardino, intorno al fuoco,
per assistere allo spettacolo dei
danzatori rabari, uomini vestiti di
bianco secondo la tradizione della
regione, con i pantaloni stretti al
polpaccio e l’ampia giacca arricciata
davanti.

UN’INTELLETTUALE ISLAMICA
Seema è un’intellettuale islamica,
che mi parla apertamente del suo
paese e dei gravi problemi che lo affliggono.
«La laicità dello stato oggi
è in pericolo – mi avverte -. L’India è
una nazione giovane che, tuttavia,
dà forti segni di invecchiamento, vacillando
sotto il peso di una popolazione
che esplode, con una povertà
crescente e carenza di pensiero. La
corruzione è dilagante. Dal sistema
delle caste derivano violenza, rabbia,
frustrazione».
L’India diventò indipendente nel
1947, dopo la sanguinosa spartizione
voluta dal separatismo islamico.
Gandhi allora si oppose fortemente
alla divisione, fatta su basi religiose.
Oggi l’indipendenza è minacciata
dal fascismo indù. Lo stato pare incapace
di fronteggiare le forze determinate
a fomentare paura, violenza
e disordini sulle strade, in base
alle differenze religiose.
La religione riveste un ruolo importante
in India, che vanta un numero
di confessioni e sètte superiore
a qualsiasi altro paese. Induismo,
buddismo e giainismo sono nati qui.
Presente è anche lo zoroastrismo, una
delle fedi più antiche del mondo.
Seema spiega: «I padri della patria
vollero fondare uno stato laico
e democratico, mentre oggi il primo
ministro Vajpayee pare orientato a
sostituire la laicità dello stato con la
teoria indù dell’Hindutva, definendola
aperta e illuminata. Anche Jinnah
(fondatore del Pakistan) aveva
cercato di convincere l’allora opinione
pubblica di un islam moderato,
puro, riformista e progressista.
Invece ne vediamo le conseguenze
in Pakistan, uno stato basato sulla
religione. Dopo 50 anni, il paese è
stretto nella morsa dei fondamentalisti,
coinvolti profondamente nella politica e pronti a strappare il potere
ai militari e ai moderati».
«Oggi noi ci ritroviamo personaggi
come Modi (presidente del Gujarat),
che assomigliano a nuovi Hitler.
Anche il nostro presidente, con
i suoi pensieri vaghi e i ragionamenti
ambigui e indecisi può minare le
fondamenta su cui è stata costruita
la nazione indiana… Nel ’47 Jinnah
diceva che l’islam era in pericolo;
oggi lo si dice per l’induismo. Però
né l’islam, né l’induismo, né il cristianesimo
sono in pericolo. Queste
religioni hanno dimostrato di saper
superare le prove del tempo, sopravvivendo
a battaglie e guerre, fanatismi,
invasioni e purghe, mentre
le nazioni crollavano».
Oggigiorno l’India deve affrontare
un grave pericolo: quello di politici
avidi che usano la religione
per mettere i cittadini gli
uni contro gli altri e distruggere
una nazione
costruita con saggezza
e tenacia sulle sue pluralità
e diversità.

RICORDANDO SAN TOMMASO
Una dimora regale, circondata da
un grande parco, ai margini di una
città portuale disordinata e caotica.
Sono a Bhavnagar. Qui una maharani,
oltre ad aver trasformato il palazzo
in un albergo di grande fascino,
ha creato e mantiene all’interno
una scuola matea per bambine.
Stasera le piccole si esibiranno in una
danza tradizionale, nei loro sari
colorati.
Mi affretto ad uscire, diretta alla
chiesa di St. Xavier, a pochi isolati di
distanza, accanto alle prigioni di stato.
Il complesso include l’edificio
scolastico, e l’unica luce nella sera
proviene dagli uffici del parroco. Mi
accoglie una suora in sari. Padre Emanuel
è un giovane
carmelitano di 36
anni, originario
del Kerala, lo
stato indiano
con la
più alta percentuale di cattolici. «I
frati carmelitani di Maria Immacolata
rappresentano la congregazione
più numerosa nel paese; ma ho molti
confratelli che vivono a Roma per
ragioni di studio».
La comunità cattolica di Bhavnagar
si compone di 170 famiglie, provenienti
da diverse parti dell’India.
Gli uomini lavorano al porto, nell’industria
di smantellamento delle
vecchie navi. Un lavoro durissimo,
fatto con mezzi rudimentali.
Parliamo del Kerala, che visitai alcuni
anni fa. Accanto ad una chiesa
di rito latino, voluta dai missionari,
ne esistono altre due: quella siromalabarese,
fondata secondo la tradizione
da san Tommaso nel 52 d.
C., e la chiesa malangara, stabilita
dai portoghesi di Vasco da Gama
nel 1498. In quest’ultima si distinguono
due gruppi: i siro-ortodossi,
che sono circa 3 milioni e hanno un
catholicos in Kerala, e gli ortodossi
giacobiti, con un patriarca in India
e uno in Antiochia.
Nella città di Bhavnagar operano
cinque scuole cattoliche, perché l’educazione
è una priorità per la chiesa
indiana. Purtroppo le violenze
verso i cattolici sono in aumento: nel
sud del Gujarat si bruciano le chiese
e si terrorizza la gente (*). I soprusi
riguardano soprattutto i «tribali
», i «fuori casta» dei villaggi, fra
i quali operano i sacerdoti.
C’è chi è contrario allo sviluppo e
l’educazione. Pertanto i paria devono
rimanere ignoranti, per ragioni
politiche. Anche le elezioni sono
manipolate e, per farlo, occorre
che la popolazione
sia incapace di disceere.

(*) Secondo un progetto di legge del
26 marzo 2003, in India le conversioni
religiose sono molto ostacolate; anzi,
sono considerate un crimine se si
ricorre alla forza. Nello stato del Gujarat
una simile conversione è punibile
con tre anni di prigione e una multa di
2.100 euro.
Le gerarchie cattoliche, protestanti e
ortodosse hanno criticato il disegno di
legge. L’arcivescovo cattolico Stanislaus
Feandes, di Gandhinagar, teme
che sia uno strumento per spaventare
i cristiani nella testimonianza della loro
fede (ndr).

INDIA: 28 STATI E 7 TERRITORI
Con 1 miliardo e 40 milioni di abitanti,
è il paese più popoloso
del mondo dopo la Cina. Vasta pure
la superficie: 3.287.263 chilometri
quadrati
.
È una repubblica federale o «unione», con capitale New Delhi.
L’unione comprende 28 stati, ciascuno
dotato di assemblea legislativa
e governo propri, e 7 territori
amministrati dal governo centrale
di New Delhi. Il potere è gestito
dal partito nazionalista indù BJP
(Bharatiya Janata Party). Tuttavia
nel 2002 il partito del congresso,
all’opposizione, ha vinto le elezioni
nello stato dell’Uttar Pradesh,
che è cruciale per
il controllo dell’intera unione.
Sempre alta la tensione nello stato
del Kashmir, a causa dei separatisti
musulmani. Anche il Gujarat,
nel febbraio-marzo 2002, è
stato sconvolto da violenze:
oltre 700 i morti.

La religione del giainismo
ANCHE CON IL VELO SULLA BOCCA
La religione del giainismo fu fondata nel VI secolo a.C. da Vardhamana,
detto Mahavira. A 30 anni lasciò la famiglia e i piaceri di una vita
agiata, per dedicarsi alla meditazione e all’ascetismo sulle orme di
alcuni saggi che lo avevano preceduto, chiamati Tirthankara.
Come il buddismo (di cui è contemporaneo), anche il giainismo nacque
come un movimento riformista dell’induismo; ne rifiutava la divisione
in caste, per esempio. Retta fede, retta condotta (con i cinque comandamenti:
non nuocere, non mentire, non rubare, castità, povertà)
e retta conoscenza sono le basi del credo jaina.
Un altro elemento essenziale per la salvezza è il rispetto verso ogni
essere vivente: ecco perché i jaina sono vegetariani rigorosi; e alcuni arrivano
persino a coprirsi la bocca con un velo per evitare di inghiottire
inavvertitamente qualche insetto. Uno stile di vita tanto rigoroso è riservato,
però, alle comunità religiose: 10 mila asceti, di cui 6 mila donne.
Il saddhi (asceta) errante incarna il rispetto per la vita dei jaina:
non ha Dio, né maestri. Accetta le opinioni e i credi diversi, per evitare
ogni forma di violenza. Pulisce la terra davanti ai piedi, per non rischiare
di pestare ogni minimo essere vivente.
Questi principi consentirebbero ad ognuno di diventare un «vittorioso
», liberarsi del proprio io, conseguendo l’illuminazione e la purificazione.
I fedeli laici hanno regole meno severe per la castità e la proprietà,
ma non devono arricchirsi a dismisura.
Sanno che la ricchezza
è un’illusione, uno stato passeggero;
e, quando hanno raggiunto
il benessere, possono decidere
di distribuire le loro ricchezze,
creando fondazioni educative
e caritatevoli.
Il giainismo non ha mai preteso
la conversione di masse, ma
l’esempio dei suoi asceti pellegrini
ha saputo attirare nella comunità
aristocratici, ministri e
persone facoltose.
Oggi i jaina sono solo 3 milioni
e mezzo, ma rappresentano
una delle comunità più influenti
e dinamiche dell’India.
Proprio sul monte Giar opera
Masturbai Lal Bhai, fondatore di
uno dei primi 15 imperi industriali
indiani. Superati i 50 anni,
si è ritirato dagli affari per
dedicarsi ad opere di bene e alla
manutenzione del maestoso
complesso templare sul Giar.

Claudia Caramanti




TORIBIO (COLOMBIA) bambini portatori di «handicap»

UN «CD» MUSICALE IN FAVORE DI…

Più che un articolo, è una lettera.
Per raccontare l’esperienza quotidiana
e invitare alla solidarietà,
nel rispetto della cultura locale,
in un contesto sociale drammatico.

TEATRO DI SCONTRI
Dall’alto delle Ande colombiane
un affettuoso saluto a tutti i lettori
di Missioni Consolata. Il nord del
Cauca, dove lavoro come missionario,
è sulla cordigliera centrale: quindi
è montagnoso, con altezze che variano
dai 1.400 ai 3.500 metri.
Non sono solo. Opero con altri
cinque missionari della Consolata,
un gruppetto di suore e alcuni laici.
Un saluto anche da parte loro. In équipe
serviamo quattro parrocchie:
Toribío, Tacueyó, Jambaló e Caldono.
Però, in realtà, la nostra attività
si estende a tutto il territorio indio
del popolo dei nasa, formato da 20
resguardos (riserve indigene).
Il luogo è ameno, con un clima favorevole:
è quasi un’eterna primavera
che permette di coltivare mais,
caffè e, nelle zone più calde e pianeggianti,
canna da zucchero. Non
manca la frutta.
Il mio saluto è anche preoccupato,
perché il nord del Cauca è teatro
di aspri conflitti sociali. Da circa 40
anni, data la posizione strategica di
ponte fra il nord e sud del paese, la
regione è una delle più cruciali della
Colombia, sede di gruppi guerriglieri:
Farc (Forze armate rivoluzionarie
colombiane) e Eln (Esercito di
liberazione nazionale). La zona recentemente
è diventata pure una via
di transito della cocaina.
Sul territorio si registrano continui
scontri armati fra la guerriglia, da una
parte, e l’esercito nazionale e le
milizie paramilitari dall’altra. La criminalità
organizzata, legata al traffico
di stupefacenti, rende il quadro
ancora più tetro.
E, come sempre accade, chi soffre
di più le conseguenze della lotta
armata è la popolazione civile,
aggredita, ferita e uccisa da personaggi
senza scrupoli. Ne deriva un
progressivo impoverimento delle
comunità.
Negli ultimi anni il nord del Cauca
ha registrato una forte crescita
demografica e, di conseguenza, una
maggiore richiesta di mezzi per l’educazione,
la salute e l’alimentazione;
ma non è seguito un corrispondente
aumento della produzione.
L’economia agricola è in grande parte
di sussistenza. Vittime soprattutto
di tale situazione sono i giovani e,
in maniera drammatica, i bambini.
Una cospicua parte delle attività
pastorali della parrocchia è diretta
proprio a quest’ultima fascia debole
della popolazione. Gli interventi
sono diversificati: vanno dalla catechesi
ordinaria, che consente un diretto
rapporto con i bambini nelle
scuole, alla preparazione ai sacramenti,
al sostegno dei Semilleros de
la paz (seminatori di pace). È questo
un movimento di educazione alla
pace; i bambini provengono sia
da centri urbani sia da frazioni di
campagna dove vive la maggioranza
della popolazione.
Ancora: da oltre un anno è in corso
un programma di adozioni a distanza,
appoggiato dall’associazione
Italia solidale, con la quale riusciamo,
grazie alle autorità indigene e al
lavoro di volontari locali, a raggiungere
i bambini più bisognosi.

SE LA VITA È DURA
Il contatto capillare con le famiglie
più povere ci ha aperto gli occhi
su altri problemi, non facilmente
percepibili ad un primo sguardo
sommario. Alludo alla situazione
dei bambini disabili o gravemente
malati, bisognosi di interventi specifici
di chirurgia o di rieducazione:
trattamenti che, data l’estrema povertà sociale, sono fuori della portata
dei genitori.
Ebbene, quando un amico di Torino,
Gabriele, mi ha parlato della
possibilità di incidere alcuni brani
musicali su CD per proporlo in «offerta
» e inviare i proventi alla nostra
missione, ho pensato subito ai piccoli
disabili. Il progetto di Gabriele
potrebbe essere condiviso anche da
altri amici italiani.
Ho scritto che il fenomeno della
«differenza» non è subito facilmente
avvertibile. Mi riferisco anche alle
barriere culturali, che tendono a
isolare e nascondere i bambini portatori
di handicap fisici o mentali.
Oggi una maggiore coscientizzazione
sul valore della persona permette
a molte creature sfortunate di
vivere: non vengano più soppresse
nelle prime ore di vita, per consentire
alla famiglia una sopravvivenza
senza il fardello ulteriore di un figlio
«esigente».
Ciò che a noi può apparire un dato
aberrante deve essere, però, letto
nel contesto di una vita durissima,
dove la lotta per sopravvivere è
quotidiana e dove un bambino handicappato
sottrae alla famiglia forze
importanti, che potrebbero consentire
agli altri membri maggiori
probabilità di crescere, di andare a
scuola, ecc.
Nella regione del Cauca il tasso
di mortalità infantile è elevato, e la
denutrizione è una delle cause principali
(se non la più grave) che porta
il bimbo a soccombere, oppure a
vivere con pesanti condizionamenti
fisici e psicologici.
A questo si aggiunge un altro fatto:
un figlio penalizzato fin dalla nascita
(anche se accettato) rimane sovente
abbandonato a se stesso. Una
terapia specifica potrebbe aiutarlo a
crescere, a sviluppare le sue potenzialità,
a unirlo di più alla comunità.
Questa, invece, tende a isolarlo.
In tale contesto l’azione «con» e
«sulla» famiglia è fondamentale per
intaccare il male alla sua radice. Però
molti genitori non sono in grado di
offrire ai figli un ambiente idoneo
dove possano almeno «non peggiorare» la già precaria situazione.

ALTRE BARRIERE
Il problema della famiglia è acuto.
Tanti nuclei familiari sono frutto
di unioni forzate, dovute a gravidanze precoci.
In numerosi casi il padre è assente,
fisicamente ed economicamente.
Tante madri sono incapaci di educare
i figli, che vengono pertanto affidati
alla nonna o ad una sorella
maggiore, con pochi anni di più. Risulta,
allora, quasi impossibile che
un bambino disabile, bisognoso di
particolare attenzione, abbia un adeguato
accompagnamento da parte
dei familiari, mentre necessiterebbe
di assistenza e riabilitazione
costanti in un ambiente che lo circondi
di affetto.
Incide molto anche la fede popolare
nel medico tradizionale (sciamano)
e nei benefici della sua medicina.
D’altro lato, c’è il sospetto e,
talvolta, la paura di affidarsi alle cure
della medicina occidentale; dal
dottore o all’ospedale si va se lo prescrive
lo sciamano. Tale credenza è
molto radicata nella gente, anche
per l’indubbio ruolo socio-religioso
che lo sciamano esercita all’interno
della società indigena.
La presa di distanza dalla medicina
occidentale fa sì che, sovente, la
donna preferisca partorire in casa,
aiutata da una partera e sotto gli auspici
dello sciamano, anche quando
il parto, per la sua difficoltà, richiederebbe
il ricovero in una struttura
ospedaliera. Va da sé che tali scelte
possono essere causa di handicap
nel nascituro e rischiose per l’incolumità
della puerpera.
Ai problemi di origine culturale si
aggiungono quelli più strettamente
economici. I genitori sono poveri e,
anche se volessero, sarebbe per loro
impossibile fornire ai figli, portatori
di handicap, un’attenzione sanitaria
in grado di aiutarli a vivere
meglio la disabilità.
La nostra regione, poi, non possiede
alcuna struttura capace di offrire
un’attenzione specializzata ai
portatori di handicap. Le famiglie
che possono o desiderano fare qualcosa
per loro devono, giocoforza, rivolgersi
altrove: alle strutture ospedaliere
di Santander de Quilichao,
Cali, Popayán.
E ciò è un freno alla buona volontà
di una famiglia di Toribío. Infatti
il solo viaggio in chiva (tipica
corriera colombiana) a Santander,
la cittadina più vicina (a 45 chilometri
percorribili in circa due ore)
può rappresentare un problema serio
per tante famiglie; senza contare
che, in molti casi, la specifica infermità
del bimbo esige un trasporto
su un’auto privata, sicuramente
più costoso. A questo si aggiunga la
tradizionale diffidenza del contadino
verso il mondo urbano e a quanto
egli percepisce come minaccia.
La situazione di scontro armato
peggiora ulteriormente le cose, visto
che la gente vive in un territorio interamente
controllato dalla guerriglia;
mentre nella zona pianeggiante,
all’imbocco della valle, stazionano
l’esercito e i paramilitari, sempre
pronti ad identificare o sospettare in
chi viene dalla montagna un simpatizzante
della guerriglia. Le troppe
persone uccise, sequestrate o fatte
sparire, in questo interminabile conflitto,
consigliano a tutti di muoversi
con estrema prudenza e, sempre,
con molta ansia.
E che dire del costo di una visita
specialistica, delle medicine, della
degenza in ospedale talvolta necessaria
in città?
Tutto ciò crea barriere insormontabili
per la quasi totalità delle famiglie.

PERÒ QUALCOSA C’È GIÀ
Con l’apporto di benefattori stranieri
e di medici colombiani sensibili
al problema, siamo riusciti ad
offrire interventi agli arti e al cuore
di alcuni bambini disabili. Però la
strada è ancora lunga e tortuosa.
Per ora il nostro progetto è assai
modesto: vorremmo creare una piccola
équipe di specialisti operanti in
loco, in grado di aiutare i bambini
bisognosi nei resguardos di Toribío,
San Francisco e Tacueyó. La prima
unità sanitaria dovrebbe essere formata
da un fisioterapista, un logopedista
e uno psicologo, che potrebbero
lavorare sia nel centro urbano
sia nelle veredas, visitando non
solo i bambini, ma anche le famiglie,
chiamate a garantire l’accompagnamento
costante dei piccoli pazienti.
Oltre a superare il problema del
trasporto, il sistema garantirebbe
pure un intervento medico rispettoso
della cultura locale. Sarebbe
impensabile un aiuto psicologico ignorando
il contesto socio-culturale
della popolazione.
Lo stato iniziale del progetto non
ci consente di quantificare l’aiuto
necessario per incominciare ad operare.
Sicuramente dovremo istituire
un piccolo centro, fornito di qualche
materiale per un’azione fisioterapica:
una cyclette, alcuni tappetini
di gomma piuma, una spalliera e
quanto ci verrà consigliato dal personale
addetto alla gestione del centro.
Tale personale può essere contattato
attraverso università specializzate
nel settore.
Intanto una ragazza di Tacueyó,
abilitata in logopedia, presto inizierà
a lavorare nel progetto, facendosi
carico dei bambini con problemi
di udito e parola. Ma abbiamo
bisogno di un piccolo fondo di
denaro per incominciare l’attività.
E, da questo, procedere con un progetto
concreto più definito.
Intendiamo partire dai casi più
semplici, che diano un risultato visibile
a breve termine, per mostrare
alle famiglie più scettiche che esiste
una luce, seppur fioca, all’uscita del
tunnel. Spesso le mamme non portano
i figli alla terapia, perché non
vedono miglioramenti e si rifugiano
nel classico: «Tanto non c’è nulla da
fare!». Oppure: «Campa cavallo!».
Con il vostro sostegno, cari amici,
ci piacerebbe sfatare
questi nefasti luoghi comuni.
Grazie.

(*) Padre Ugo Pozzoli, torinese,
dopo la laurea in filosofia all’università
cattolica di Washington, è
missionario in Colombia.
Ha vissuto anche una breve esperienza
in Ecuador.

Ugo Pozzoli




SUGLI ALTIPIANI DELL’ETIOPIA – 1a puntata

SEMI DI SPERANZA

Grande come mezza Italia, il vicariato di Meki
è stato fondato e organizzato dal sudore dei
missionari della Consolata. Per oltre 30 anni, essi
hanno «fatto un lavoro meraviglioso» afferma
il nuovo vescovo, mons. Abraham Desta; ma resta
molto da fare, sia nel campo dell’evangelizzazione
che in quello della promozione umana.

Il 10 maggio scorso è stata una
data storica per il vicariato apostolico
di Meki. Anche il cielo ha
voluto partecipare alla festa: un temporale
notturno ha spazzato via la
cappa caliginosa che ricopriva questo
infuocato angolo della Rift Valley,
promettendo una boccata d’aria
più respirabile. La mattina, un cielo
terso come uno specchio ha fatto da
sfondo al grande evento: l’ordinazione
episcopale di abba Abraham
Desta, secondo vescovo del vicariato
apostolico di Meki, successore di
mons. Johannes Waldeghiorghis, deceduto
nel settembre 2002.
Oltre ai 4 mila fedeli, missionari,
preti locali, religiose e religiosi impegnati
nel vicariato, hanno partecipato
alla celebrazione tutti i vescovi delle
nove diocesi dell’Etiopia, il nunzio
apostolico e vari vescovi e leaders ortodossi.
La stragrande maggioranza
dei convenuti è rimasta fuori della
cattedrale, seguendo la funzione da
due schermi televisivi. Beati loro! I
privilegiati ammessi all’interno della
chiesa hanno sudato le proverbiali
sette camicie per quasi quattro ore,
tanto è durata la funzione.

IL VESCOVO VENUTO DAL NORD
Ha presieduto la cerimonia mons.
Berhaneyesus Souraphile, arcivescovo
di Addis Abeba, assistito dai vescovi
di Adigrat e di Harar. La celebrazione
eucaristica è stata in lingua
amarica e rito latino; la consacrazione
episcopale in lingua ge’ez e rito orientale.
Non sono dettagli di pura curiosità:
le differenze dei riti rispecchiano
storia, organizzazione ecclesiastica
e strategia missionaria adottata in
Etiopia. Le regioni settentrionali del
paese (Tigrai e Shoa) furono evangelizzate
fin dal IV secolo; ma due secoli
dopo la chiesa etiopica si trovò
separata da Roma per incomprensioni
di teologia cristologica, dando
origine alla chiesa copta ortodossa.
Quando nel secolo XIX Agostino
De Jacobis (1839-60) cercò di attirare
gli ortodossi nella comunione con
Roma, conservò lingua, riti e legislazione
orientali.
Nelle regioni del sud, invece, abitate
da popolazioni prevalentemente
non cristiane, il card. Guglielmo
Massaia (1846-77) preferì adottare il
rito latino, ancora in vigore anche nel
vicariato di Meki.
L’uso del ge’ez e la presenza del vescovo
di Adigrat, inoltre, sottolinea
l’origine del nuovo vescovo, che, come
il suo predecessore, proviene dalla
diocesi tigrina.
Nato 51 anni fa, Abraham Desta
studiò nel seminario di Adigrat e, dopo
l’ordinazione, continuò gli studi
in Irlanda, presso un istituto dei Gesuiti,
conseguendo la licenza in teologia
dogmatica e diplomi in sviluppo
comunitario e teologia pastorale.
Tornato in patria, ricoprì vari incarichi:
per nove anni fu rettore del
seminario minore di Adigrat; poi segretario
del vescovo e responsabile
della pastorale e formazione dei giovani;
dopo sette anni fu nominato
cancelliere e direttore del Segretariato
cattolico della diocesi, finché,
nel gennaio scorso, fu raggiunto dalla
nomina di vescovo di Meki.
«È stata una sorpresa – confessa
abba Abraham -. All’inizio, com’è umanamente
comprensibile, mi sono
posto varie domande: sono la persona
giusta? Come potrò assolvere
questo compito? Ce la farò? Poi,
nella preghiera, ho chiesto a Dio Padre
di darmi la forza per accettare e
fare la sua volontà».

SPERANZA EVANGELICA
Ed è proprio durante un periodo
di preghiera e ritiro spirituale, in preparazione
della sua ordinazione, che
incontro abba Abraham e gli porgo
qualche domanda, a cui risponde volentieri.
Cosa pensa del vicariato che è
chiamato a guidare?
«Prima dell’ordinazione ho voluto
rendermi conto della vita della
chiesa in questa regione del paese, visitando
tutte le parrocchie, incontrando
la gente e i missionari e missionarie.
Sono stato felicemente impressionato
dalla mole di lavoro fatto
dal mio predecessore, dai missionari,
preti fidei donum, suore di varie
comunità religiose. Mi ha commosso
lo zelo di tante persone impegnate
nel portare alla gente la speranza
del vangelo, specialmente dei missionari
della Consolata, che sono all’origine
di questa diocesi».
Il vescovo si lancia in un elogio
sperticato dei missionari della Consolata, sciorinando nomi di missioni,
padri e fratelli. Ed è sincero.
Fin dai primi anni ’70, quando arrivarono
i padri Giovanni De Marchi,
Lorenzo Ori, Giovanni Bonzanino,
è stato fatto un lavoro gigantesco
(cfr. M.C. gennaio e maggio 2003):
in pochi anni, il territorio di Meki, distaccato
dalla chiesa madre di Harar
(1980), diventò prefettura apostolica
e poi vicariato (1992).
È una regione immensa, dallo Shoa
meridionale alla Somalia, localizzata
in gran parte nello stato dell’Oromia,
con estensioni in quello delle Nazioni
etniche meridionali. Misura oltre
156 mila chilometri quadrati (quasi
mezza Italia) e conta 5,3 milioni di abitanti,
in prevalenza oromo, con minoranze
etniche indigene (kambatta,
adya, wolaita, guraghe) o immigrate
(amhara e tigrini).
Gli oromo sono quasi tutti musulmani;
gli altri gruppi etnici sono cristiani
(ortodossi, cattolici e protestanti)
e di religione tradizionale.
Oggi il vicariato di Meki conta oltre
21 mila cattolici e oltre 2 mila catecumeni:
erano circa 4 mila i battezzati
nel 1980; 14 mila nel 1992.
L’adesione alla chiesa cattolica è forte
soprattutto tra le etnie minoritarie;
ma anche tra gli oromo si registra
il passaggio di famiglie intere dall’islam
al cattolicesimo.
Più delle cifre, sono le innumerevoli
opere sociali (scuole, asili, ospedale,
lebbrosari, dispensari, centri di
formazione religiosa e promozione
umana, pozzi e acquedotti, interventi
umanitari di emergenza…) a testimoniare
la mole di lavoro che la
chiesa di Meki continua a svolgere a
favore di centinaia di migliaia di persone
di ogni etnia e religione, seminando
tra la gente «speranza evangelica
» per un futuro migliore.

PALLA O… PATATA?
«Naturalmente c’è ancora molto
da fare – continua il vescovo -. Ho visto
che vaste zone sono ancora da evangelizzare.
I missionari della Consolata
sono essenziali; ma ho paura
che mi lascino solo».
La frase è sibillina, ma so a che cosa
allude. I missionari della Consolata
hanno sempre voluto dare massima
visibilità al clero locale: quando
fu creata la prefettura di Meki,
essi insistettero che fosse un prete etiopico
a guidarla; appena una parrocchia
è funzionante, premono perché
sia affidata al clero diocesano,
per aprire una nuova missione in zone
ancora incolte.
C’è ancora un posto di responsabilità,
da 30 anni in mano a un missionario
della Consolata: l’amministrazione
del vicariato. Tale carica richiede
continui contatti e trattative
con amministrazioni e governo, per
lo svolgimento dei programmi sociali
e di sviluppo del vicariato. Inoltre,
dal momento che Meki conta già
una quindicina di preti locali, i missionari
hanno ventilato l’idea di passare
loro la palla, ritenendo che un
prete oromo possa intendersi con le
autorità meglio di un visopallido.
Più che di palla, forse si tratta di…
patata bollente: basta guardare padre
Giovanni Monti, attuale amministratore
e direttore dei vari uffici
della curia: è rimasto pelle e ossa e,
in pochi mesi, ha aggiunto tre buchi
alla cinghia dei calzoni, anche se non
è mai stato in sovrappeso in vita sua.
«I missionari della Consolata hanno
svolto un compito meraviglioso;
il futuro della diocesi dipende ancora
dal loro supporto – continua il
nuovo vescovo incensando -. Sono
felice di lavorare e programmare insieme
a loro. Spero e prego, quindi,
che essi vedano le esigenze e problemi
della diocesi e aumentino la loro
presenza, per rispondere alle attese
sociali e religiose della gente, che in
tanti villaggi aspettano ancora la consolazione
del vangelo. Da soli non ce
la possiamo fare».

VISIONE E REALTÀ
A proposito di programmi, cosa
prevede per il futuro?
«Per ora non ho in mente nessun
piano, sarebbe prematuro. Prima di
delineare una strategia, ho bisogno
di sedermi con tutte le persone coinvolte
nelle attività del vicariato e ascoltare
cosa hanno da dire. Ma ho
una mia visione, un traguardo da
raggiungere. Nel vicariato ci sono già
molti cristiani: dobbiamo fare in modo
che si impegnino realmente, fino
a diventare autosufficienti e capaci
di aiutare gli altri. È pure il cammino
indicato dalla lettera pastorale
della Conferenza episcopale etiopica:
La chiesa che vogliamo essere.
È un cammino da fare tutti insieme:
vescovo, clero, religiosi, suore,
catechisti e fedeli, uniti in mente e
cuore, nella preghiera e comunione,
nella condivisione, diffusione e testimonianza
del vangelo. Vogliamo essere
una chiesa non ripiegata su se
stessa, ma che guarda sempre avanti,
che guarda fuori, come le comunità
primitive che, quando ricevettero
la missione di Cristo, non si chiusero
in se stesse, ma andarono a
portare altrove la buona notizia. Vogliamo
costruire una chiesa non dipendente,
ma capace di inviare missionari
e aiuti alle chiese in necessità
di altri luoghi.
Intanto, però…
«Siamo ancora una chiesa bisognosa
di personale e aiuti materiali.
Viviamo tra gente molto povera. Anche
quest’anno, l’intero paese è in
stato di emergenza a causa della siccità
e della fame; il vicariato di Meki
è parte del problema; soprattutto la
gente che vive nell’area della Rift Valley
si trova in una situazione disperata.
Dobbiamo pensare ai bisogni
materiali della gente. Non possiamo
aspettare, predicando solo cose spirituali;
devono anche riempire lo stomaco.
La comunità internazionale e
la chiesa universale ci stanno aiutando
molto. Ma non dobbiamo
perdere di vista il traguardo: edificare
una chiesa sempre più coinvolta
nello sviluppo del territorio, protagonista
di cambiamento, fino a rovesciare
la situazione di povertà
della nostra gente».
Come sono i rapporti con i musulmani?
La loro presenza è in aumento?
«A livello nazionale e internazionale,
il Coo d’Africa è nel mirino
della comunità mondiale e, nel suo
insieme, non so cosa accadrà in futuro.
Per ora direi che esiste una certa
“tensione” a livello psicologico;
ma sul piano pratico non vedo problemi
concreti e pericolosi.
Anche a livello locale non ho riscontrato
tensioni particolari. Ma ho
notato un fatto preoccupante: lungo
la strada da Shashemane al Bale ho
contato 10 moschee nuove: una ogni
dieci chilometri. Noi cattolici abbiamo
una chiesa ogni 100 chilometri.
Ho una certa apprensione: dobbiamo
intervenire in fretta. Non si
tratta di provocare contrasti, ma di
presenze pacifiche, per fare conoscere
l’etica della nostra religione e
la testimonianza della nostra carità evangelica.
Aspettare potrebbe essere
troppo tardi. Per questo ho intenzione
di aprire una nuova parrocchia
nel Bale.
Anche le sètte evangeliche sono in
aumento…
«E sono molte. Vengono con tanto
denaro e la gente povera è attratta
dai soldi. Anche a questo aspetto
dobbiamo fare fronte, non ricorrendo
ai loro metodi, denaro in cambio
di conversione, una prassi che aborriamo,
ma aiutando la gente a riscoprire
la propria dignità umana e formare
cristiani dalla fede solida.
Ho visto che i missionari hanno
fatto un grande lavoro in tale direzione,
e questo mi dà coraggio: hanno
preparato un buon numero di catechisti,
leaders e laici impegnati.
Occorre continuare.
L’unità e solidarietà della chiesa
cattolica, sia essa in Italia, Etiopia o
America, mi dà fiducia nell’assumere
la responsabilità di guidare una comunità
povera di personale e mezzi
come il vicariato di Meki. Confido
nella chiesa universale, per rispondere
alle infinite necessità della nostra
gente. Per questo faccio appello anche
alla generosità di quanti sostengono
i missionari della Consolata. E
li ringrazio di cuore. Sono certo che,
lavorando insieme, mano nella mano,
riusciremo a portare consolazione
e speranza evangelica in
questa remota parte dell’Etiopia».

STEMMA EPISCOPALE
Dall’alto: la corona (simbolo di santità
e buone opere), la tipica croce etiopica
e il pastorale (simbolo di servizio,
autorità e magistero).
I tre cerchi indicano la Trinità.
Il centro del campo è occupato dalla
Madonna con il bambino e la scritta
in caratteri etiopici: «Il verbo si è fatto
carne». Maria è rappresentata come
madre di Dio e in atteggiamento
di preghiera, figura della chiesa orante.
Il roveto ardente, oltre a ricordare
la figura di Mosè, simboleggia la rivelazione
definitiva di Dio mediante
l’incarnazione del Figlio.
La quercia a sinistra, tipica del paesaggio
dell’Oromia e presente nella
bandiera dello stato omonimo, simboleggia
fertilità e pace: alla sua ombra
si siedono gli anziani per discutere
i problemi della gente.
In basso il motto episcopale: «Lampada
ai miei passi è la tua parola, luce
sul mio cammino» (Sal 118,105).

SCHEDA DI MEKI
Superficie: 156.600 kmq.
Popolazione: 5,3 milioni.
Parrocchie e centri: 12.
Chiese cappelle: 64.
Cattolici: 21.520.
Catecumeni: 2.092.
Personale missionario:
17 missionari della Consolata,
3 fidei donum, salesiani, fratelli scuole
cristiane, suore di 12 istituti religiosi.
Personale locale: vescovo,
15 preti diocesani, una congregazione
di suore indigene.
Attività: seminario minore
e maggiore, evangelizzazione,
130 progetti (scuole, sanità, acqua,
agricoltura…) a beneficio di 2,47 milioni
di persone, per una spesa di 6 milioni
di euro in 5 anni.

Benedetto Bellesi




DOVERE-DIRITTO AL NON INGANNO

Sono desolato della cecità autolesionista delle
lettere di G. LAURENTI E S. NOVARESE (cfr. Missioni
Consolata, febbraio 2003). Come i farisei,
cui Gesù rivolse parole di fuoco (cfr. Mt 23, 13-
36), attentano al diritto e dovere di verità (non
di inganno). Sventolano acritici le mistificazioni
del potere di tuo… e sono pronti alla crocifissione
degli eterodossi per «legittima difesa».
«IL SILENZIO DEGLI ONESTI» – lamentava M. L. King –
è la pietra tombale della ricerca di verità e giustizia.
Non trovo nulla di falso e tendenzioso in ciò
che lamenta G. TORRE (cfr. Missioni Consolata, ottobre/
novembre 2002), anche se non è tutta la
verità. Ma al «ministero della verità» non c’è spazio per
affermazioni difformi, come quelle sulla trappola di Rambouillet
e sul finto massacro di Racak, prima della guerra
alla Serbia; non c’è spazio per studi minuziosi sulla guerra
in Afghanistan, come quelli P. Chalmers, N. Chomski, M.
Chossudowski e cronisti come G. Chiesa; non c’è spazio
per la non-disponibilità di Usa, Israele, Cina, Pakistan,
ecc. ad ispezioni dell’Onu sulle armi di distruzione di massa,
per il mancato rispetto delle risoluzioni dell’Onu da
parte di Israele, Turchia, Usa, ecc.; non c’è spazio per le
quotidiane contraddizioni del capitalismo reale.
Non c’è spazio per le gravi responsabilità dei poteri (politico,
economico, culturale, militare) e neppure per le affermazioni
conformi di G. Bush, D. Rumsfeld, R. Cheney, C.
Rice, R. Pearle, ecc. sulla guerra preventiva e infinita, sul
diritto al dominio e sul «Gott mit uns».
Esiste anche un altro problema: nessuno riesce più a badare
adeguatamente a tutte le tragiche esibizioni di follia
anti-vita da parte di integralisti islamici, ebrei, cristiani,
hindu… kamikaze, mercenari, marines; di ricconi faeticanti
che credono di poter comprare anche il tempo; di elitarie
conquiste mediche di nicchia e contemporanee immani
disfatte epidemiologiche; di parassiti e delinquenti
che gestiscono le nostre o altrui risorse con la violenza,
l’inganno o l’acquiescenza delle vittime.
Gli insegnamenti del vangelo sui talenti, sulla trave e la
pagliuzza negli occhi,
tramandatici nel nostro
ambiente culturale, esigono
che la responsabilità
sia proporzionata alle
risorse disponibili: un
fatto che inchioda soprattutto
l’occidente alla
vergogna per un insistente
doppio standard
di comportamento e di,
forse, irripetibili opportunità
mancate.
Distanziandosi da questo,
il cristianesimo ha
tutto da guadagnare.
Svegliamoci! Basta con
l’ipnosi tronfia e insulsa,
contaminata da cinque secoli di ricorso «razionalizzato»
al cancro della guerra e del nemico! Basta con gli arroccamenti
paludati su culture, etnie e fedi (tutte etichette
ambigue, troppo spesso in balìa di falsari)! Basta con i re
nudi, accecati dal loro sussiego e dalla corte di mistificatori,
con suggeritori burattini.
Sono tutte insidie dalle quali siamo stati messi in guardia,
fin da piccoli, dai libri di Andersen e Collodi, ma che
troppi spudorati opinion makers ci fanno credere attinenti
a quella acerba stagione, lontana dalla nostra presunta
autosufficienza di fortunati cittadini sovrani di società uniche,
realizzate, e consumatori del carnevale continuo
dell’Occidente obeso… salvo i danni collaterali di scoprirsi
squali con stomaci da canarini.
Spero ancora nel coraggio di uscire dalla sbornia
ego/etnocentrica! Meglio patetici brancaleoni e «don
quixote», che si mettono in gioco, che essere giocati in una
matrice senza rischi né redenzione!

Lettera interessante, ma di non facile lettura. Il testo
originale è più lungo. Noi ci siamo permessi di sunteggiarlo,
sperando di avee rispettato il contenuto.
(Cogliamo l’occasione per annunciare che GIULIETTO
CHIESA risponderà alle critiche sollevate da alcuni lettori
su MC di settembre.)

MICHELANGELO LANZA




LIBERAZIONE DAL NAZISMO E UNIONE SOVIETICA

Ho letto con stupore l’articolo di GIULIETTO CHIESA su
Missioni Consolata, 1/2003. Condivido la lettera di
dissenso del signor ZANOTTO (M.C., 4/2003), ma non la sua
risposta, signor direttore.
Il signor Zanotto lamenta, nelle affermazioni fantasiose
di Chiesa, «non un dato, una cifra, una citazione, una
pezza d’appoggio». Lei, direttore, doveva rispondere alla
richiesta. Invece nulla! Lei conferma «il contributo dell’Urss alla libertà, avendo sconfitto… il nazismo».
Interroghiamo la storia cui l’articolista, a parole, fa appello.
Il 23/8/1939 viene annunciato, fra lo stupore del
mondo, un patto di non aggressione fra la Germania (Hitler,
Ribbentrop) e l’Urss (Stalin, Molotov), che sancisce
la divisione di un libero stato, la Polonia, e riconosce all’Urss notevoli vantaggi territoriali (stati baltici, ecc.).
Con tale patto infame Hitler può invadere la Polonia, occupare la parte riconosciutagli dal patto e poi scagliare
le sue armate e la sua aviazione contro Francia, Belgio,
Inghilterra, ecc. Successivamente l’Inghilterra si troverà
da sola a fronteggiare la potenza tedesca, ma il popolo
inglese, guidato da Churchil, non cede.
Questo sarebbe il contributo dell’Urss alla libertà?
L’Urss, attaccata successivamente da Hitler, si difende
strenuamente e combatte sanguinose battaglie per ricacciare
l’invasore. Alla fine, in seguito all’apertura di altri
due fronti (che il Chiesa sembra ignorare), uno a sud (Italia) e l’altro a ovest (Normandia), con l’apporto degli
Stati Uniti (che, pur impegnati in estremo oriente contro
il Giappone, non lesinano uomini e mezzi), il nazismo è
vinto.
L’Urss, che dalla rivoluzione d’ottobre del 1917 era retta
da una feroce dittatura, instaura negli stati occupati
(Polonia, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria, Germania
est) rigide dittature comuniste con la negazione pressoché
totale delle più elementari forme di libertà. La cortina
di ferro, il muro di Berlino, la rivolta di Budapest
(1956), la primavera di Praga (1968), Solidaosh e i
processi-farsa (cardinale Mindszenty) non hanno bisogno
di commenti. Libertà? Quale? In che campo?
In chiusura, non intendo fare il difensore degli Stati Uniti, sulla cui azione (vedi la recente guerra all’Iraq) si
può anche dissentire o essere nettamente contrari; ma
trovo difficile negare che siano una grande democrazia
che, pur con atteggiamenti talora criticabili, presenta
anche meriti indiscutibili: valga per tutti la difesa dalle
minacce dell’Urss durante la lunga «guerra fredda». Con
viva cordialità in Cristo
AZEGLIO COLLINI

Il signor ZANOTTO è rimasto male da ciò che ha scritto
GIULIETTO CHIESA sulla guerra 1939-45. Allora consiglierei
di ripassare la storia.
La seconda guerra mondiale fu decisa nel febbraio
1943 a Stalingrado, con la resa all’esercito sovietico del
generale tedesco von Paulus e della sua armata. Durante
l’intero conflitto i sovietici ebbero 20 milioni di morti.
Lo sbarco in Normandia nel giugno del 1944 accelerò la
fine della guerra; ma, senza l’Urss, non credo che gli Stati
Uniti e i loro alleati sarebbero riusciti a vincerla.
Poi fu necessario un altro «sistema», pensato bene,
con le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.
ARMANDO FOGLI

Altre volte l’abbiamo detto e ora lo ripetiamo: non è
compito di MISSIONI CONSOLATA affrontare sistematicamente
la storia politica dell’Occidente, anche perché
gli studi al riguardo abbondano. Se vi sono accenni,
questi mirano ad illustrare soprattutto
l’impatto positivo e negativo del nord
del mondo rispetto al sud, e viceversa.
Qui, sì, che «le pezze d’appoggio» per il
grande pubblico scarseggiano. Oppure sono a
senso unico.

AZEGLIO COLLINI ARMANDO FOGLI




«E IO DICO “ALLELUJA”»

Caro direttore,
leggo che alcuni lettori sono esterrefatti
per il cambio
di linea del giornale. E io
dico «ALLELUJA».
Finalmente un giornale
cristiano che non segue
l’omologazione, che parla
di giustizia per i sofferenti,
che si indigna veramente
per le ingiustizie
che i missionari vivono ogni
giorno sulla propria
pelle e, soprattutto, sulla
pelle dei più poveri da loro
aiutati.
Complimenti vivissimi a
quei «lettori farisei»,
chiusi nel loro orticello di
perbenismo, BRAVISSIMI a
battersi il petto e a dire
«perdono Signore», ma
INCAPACI di capire gli altri.
Ci sono due lettori, in
particolare, che hanno
parlato delle nostalgie di
GIULIETTO CHIESA per il comunismo
reale. Nessuno
nega le tremende devianze
di un regime anti-umano;
ma io voglio anche ricordare
un principio fondante
del comunismo
come pensiero originario:
L’IDEA CHE TUTTI GLI UOMINI SONO
UGUALI.
Cari lettori, voglio dirvi,
se per caso non lo ricordate,
che è uno dei principi
fondamentali della dichiarazione
dei diritti dell’uomo.
Vi fa schifo? Ritenete
giusto che davanti ai
giudici chi ha soldi possa
difendersi meglio di chi
non li ha?
Pensate che la NESTLÉ
abbia fatto bene a fare
causa all’Etiopia, paese
che è in tremenda carestia,
per un «principio»?
Pensate che sia giusto
bombardare un popolo
provato da anni di embargo
con bombe all’uranio
impoverito, che porteranno
morte per molti altri
anni?
Ebbene, Dio mi perdoni,
voglio aprirvi gli occhi: il
capitalismo è questo, fatevene
una ragione. È VIOLENZA,
È PROTERVIA E SOPRUSO.
Non lo dico solo io: lo dice
anche il papa, che non
perde occasione per mettere
in evidenza gli effetti
perversi di questa ideologia
tremenda. La ricerca
del consumismo, la competizione
a tutti i costi
porta all’emarginazione di
chi non ce la fa.
Il lettore di Perugia, signor
FRESSOIA, ci informa
che vive con 2.000 euro al
mese. Voglio dirgli che se
il suo datore di lavoro troverà
modo di risparmiare,
in nome del santo profitto
beninteso, lo farà e lo
butterà IN MEZZO AD UNA
STRADA come un fazzoletto
usato. Dire questo vuol
dire essere comunisti?
State dando del comunista
anche al papa, che
richiama tutti invece ai
valori della solidarietà e
dell’amore, valori incompatibili
con il consumismo
sfrenato e senza regole,
che è l’essenza del
capitalismo. Infine vi prego
con tutto il cuore: USIAMOLO
IL CERVELLO, perché nostro
Signore ce lo ha dato
per usarlo e non per gettarlo
all’ammasso.
Ringrazio, caro direttore
e cari redattori di Missioni
Consolata, per l’attenzione
che mi avete riservata.
Per favore, continuate su
questa strada.

Sì, non mettiamo il cervello
in soffitta. Però usiamolo
bene, senza acrimonia.

Luciano Teodoli