AFRICA CENTRALE – Pigmei I «piccoli» signori

Ritoo agli albori della nostra umanità

E LA LUNA STAVA
A GUARDARE

Nel sud del Camerun vivono, isolati nella foresta,
i pigmei baka, ma per quanto ancora?
La deforestazione e la prepotente invadenza
dei bantu sta mettendo fine a questo meraviglioso mondo, distruggendo per sempre la cultura
e la storia del più antico popolo dell’Africa.

Gennaio-febbraio 2003.

…I canti cessano e il suono dei tamburi va sempre più affievolendosi fino ad arrestarsi del tutto. Sento dei passi che si allontanano, qualche rumore sordo ed infine cade il silenzio, la festa d’iniziazione è finita. Edjenghi, lo spirito, è ritornato nella foresta.
Mi guardo intorno, tutti si sono ritirati a dormire nelle minuscole capanne, illuminate dai bagliori delle braci. Un senso di pace e di tranquillità mi pervade, anche i lugubri rumori che echeggiano ogni tanto nella foresta, che cinge il minuscolo villaggio, mi sono diventati familiari.

Mi siedo a guardare quel piccolo lembo di cielo stellato, che spunta dalle alte cime degli alberi, e mi ritorna in mente la leggenda: «I padri dei nostri padri vivevano al bordo della grande acqua, dove gli animali erano numerosi. Poi un giorno venne il popolo nero, con lance e scudi di ippopotamo, e dissero che la terra era loro…

I nostri padri dissero: No! Non è vero! La battaglia incominciò e molti morirono.
Allora i nostri padri dissero: fuggiamo!
Le donne con i bambini partirono e i guerrieri li seguirono proteggendoli. I padri dei nostri padri dissero: abiteremo la foresta!».

C osì da più di cinquemila anni i pigmei vivono nella tenebrosa foresta, cacciando, pescando, raccogliendo quanto offre in un connubio armonico di perfetto equilibrio fra le risorse naturali e il solo fabbisogno giornaliero, senza accumuli e sprechi e, devoti al loro mondo-foresta, la ringraziano con danze e canti.
Ma il pericolo che li aveva minacciati migliaia di anni fa si è materializzato nuovamente ancora sotto la forma del «popolo nero», a cui si è aggiunta quella del «popolo bianco»; e questa volta non è rivolto solo alla loro esistenza, ma anche a quella della loro amata foresta.

Giro lo sguardo nel piccolo villaggio e provo un senso di tristezza. Perché deve finire tutto ciò? Perché le cose semplici devono soccombere? Perché non è possibile vivere senza distruggere?
Il pensiero ritorna al primo impatto con la foresta, quando con i miei compagni di viaggio decidiamo di andare a conoscere i baka, i pigmei che vivono nella parte meridionale del Camerun, sotto la riserva di Dija, verso il confine con il Congo.
Mi ricordo che, prima di entrare nella foresta, avevo alzato istintivamente la testa verso le cime degli alberi, e mi ero sentito piccolo, incredibilmente piccolo. I primi passi che mossi all’interno mi diedero la sensazione di oltrepassare un sipario che si apriva lentamente davanti a me, dove, a fatica, riuscivo a mettere a fuoco le cose che mi si paravano davanti, frastornato dalle mille gradazioni di verdi che sembravano velarle.
Provai la netta sensazione di avventurarmi verso l’ignoto e l’istinto mi fece girare di scatto, per fissare almeno il punto da dove ero entrato e avere quindi un riferimento certo; ma tutto era già scomparso: come Alice quando aveva attraversato lo specchio, anch’io ero entrato in un’altra dimensione. Un mondo umido, apparentemente inospitale, dove corsi d’acqua formano acquitrini, paludi, e danno vita a una selva sovrastata da giganteschi alberi, dalle cui cime filtra mollemente la luce del sole o scompare del tutto, lasciando uno stato di isolamento e di solitudine, che permea da tempo immemorabile ogni cosa.

Più mi addentravo e più provavo un senso di oppressione per la pesantezza della natura che mi circondava, oltre all’umidità dell’aria che mi riempiva i polmoni a ogni respiro.

Superato il primo impatto, quando la calma riprese il sopravvento e incominciai a mettere a fuoco le cose, a rilassarmi, a muovermi con più disinvoltura, allora mi resi conto di essere entrato in un mondo affascinante che mi riportava inevitabilmente all’enigmatica materializzazione dell’«altro», che è più o meno in noi: la suggestione del «come eravamo».

Il desiderio di conoscere i baka, «i signori della foresta», ci fa superare ogni ostacolo, ogni fatica, e la stanchezza svanisce davanti all’emozione del primo incontro, quando in una radura naturale, finalmente scorgiamo quattro enkulu, le tipiche casette a forma di igloo, e i loro ospitali e sorpresi abitanti.

Di una mitezza proverbiale, inclini al sorriso, curiosi ma riservati, ci accolgono permettendoci di allestire il campo fra le loro casette, di seguirli nelle loro attività, di condividere con loro la giornata.

I baka, vivono una vita semplice, atavica: la si vede subito dalle loro piccole abitazioni, fatte di rami e ricoperte di foglie impermeabili, che solo all’apparenza sembrano fragili, ma che resistono bene alle forti piogge cui sono sottoposte quasi quotidianamente. All’interno l’arredamento è minimale: un letto di canne, qualche stuoia, pochissime suppellettili, qualche pentola per cucinare ed il fuoco sempre acceso.
L’attività quotidiana degli uomini è la caccia. Lungo piste, a noi invisibili, percorrono la foresta, armati di balestre o lance, alla ricerca delle trappole disseminate, dove ignare finiscono prede come: gazzelle o piccoli caivori che, dopo essere stati affumicati, vengono tagliati a pezzi e racchiusi in larghe foglie.

Durante il loro giro di perlustrazione sono sempre attenti a ciò che li circonda, pronti ad approfittare di ogni occasione. Abilissimi a imitare i suoni da richiamo degli animali, sfruttano questa tecnica per avvicinarli e quindi ucciderli con le loro frecce avvelenate.
Mentre gli uomini si dedicano alla caccia o ad allestire le trappole, le donne, oltre ad accudire ai bambini, si recano nella foresta, con la gerla sulle spalle, a raccogliere tutto quello che trovano di commestibile, conoscendo alla perfezione tutte le proprietà delle piante e come utilizzarle.

Al villaggio le si vede ritornare cariche di radici, tuberi o banane verdi da cuocere e poi, sedute sotto ripari di foglie o davanti alla propria casa, a intrecciare stuoie o preparare la cena, usando grossi machete o pestelli.
La vita sociale, pur essendoci un capo villaggio, è governata da un sistema altamente democratico che si basa principalmente sulla meritocrazia. Non minacciano, non puniscono, non giudicano, perché ogni disputa viene ricomposta partendo dal presupposto che è meglio ristabilire l’armonia per il bene di tutti.

Abituati a vivere sull’essenziale e spostandosi frequentemente nella foresta, rifuggono dai soliti canoni estetici di vanità; unica eccezione è la limatura dei denti che appuntiscono, oltre a qualche piccolo tatuaggio o scarificazione sul volto o, come in alcune donne anziane, un piccolo foro sul labbro superiore segno di appartenenza a un particolare clan. E poi ci sono i canti, i balli, i festeggiamenti per la raccolta, per le iniziazioni.
Q uando i tamburi presero a suonare, fu come un segnale: i primi ad arrivare furono i bambini, poi le donne; gli uomini avevano già preso posto e preparavano gli iniziati.

Si disposero tutti in cerchio e incominciarono a cantare e danzare; il ritmo si fece sempre più frenetico e i canti più alti; poi calarono improvvisamente e restarono solo i tamburi e, da uno spiraglio della foresta, si materializzò Edjenghi lo spirito.

Una grande agitazione pervase i presenti che ripresero i canti e i balli, con gli occhi puntati sulla enorme figura che piroettava nel centro dello spiazzo, alzandosi e abbassandosi ritmicamente.
Mi allontanai e mi sedetti a fianco della mia tenda a osservarli, grato di avermi invitato alla loro festa, ma conscio che solo gli iniziati e la luna potevano partecipare.

Da Omero… al saccheggio della foresta

SCOMPARE UN PEZZO DI UMANITÀ

Piccoli: perché?

A ntropologhi e studiosi di genetica, già nel secolo scorso, cercarono di capire perché i pigmei erano «piccoli». La maggior parte era convinta che fossero privi dell’ormone della crescita. Il fatto si rivelò errato: l’ormone c’è; ciò che è carente, specie durante il periodo della pubertà, è un’altra sostanza biochimica contrassegnata con la sigla IGF-1 (Insuline-like Growth-Factor), peraltro oggetto ancora di studio.
La mescolanza della razza pigmea con quella dei bantu (generalmente sono gli uomini bantu che sposano le donne pigmee e non viceversa) danno vita a figli più alti, creando, se si può dire, una nuova classificazione etnica denominata pigmoide.

Da quanto tempo esistono?

Sono ritenuti fra i primi abitanti dell’Africa. La loro comparsa documentata risale al 3° millennio a.C., in un antico papiro ai tempi del faraone Neferkere, che ne volle uno a corte come ballerino. Coincidenza o no, il dio egizio della danza, Bes, è raffigurato come un nano.
Anche Omero, nel terzo canto dell’Iliade, li descrive nella battaglia con le gru, chiamandoli Pygmaios (alti un cubito). Nelle Metamorfosi di Ovidio, viene descritta la gelosia di Giunone per la regina dei pigmei, che verrà trasformata in gru.
Sempre nella mitologia, anche Ercole, durante le sette famose fatiche, si imbatte sulla costa mediterranea in un esercito di omuncoli. Descrizioni contrastanti e a volte fantasiose sulla esistenza, furono portate da Erodoto, Aristotele, Plinio. Nell’era cristiana sant’Agostino, nella Città di Dio, ammette, se pur vagamente, una loro esistenza.
Dal X secolo fino al XVII secolo si cade nell’oscurantismo della ricerca scientifica, per dare luogo a quella delle dissertazioni accademiche, che arrivano addirittura a equipararli a scimmie o a esseri deformi, che popolano il mondo sconosciuto; tipico il trattato di Giacinto Gimmi intitolato De hominibus et de animalibus fabulosis.
Solo verso la fine del 1800, con le prime esplorazioni nel grande continente africano, ci fu l’incontro «sul campo» con questa sorprendente etnia, uno dei primi fu il naturalista George August Schweinfurth.

Minaccia Continua

R elegati quasi nella preistoria, a volte messa in discussione perfino la loro esistenza, non riconosciuta una loro cultura, vissuti in secoli di isolamento, tutto questo scompare di fronte agli ultimi 50 anni di contatti con il resto dell’umanità.
Tali contatti iniziarono dapprima con i «grandi neri» bantu, sotto forma di baratto: scambiavano selvaggina con sale, tabacco, granaglie e altri beni. Quindi sono caduti nella spirale della dipendenza, foendo manodopera di tipo feudale agli agricoltori neri, in cambio di inutili vestiti e di alcolici, dando via a un inizio di sedentarizzazione non loro congenito.
Inoltre, l’invadenza e vicinanza sempre più soffocanti dei bantu incide profondamente sulla vita spirituale e materiale, tradizioni e libertà di questo piccolo popolo della foresta.
Ma c’è anche l’incontro con il «popolo bianco», interessato a soddisfare i bisogni di pregiato legname per costruire mobili o pavimenti da calpestare. E così incomincia, o meglio, è già in atto la deforestazione, quindi la distruzione del mondo dove vivono, emarginandoli anche fisicamente.

Dio nell’arcobaleno
T utta l’espressione culturale dei pigmei è permeata da una profonda spiritualità, che si manifesta con la danza, i canti e i riti. Essi riconoscono l’esistenza di un Dio creatore di tutte le cose: Komba presso i baka, Nzambe presso i bakola/bayeli, Kmvum per i bambuti. Generalmente Dio si manifesta sotto la forma dell’arcobaleno.
Parallelamente esistono una moltitudine di piccole divinità o spiriti della foresta, ai quali essi si rivolgono per tutte le loro imprese: caccia, pesca, raccolta del miele, danza, musica, riti.

Le aree di distribuzione
O ggi i pigmei vivono nell’immensa foresta tropicale, più precisamente in otto stati dell’Africa: Burundi, Camerun, Congo, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centroafricana, Repubblica Democratica del Congo, Rwanda.
Tale dislocazione contribuisce alla differenziazione di vari aspetti culturali, per cui essi si distinguono in diverse etnie:
– bambuti nel Congo, a loro volta suddivisi a seconda della lingua parlata in aka, afe, awa;
– bongo nel Gabon;
– baka, detti anche babinga, nel Camerun.

Oggi in Camerun si distinguono tre grandi gruppi di pigmei:
– i baka, circa 40 mila, occupano il sud e sud-est del paese;
– bakola o bayeli vivono nella parte sud-ovest e sono stimati in circa 3.000 individui;
– medzam, appena 1.500, sono nella piana di Tikar, nel centro del Camerun.
Tristemente possiamo dire che un nostro stadio di calcio li contiene tutti.

Bruno Bocchi




Di stampo URSS

Qualche mese fa, in un pubblico intervento, è stato detto dal più alto responsabile del governo italiano che la nostra Costituzione, quando tratta di iniziativa economica, sarebbe impostata secondo l’ideologia «sovietica», imperante nel contesto politico di allora. Di fronte a questa affermazione, a dir poco stupefacente, pare doveroso cercare di capire ciò che effettivamente la magna charta repubblicana afferma e, soprattutto, se può essere fondata una interpretazione del genere.
La nostra Costituzione (una delle migliori del mondo, tanto da essere presa a modello da non poche altre nazioni) nella sua prima parte, «Diritti e doveri dei cittadini», è personalista, solidale e rappresenta il frutto maturo di una positiva convergenza di diversi filoni di pensiero cattolico e laico, tutti animati da un alto senso dello stato democratico e del bene comune per costruire insieme una «casa per tutti i cittadini».
Sappiamo come nei dibattiti alla Costituente, vivaci e battaglieri, si è sempre cercato da tutte le forze politiche rappresentate non di prevaricare gli uni sugli altri, con l’arroganza tipica di oggi, ma, con viva intelligenza, profonda cultura e operosa pazienza, di raggiungere una piattaforma comune di valori umani nel rispetto di tutti.
Cosa dice la Costituzione circa la tematica economica in questione? «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi ed i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e cornordinata a fini sociali» (art. 41). Due le affermazioni importanti: la libertà di iniziativa privata, o di impresa come qualcuno preferisce; una libertà però non assoluta, ma da situarsi in un contesto di rispetto della persona («sicurezza, libertà, dignità umana»), perché l’attività economica non può essere fine a se stessa o per il benessere di pochi, ma di tutti, poiché esiste «una utilità sociale» dell’economia stessa.
A questo punto viene da chiedersi: questa impostazione è frutto dell’ideologia «sovietica» oppure di una ispirazione genuinamente umana e cristiana?

Chi conosce, anche sommariamente, il vangelo e l’insegnamento sociale della chiesa, specialmente dell’enciclica Rerum novarum, fino ai pronunciamenti del Concilio Ecumenico Vaticano II e di Giovanni Paolo II, sa benissimo che la tesi circa «l’utilità sociale» dell’economia, assunta dalla Costituzione, è in piena consonanza a questo Magistero. Si potrebbe dire che è la traduzione laica della genuina visione cristiana sui rapporti eticamente corretti tra uomo e beni materiali. Solo chi è inspirato da un pensiero neoliberista e, purtroppo, governa di conseguenza, può trovare nel testo costituzionale una impostazione «sovietica».
D’altronde non è il caso di meravigliarci più di tanto. Ai tempi di Leone XIII, il papa della Rerum novarum, in cui si affermava che il lavoro dell’uomo non è merce, che la persona viene prima del profitto, che è lecito agli operai associarsi per difendere i loro giusti diritti, parecchi, anche nel cosiddetto «mondo cattolico», dicevano che il papa era diventato «socialista»! C’è di più: probabilmente se si continua a leggere nella Costituzione, l’accusa di essere «sovietica» potrebbe ancora diventare più grave. Infatti l’articolo 42 dice: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurae la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».
Dunque non solo l’attività economica, ma pure la proprietà privata deve rispettare e adempiere una funzione sociale. Addirittura si afferma che la società (e perciò chi governa) deve fare in modo, con opportune leggi, che tutti possano accedervi. Evidentemente perché i costituenti erano convinti che l’uomo è più importante delle cose e che occorreva evitare il rischio quanto mai reale per cui, avendo pochi il possesso di molto o moltissimo, i molti non giungano mai neppure al possesso di poco. E questo certo non è conforme alla volontà di Dio al riguardo.
Insegna il Vaticano II nella Gaudium et spes: «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli e pertanto i beni creati devono essere partecipati equamente a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità; pertanto quali che siano le forme della proprietà, si deve sempre tenere conto di questa destinazione universale dei beni» (69).
Allora la nostra Costituzione reca l’impronta «sovietica», oppure, felicemente e genuinamente, quella biblica-cristiana, anticipando perfino, in una certa misura, il dettato conciliare?… È perciò triste dover constatare come alcuni politici, con relativi loro sostenitori che pur dicono di inspirarsi ai princìpi sociali cristiani, possano pubblicamente fare certe affermazioni, senza neppure suscitare motivate e giuste reazioni.

Sebastiano Dho, vescovo di Alba




La presenza

Domenica 9 marzo, nella parrocchia di S. Martino a Gangalandi di Lastra a Signa (FI), si tenne l’assemblea diocesana di Azione cattolica dedicata ai giovani, con l’approfondimento dei temi «chi siamo», «cosa cerchiamo», «in cosa crediamo». Vi partecipai quale presidente dell’Azione cattolica della parrocchia di S. Maria ausiliatrice (Firenze), unitamente alla responsabile del settore giovani.
Importante fu, nell’intervento dell’assistente nazionale giovanile, don Francesco Silvestri, la riflessione sul tema «verità». La verità è Lui, Gesù: con i suoi immutabili insegnamenti ci indica la via da seguire e, con il suo sacrificio d’amore, ci fa giungere alla vita eterna, vero scopo della nostra esistenza.
Pertanto è con Lui che, ogni giorno, dobbiamo cercare il diretto contatto spirituale, rispondendo al grandissimo dono di amore dell’eucaristia. Il Signore, grazie all’ostia consacrata, è sempre presente nelle chiese parrocchiali, con possibilità per noi di andare a trovarLo quando vogliamo. E noi a Firenze abbiamo la fortuna di averLo, ogni giorno, solennemente esposto nelle due piccole chiese di via Faenza e via Rucellai, presso la stazione di S. Maria Novella.
A questo costante, quotidiano e personale rapporto di amore Gesù ci tiene moltissimo, come si rileva anche dalla promessa che Egli stesso fece a suor Maria Consolata Betrone, clarissa cappuccina di Moncalieri, di cui il 6 aprile scorso è stato commemorato il centenario della nascita pure a Firenze con una tavola rotonda presso il monastero delle clarisse cappuccine di via S. Marta, 18.
«Ogni tuo atto d’amore – rivelò Gesù a Maria Consolata – rimane in eterno. Ogni tuo atto d’amore ripara per mille bestemmie. Ogni tuo atto d’amore è un’anima che si salva. Per un tuo atto d’amore creerei il paradiso… L’atto d’amore ti aiuta a valorizzare al massimo ogni istante di questa giornata terrena, facendoti osservare il primo e massimo comandamento: “Ama Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze”».
«Gesù ti amo»: una piccola frase, ma espressiva ed efficace che, ripetuta spesso durante la giornata (anche, ad esempio, nell’attesa del verde di un semaforo) realizza quell’«atto incessante di amore» che costituì il programma di vita di suor Consolata e che consente pure a noi di vivere il rapporto personale con Gesù, verità, via, vita. Senza dimenticare di andarLo a trovare dove è presenza eucaristica, da Lui stesso più volte confermataci con tanti miracoli.
Tra i miracoli eucaristici ne ricordo alcuni: nell’anno 595 a Roma (pane in carne e sangue); nel 750 a Lanciano (l’ostia si converte in carne e il vino in sangue del gruppo AB, lo stesso risultato dalle analisi del sangue della Sindone); nel 1171 a Ferrara (l’ostia sprizza sangue); negli anni 1230 e 1595 a Firenze in S. Ambrogio (sangue coagulato e ostie illese nel fuoco); nel 1263 a Bolsena (ostia sanguinante); nel 1330 a Cascia (ostia insanguinata); nel 1333 a Bologna (l’ostia si eleva); nel 1453 a Torino (ostia elevata in aria); nel 1535 ad Asti (ostia sanguinante); nel 1730 a Siena (conservazione di ostie consacrate); nel 1772 a Napoli (ostie ritrovate intatte); nel 1847 a Torino con S. Giovanni Bosco (ostie moltiplicate).
Al riguardo esiste una videocassetta televisiva, dal titolo «È la speranza» (dura circa un’ora).
Anche in Francia, Belgio, Olanda, Spagna, Portogallo, Svizzera, Germania, Austria e Polonia si ebbero diversi miracoli eucaristici.
In conclusione, non si può scordare l’enciclica di Giovanni Paolo II Ecclesia de Eucharistia. Inoltre, fra i misteri del rosario, il papa ha inserito anche «i misteri della luce», tra cui l’istituzione dell’eucaristia. È il mistero che realizza la consolante promessa di Gesù: «Io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo» (Mt 28, 19-20).
Giuseppe Simini

Giuseppe Simini




MOZAMBICO – Gabbia di matti

Tra le malattie diffuse nel distretto di Mecanhelas, la pazzia rivela tutta la sua drammaticità; spesso è accompagnata da epilessia.
I missionari si sono fatti carico del problema, con buoni risultati, coinvolgendo le comunità cristiane in una rete di solidarietà che, con il nome di Caritas, è estesa ad altre situazioni.

Era un bel ragazzo di nome Marcellino, ma la droga gli aveva consumato il ben dell’intelletto. Mentre lo accompagnavo, insieme ad altri malati, all’ospedale psichiatrico di Nampula, si gettò dal treno che, sprovvisto di freni d’emergenza, si fermò dopo cinque minuti a una stazione. Diedi allo zio che lo accompagnava del denaro e il compito di recuperare il nipote fuggitivo con l’aiuto della polizia locale.
Il ragazzo fu recuperato una settimana più tardi, con vari segni di ferite, non dovute alla caduta dal treno, ma alle botte ricevute. Dopo la caduta, infatti, Marcellino si era subito rialzato, mettendosi a correre per riprendere il convoglio. Non essendoci riuscito, cercò di sopravvivere rubando galline, porcelli e divorandoli crudi nella foresta. Per tre volte i contadini lo avevano catturato e consegnato alla polizia; ma era sempre riuscito a evadere dalla prigione.
Il viaggio successivo Marcellino lo fece con una buona dose di tranquillanti in corpo. Dopo il recupero si è sposato e lavora la terra.
La sua storia è emblematica di quanto sto per raccontare.

NON SI VEDE, MA C’È
Quando arrivai come missionario laico nel distretto di Mecanhelas, nel maggio 1999, si pensava che esistessero nella zona quei cinque o sei casi, da considerare i classici «scemi del villaggio». Tre anni dopo, i malati mentali registrati dalla parrocchia erano quasi 200; nel giugno 2003 circa 700: quasi l’1% della popolazione del distretto.
La pazzia è poco visibile, perché molti malati passano l’esistenza legati con catene di bicicletta a un albero, vicino alla casa di famiglia. La loro sopravvivenza dipende dal buon cuore dei familiari: se questo manca, cosa non infrequente, la polenta quotidiana diminuisce giorno per giorno, provocando una lenta morte per inedia.
Spesso i malati mentali costituiscono un elemento di disturbo e di pericolo per le comunità: insultano, picchiano, bruciano le capanne, rubano… Finché il consiglio si riunisce e dispone che il malato venga soppresso in modo indolore, incaricando qualcuno di porgergli un piatto di cibo avvelenato. Non abbiamo dati precisi, ma riteniamo che una decina di malati mentali muoiano ogni anno per fame o per veleno.
Principale causa di tale malattia pare essere la suruma, un’erba allucinogena importata dal Malawi: provoca delirio, crisi di aggressività e uno stato simile alla schizofrenia. Viene fumata per lavorare senza sentire fatica e fame.
I contadini drogati (surmàticos) li si vede zappare la terra fin dalle prime luci dell’alba e continuano ininterrottamente fino al tramonto, senza assumere alcun cibo. Presto, però, alla voglia di lavorare subentrano delirio, aggressività e trascuratezza della propria persona.
Traumi dell’infanzia, risalenti ai tempi della guerra civile (1977-92) e incapacità della famiglia di educare i figli ad affrontare le difficoltà della vita incoraggiano la malattia mentale: una volta divenuti adulti, essi possono «perdere la testa» di fronte a un problema più grande del normale.
Circa il 75% dei malati mentali soffre anche di attacchi epilettici. In questi casi è chiamato in causa l’alcornolismo, che conduce al decadimento del cervello.
Un bicchiere di cachaça, bevanda superalcolica, costa pochi centesimi e aiuta a dimenticare la fame e le difficoltà della vita. Alcuni lavoratori vi spendono l’intero stipendio mensile appena percepito, ubriacandosi fin quasi a morire. Capita pure di incontrare ragazzini già ubriachi fradici di prima mattina. Parlare con i genitori non serve a molto.
Un’altra causa dell’epilessia può essere la presenza di parassiti intestinali nella stragrande maggioranza della popolazione locale, per mancanza d’igiene. Alcuni parassiti, tra cui la tenia, a volte migrano dall’intestino verso il cervello e vi depositano le uova: questo provocherebbe attacchi epilettici e comportamenti anormali.

MATTI DA LEGARE
All’inizio di dicembre 1999, apparve nei pressi della missione di Mecanhelas, un ragazzo di 20 anni, magro, sporco, muto, con un sorriso ebete. Antonio, questo il suo nome, cominciò a farsi notare montando sui cassoni dei fuoristrada, o arrampicandosi sugli alberi di mango, per lanciae i frutti ai passanti e aspettare che gli stessi glieli restituissero in faccia.
Poi Antonio cominciò a rompere i vetri della missione per impadronirsi delle tendine, con cui amava cingersi alla testa. Per il resto, indossava solo un paio di slip femminili.
La polizia non si interessava del caso. Noi missionari cominciammo a tirare giù Antonio dagli alberi, dove si rifugiava quando era inseguito, e rinchiuderlo in una cella improvvisata. Non sapevamo che negli slip nascondeva un coltello, con cui si liberò e scappò dalla finestra.
Catturato un’altra volta, fu legato a un albero, affinché, approfittando della pioggia torrenziale, si lavasse un poco. Dopo la doccia, Antonio ricevette un bel maglione di lana verde; il giorno dopo lo ridusse in decine di rocchetti di filo che collezionava in una borsa.
Dopo l’ennesima cattura, per vetri rotti e tendine strappate dalla casa dei missionari, era venuto il momento di occuparci seriamente di Antonio. Lo accompagnammo al manicomio più vicino (oltre 400 km da Mecanhelas), diretto da uno psichiatra missionario della congregazione di San Giovanni di Dio.
Dopo alcuni mesi toò ingrassato, parlava normalmente, salutava e ci ringraziava per averlo aiutato. Aprì un piccolo commercio di olio alimentare e sigarette e cominciò a vivere da persona normale.
Passò qualche mese e constatammo che Antonio stava peggiorando di nuovo, fino a ripiombare nella follia a causa della suruma. Lo riportammo al manicomio e fu di nuovo disintossicato. Adesso continua a vivere a Mecanhelas, ma non è del tutto normale. Il problema è che non ha una famiglia che lo sostenga a rimanere lontano dalla droga.
Stavamo occupandoci di Antonio quando apparve Francisco Pio: fratello dell’ex sindaco di Mecanhelas, alto e forte, era il terrore della gente: essendo parente di un «grande», non poteva essere picchiato.
Arrivò in missione con l’auto delle suore, su cui era salito abusivamente, bevendo allegramente lattine di birra prelevate dal carico. Alla sua apparizione i passanti scappavano e i lavoratori chiudevano a chiave le porte della missione.
Era furioso; brandiva un bastone; ma non ci lasciammo intimorire; lo mettemmo in fuga, fra le grida di esultanza della gente. Un’ora dopo apparve il fratello «grande» per chiederci di aiutarlo. Così anche Francisco venne accompagnato al manicomio, insieme a una cugina, impazzita in seguito all’amputazione di un braccio, e a un signore che vagava per la cittadina con una bibbia in mano, predicando l’apocalisse.
Dopo una settimana in manicomio, Francisco scappò e ritoò a casa da solo. Andai a trovarlo. Era molto più tranquillo; gli diedi degli psicofarmaci, invitandolo a farmi visita. Col tempo, Francisco, anche lui surmàtico e alcornolizzato, recuperò la normalità.

CAROVANA DI MATTI
Viste le quattro guarigioni, la gente di Mecanhelas cominciò a scendere dai monti e uscire dalle giungle per «colocar uma preocupação», come si dice eufemisticamente da queste parti. Tra i malati mentali c’erano varie madri di famiglia: per i loro bambini era un dramma avere una mamma pazza, vederla fare stramberie o legata a un albero come un cane.
Ogni mese, dalla missione cominciò a partire una macchina carica di pazienti che, trasferiti su uno scompartimento prenotato, raggiungevano in treno l’ospedale psichiatrico di Nampula; questo può accogliere una cinquantina di malati e serve tutto il Mozambico settentrionale. Ce ne sono solo altri due nel resto del paese.
La comitiva di matti era accompagnata da me, da un infermiere, munito di siringhe e tranquillanti, e da un parente per ogni malato, con la responsabilità di sorvegliarlo. Compito non sempre assolto: a volte gli stessi malati arrivavano da me trafelati per dirmi che qualcuno era scappato.
Arrivati a Nampula, la polizia non aveva nulla da eccepire, vedendo una decina di persone incatenate scendere dal treno e avviarsi a saltelli verso una macchina, sorvegliati da certi tipi con manganelli, tra cui c’ero anch’io.
I passanti, invece, pensando che fossi un poliziotto alle prese con chiconhocas (ladri) appena catturati, si avvicinavano minacciosi per picchiarli. Ci pensarono gli stessi malati a chiarire la situazione: «Siamo malucos (matti) diretti al manicomio».

SERVIZIO A DOMICILIO
Dalla fine del 2001 è aperta un’unità psichiatrica a Cuamba, a 91 km da Mecanhelas; non dobbiamo più percorree 440 per raggiungere il manicomio di Nampula.
A Cuamba opera il signor Sibinde, un tecnico psichiatra mozambicano. «Tecnico» significa che si tratta di un operatore sanitario, formatosi per tre anni, e non di un medico laureato. Egli dimostra una grande motivazione per il lavoro che fa: senza chiedere alcuna mancia, viene ogni mese nella parrocchia di Mecanhelas, si trattiene tre giorni, riuscendo a visitare un centinaio di pazienti alla volta. Non gli fa problemi andare in bicicletta o guadare paludi.
La maggior parte dei pazienti visitati viene trattata a domicilio, con psicofarmaci affidati alla responsabilità dei familiari. Tuttavia, ogni mese, quattro o cinque pazzi pericolosi devono essere trasferiti all’unità psichiatrica di Cuamba per una terapia intensiva di alcune settimane.
La terapia di recupero completo dura due o tre anni. La difficoltà principale è convincere i pazienti e le rispettive famiglie a perseverare nell’assumere psicofarmaci. Ma poiché, dopo qualche mese, i malati constatano un miglioramento, tendono a interrompere l’assunzione di medicine, col rischio di ricadere nella follia anche più grave.
Mentre tra i guariti da malattie fisiche solo uno su dieci viene a ringraziarci dopo la guarigione, quasi tutti gli ex matti vengono a esprimere la loro gratitudine per averli recuperati alla vita civile, nonostante gli eventuali trattamenti rudi subiti durante le crisi di aggressività.
A differenza di quanto avviene nella società europea, la persona affetta da malattia mentale, una volta guarita, non trova difficoltà a reinserirsi nella vita della famiglia e del villaggio: nessuno gli rinfaccia il suo passato. Ciò vale anche per i criminali, compresi quelli che, durante la guerra civile si macchiarono di torture e massacri.
Un proverbio makua dice al riguardo: «Il passato è passato, adesso dobbiamo vivere il presente». I makua, etnia pacifica e aliena da litigi, attua così una concreta forma di perdono che, tra l’altro, ha favorito il processo di pace che pose termine a 15 anni di guerra civile.

LA RETE DELLA CARITAS
Dal 1999 al 2002, gli animatori e i missionari di Mecanhelas hanno soccorso circa 180 malati di mente, recuperandone una cinquantina alla vita normale. A giugno 2003, nel distretto sono stati contati circa 700 malati mentali, 450 dei quali affetti anche da epilessia; di questi, dopo cure adeguate, un centinaio sono tornati alla vita normale, sposandosi e riprendendo a lavorare la terra.
Il lavoro con i malati mentali nella parrocchia di Mecanhelas, si inquadra in un progetto più ampio: la creazione di una rete di solidarietà fra cristiani locali, denominata caridade (carità).
Per comprendere tale processo, occorre una premessa. La lunga guerra civile (1977-92) ha deteriorato il sentimento di solidarietà di molti mozambicani. Diversi bambini sono cresciuti senza genitori (magari uccisi) né alcun tipo di educazione; sono cresciuti senza apprendere il rispetto verso l’autorità di parenti o capi tradizionali; hanno piuttosto sviluppato il culto della forza, delle armi, del denaro e dell’indifferenza verso le sorti del prossimo.
Inoltre, durante e dopo la guerra, agenzie umanitarie e missionari hanno distribuito aiuti indiscriminatamente, provocando tra la popolazione un atteggiamento passivo verso le difficoltà, con conseguente allentamento dei vincoli di solidarietà verso concittadini più poveri.
In campagna come in città, non è raro incontrare anziani genitori che patiscono fame e freddo, abbandonati da figli e parenti che vivono nello stesso villaggio senza problemi economici.
Nel distretto di Mecanhelas si calcolano 5 mila persone «povere», cioè non in grado di mantenersi con le proprie forze: anziani, invalidi e mutilati, malati cronici (lebbra, tbc, malaria, anemia, malattia mentale). A queste bisogna aggiungere vedove e orfani, spesso abbandonati a se stessi. Un villaggio di 400 abitanti (metà dei quali cristiani) ha in media 15-20 casi di tali persone, spesso condannate a morte per inedia.
In questo contesto, ho chiesto agli animatori delle comunità cristiane di impegnarsi ad aiutare i poveri, secondo le proprie possibilità. Ho suggerito loro di elaborare un progetto di assistenza, che includesse sia l’attività dei cristiani che quella dei missionari, promettendo che avrei «obbedito ai loro ordini».
Ne è scaturita questa idea: gli animatori avrebbero messo la loro forza lavoro a disposizione dei poveri del villaggio: coltivare i campi di chi non poteva più farlo, costruire le case, distribuire il cibo, raccolto tra i cristiani al termine delle messe domenicali. A me hanno chiesto di provvedere coperte per i poveri e soccorrere i malati.
Occuparsi di malati richiede una certa familiarità con gli ambienti ospedalieri, difficilmente presente in un animatore di estrazione contadina. Piano piano, però, ho abituato gli animatori a vincere la loro timidezza verso il personale ospedaliero.
Il denaro per l’acquisto di coperte e cure mediche viene messo dai missionari. Ma stiamo lavorando perché comunità e famiglie dei pazienti contribuiscano alle spese mediche e la rete di solidarietà dei cristiani raggiunga un certo grado di autonomia dalle finanze della missione.

ALCUNE CIFRE DELLA RETE

Oggi, la rete di solidarietà dei cristiani di Mecanhelas assiste circa 2 mila poveri. I missionari della Consolata hanno procurato un migliaio di coperte e 300 capi di vestiario per altrettanti poveri. Missionari e animatori provvedono a inviare regolarmente i malati fisici presso gli ospedali più adatti, a seconda della specialità richiesta.
Ogni due mesi vengono trattati 25 pazienti di chirurgia generale, più 6-8 malati che necessitano di interventi chirurgici specialistici, per un totale di 170 operazioni. Chi è affetto da malaria, anemia, tbc, lebbra, parassitosi, piccole ferite e ustioni, viene accompagnato dagli animatori all’ambulatorio di Mecanhelas.
Per aiutare gli invalidi alle gambe, la parrocchia provvede loro delle carrozzine triciclo: i cristiani del villaggio contribuiscono per coprire un terzo della spesa. Sempre nell’ambito della rete di solidarietà, i missionari hanno attivato un programma di mini-prestiti alle associazioni di animatori della parrocchia, perché possano avviare piccole attività economicamente redditizie.
I beneficiari dei prestiti vengono selezionati dai missionari e dagli animatori, valutando il loro impegno a favore dei poveri e ammalati e la capacità di lavorare in gruppo per gestire una piccola impresa. Del profitto ottenuto, la metà va ai membri dell’associazione, l’altra metà è impiegata per finanziare l’aiuto a poveri e malati. Finora, sono stati concessi prestiti per 180 euro a 6 imprese, i rimborsi ammontano a 150 euro.
Oltre a promuovere l’autonomia finanziaria delle comunità nel servizio ai poveri, le iniziative di microcredito indicano la via da percorrere per uno sviluppo futuro, fondato sullo spirito di una rete chiamata caridade

di Paolo Deriu*




I sermoni di Vieira

Con quale luce e quali immagini possiamo tradurre il corpo grafico dei Sermões? Luce, questa luce trasformatrice, tropicale, differenziatrice, che è stata essenziale nello stile di Vieira? La pittura è la glorificazione della luce e dello spazio. Esiste una teologia della luce. Prima di tutto c’è la luce.
Julio Bressane, regista brasiliano

«Antônio Vieira, creatore della più grande musica della prosa portoghese, pensa così: dove il dire è fare, l’udire è vedere. Supponiamo che, davanti a una visione stupenda, i nostri sensi escano dalle loro sfere e inaugurino il vedere delle orecchie e l’udire degli occhi!». Lo scrive il regista brasiliano Julio Bressane che, affascinato dalla carismatica figura di padre Antônio Vieira ha raccontato con poesia alcuni episodi significativi della vita di questo missionario e maestro di letteratura, nel film Sermões, presentato in novembre al Torino Film Festival nell’omaggio a questo regista (vedi Missioni Consolata, marzo 2003).

Chi è padre Antônio Vieira? È conosciuto soltanto in Brasile e Portogallo o se ne parla anche in Italia?
Sfogliando la Garzantina della Letteratura apprendiamo che il «missionario e scrittore portoghese» Antônio Vieira, nato a Lisbona nel 1608 e morto a Bahia (Brasile) nel 1697 «visse per lo più in Brasile… Razionalità pratica e idealismo utopico coesistono nella sua opera letteraria, che comprende 200 Sermoni e vari scritti meditativi e profetici (Storia del futuro, 1663). La sua prosa vigorosa è un modello del barocco portoghese».
A parte le brevi note che ricordano la sua opera, a quattro secoli dalla nascita pare che nessuno dei suoi lavori sia stato tradotto in italiano, forse anche a causa della sua movimentata esistenza, meglio tratteggiata nell’Enciclopedia della Letteratura (De Agostini).
«Vieira nel 1625 prese i voti come gesuita (a Bahia, dove risiedeva dal 1614 n.d.r.) e iniziò lo studio della lingua guaranì. Nel 1640 fu inviato dall’ordine in missione diplomatica a Lisbona da Giovanni iv. Tornato in Brasile (1652) attaccò i metodi inumani dello sfruttamento colonialistico, tanto da provocare la rivolta dei coloni contro i gesuiti, che lo indusse a tornare in patria. Morto Giovanni iv (1656), suo protettore, l’Inquisizione lo condannò al ritiro conventuale per eresia sebastianista; ottenne, tuttavia, altri incarichi diplomatici, ma, alla fine, deluso dalla politica, riprese la via del Brasile. I suoi sermoni insieme all’epistolario sono la testimonianza più valida della vastità d’interessi di Vieira: dallo studio dei classici greco-romani, alla scienza rinascimentale, dalla teologia alla teoria dello stato».
Senza conoscere a grandi linee le fasi più salienti della vita di Vieira, è quasi impossibile comprendere il film di Bressane, pur ammirandone le scene, quasi dipinti d’autore, le musiche dei grandi, come Bach, Schumann, Haendel, Albinoni, Gabriel Fauré, e scene di film d’autore (Welles, Dreyer, L’Herbier e altri), inserite ad arte per sottolineare alcuni drammi della vita del missionario o evidenziare il contenuto di qualche sermone.
Come sempre, prima di girare il film, Bressane ha studiato a fondo l’opera di Vieira, con la consulenza del poeta Haroldo de Campos, e ha respirato l’aria di Bahia, riprendendo scene del famoso carnevale, per comprendere meglio l’atmosfera in cui il missionario scrisse i suoi magistrali sermoni fino alla morte.
Infatti il film è stato quasi interamente girato a Bahia, in soli tredici giorni, con pochi attori ben scelti. Spicca la brillante e meditata interpretazione di Othon Bastos, un Antônio Vieira vigoroso, dalla voce armoniosa, possente e affascinante.
Il film è, per ora, in lingua portoghese, con sottotitoli italiani; ma anche se fosse tradotto, alcuni testi dei sermoni dovrebbero rimanere in luso-brasiliano perché è proprio la musica di questa lingua che Bressane vuole trasmettere con il film.
Un critico ha scritto: «In Sermões, padre Antônio Vieira è l’immagine fantasmagorica della parola, del discorso e della retorica. Un film dove ogni elemento assume radicalmente la sua tessitura, secondo la sua natura. La parola scivola tra l’insinuazione e il trauma, tra l’enigma e l’argomentazione. L’immagine cerca angoli e movimento a cui il discorso verbale non arriva. La musica è usata come tessitura acustica, una seconda pelle della pellicola».
Mentre Bressane rivela: «Io penso al cinema – e in questo intendo iscrivermi nella tradizione di quei registi che riflettono sul loro oggetto creativo – come a un organismo intellettuale, smisuratamente sensibile, che confina con tutte le arti, la scienza e la vita… Le interrelazioni che intercorrono tra le conoscenze, il piacere di scivolare, abbattendo le barriere delle discipline e delle categorie, la coerenza della complementarietà, paradimensionale e pluridimensionale, questa è la tela di Sermões… Vieira ha sempre preferito il frammento e il paradosso e ha sempre evitato accuratamente il quietismo».
Bressane si è impegnato a «mappare» il «segno Vieira», per creare nel suo film un’immagine che rifletta linguaggio, forza e bellezza dei sermoni.
Tra i molti tipi di sermoni, che caratterizzano l’opera di Vieira (storico, politico, metafisico… anche sculaccione), il regista brasiliano si è formato su tre «ombre», con le quali ha costruito la sua trama: sermoni-musica, sermoni-pittura, sermoni-cinema.
Il film inizia con la morte di padre Vieira, che declama: «Non mi fa paura la polvere che devo essere. Mi fa paura ciò che dovrà essere polvere. Non temo nella morte la morte. Temo l’immortalità»(sermone-musica).

Subito dopo l’Adagio di Albinoni diviene l’anima di una lunga sequenza in cui, sull’oceano che unisce e divide Portogallo e Brasile, ondeggia e fluttua una barchetta, quasi a voler trasportare i sermoni del famoso predicatore. Argomenta Vieira: «Volete vedere tutto questo con gli occhi? Allora guardate: un albero ha le radici, ha il tronco, ha i rami, ha i fiori, ha i frutti. Così deve essere il sermone» (sermone-pittura).
Molte sequenze sulla vita alla corte di Giovanni iv, in cui Vieira si aggira invidiato e calunniato, ricordano quadri d’autore, mentre alcune scene riproducono autentici capolavori come La Venere allo specchio di Velasquez.
Il dramma della condanna di Vieira da parte dell’Inquisizione, che ricorda tra gli antenati del predicatore una nonna negra o mulatta, è sottolineata dall’innesto di un film sul martirio di Giovanna d’Arco, arsa viva. Intanto Vieira mostra il crocifisso e tuona: «Ciò che penetra attraverso gli occhi convince tutti» (sermone-cinema).
Alla fine del film compare la dotta poetessa messicana, suor Juana Inés de la Cruz (1651-1695), che afferma: «Pur dissentendo da lui, egli innamora con la bellezza dell’orazione, sospende con la bellezza e strega con la grazia ed eleva, suscita ammirazione e incanta con il tutto».

D iceva Vieira: «Leggere è una cosa; rileggere è un’altra». Ciò vale anche per questo film, che va visto e rivisto.

Silvana Bottignole




Ma ci crediamo o no?

Osservando il comportamento «missionario» di tanti fedeli musulmani, potrebbe nascere un dubbio legittimo: ma noi cristiani, siamo così convinti della nostra fede,da non poter fare a meno di «comunicarla»
agli altri?

Appena sbarcata nell’aeroporto di Malpensa, al rientro dall’Iran, la prima immagine che mi accoglie è un poster gigantesco, sul quale sono ritratti un ragazzo e una ragazza seminudi, in atteggiamenti che non lasciano dubbi sulle loro intenzioni. La solita pubblicità di una casa di moda. Ormai sono tutte uguali, con gli stessi giovani perfetti e immusoniti, le stesse poco velate allusioni. Mi è venuta voglia di tornare subito indietro.

Mashhad è chiamata
dagli iraniani «la santa» perché ospita il santuario dell’imam Rezà, il maggior luogo di pellegrinaggio in tutto il paese. Nella dottrina sciita, gli imam sono i diretti successori di Maometto (di cui hanno ereditato le doti straordinarie) e le guide spirituali della comunità. Gli sciiti riconoscono dodici santi imam. Il dodicesimo scomparve misteriosamente nell’anno 873: si crede che non sia mai morto e che ritoerà tra gli uomini alla fine dei tempi.
Rezà è l’ottavo della serie. Sul posto dove fu ucciso, nell’817, sorse in seguito il suo mausoleo, intorno al quale si sviluppò la città di Mashhad, che significa «luogo del martirio». Tutt’oggi, la città vive attorno al santuario che, nel frattempo, è cresciuto e continua a crescere sempre più.
Qui giungono ogni anno milioni di pellegrini. Sia quando entrano, come quando escono dal recinto che ospita il mausoleo, i fedeli salutano l’imam, perché credono che egli sia una presenza viva e gli si debba rivolgere come a una persona in carne e ossa.
Una sera, avevo deciso di assistere alla preghiera. Dopo un po’ di ricerche, mi ero infilata in un angolino, dove non davo troppo disturbo alle persone che continuavano a entrare. Avevo proprio davanti a me la metà del cortile riservata agli uomini e, non potendo seguire il senso delle parole recitate, tutta la mia attenzione si era concentrata sui movimenti degli oranti. Le loro espressioni erano raccolte, miti, quasi melanconiche. Quando i corpi si piegavano fino a terra nelle flessioni rituali e l’assemblea si trasformava in un tappeto di schiene, spuntavano improvvisamente qua e là i bambini, rimasti in piedi accanto ai padri: per niente compresi del momento solenne, cominciavano a guardarsi l’un l’altro, divertiti di essere diventati, per pochi secondi, più alti di tutti. Un marmocchio aveva trovato un’occupazione ancor più divertente: tentava di arrampicarsi sulla schiena del padre tutte le volte che questi si piegava fino a terra.

Anche chi
non si reca al santuario, prega: le donne solitamente nelle loro case, gli uomini in moschea, dove giungono seguendo il richiamo del muezzin. E non soltanto la sera. La giornata è scandita dal ritmo della preghiera e non sono pochi quelli che si alzano prima dell’alba per le orazioni del mattino. Durante un viaggio notturno da Mashhad verso il Mar Caspio, all’ora della preghiera mattutina, il nostro autobus fece sosta accanto a una moschea per dare, a chi lo desiderasse, la possibilità di assolvere il precetto. Era la prima volta che mi capitava una cosa del genere. Mi era, invece, successo più volte che all’inizio o alla fine, di un viaggio i passeggeri recitassero insieme una breve invocazione. A qualsiasi azione, grande o piccola che sia, – un discorso, un libro da leggere, anche solo una lettera privata – il musulmano dà solitamente inizio «nel nome di Dio, grande e misericordioso».
Ovunque in Iran, nei luoghi pubblici e nelle case, sono presenti segni che richiamano il pensiero di Dio o dell’islam: possono essere le parole della professione di fede, o frasi del Corano; o la mano stesa, le cui cinque dita simbolizzano i cinque pilastri dell’islam; o i ritratti barbuti di Ali e Hussein, genero e nipote di Maometto, particolarmente venerati dagli sciiti.
Se in Iran tutto aiuta a ricordare che l’uomo è creatura di Dio, da noi, invece, tutto concorre a farlo dimenticare. E non mi riferisco solo al fatto che gesti e simboli della nostra tradizione cristiana stiano scomparendo dalla vita pubblica; ma anche alla proposta di valori, di segno opposto a quelli del vangelo. I programmi televisivi, la pubblicità, le riviste ci fanno credere che la bellezza, la forza, il benessere fisico ed economico, la soddisfazione dei nostri impulsi siano gli unici obiettivi da perseguire e gli unici valori che contino. Uno degli attacchi più massicci, cui quotidianamente assistiamo, è quello dell’«esaltazione sessuale»: si agita la bandiera della lotta contro antiche inibizioni e poi ci si serve dei nostri istinti, opportunamente stimolati, per indurci a comprare un prodotto, una rivista, a guardare un film e così via.

Alloggiavo in un ostello di Mashhad e, alla sera, era facile attaccare discorso con qualcuno degli ospiti, mentre si sorseggiava il tè sui tappeti della grande sala comune. La mia presenza suscitava parecchia curiosità anche perché, a quanto pare, ero la prima turista occidentale ad aver messo piede in quel luogo. Spesso il discorso cadeva sulla religione. Nonostante dichiarassi subito di essere cristiana, più di una volta mi sono sentita proporre: «Perché non diventa musulmana? Non sa com’è bello!». L’argomento principale era: l’islam è l’ultima delle tre grandi religioni: quindi, la più vera. Rispondevo, cercando di tagliar corto, che mi stava bene restare com’ero. Mi guardavano con compassione: «Inshallah, diventerà anche lei musulmana, è una brava persona». La cosa m’irritava parecchio. Dovevo trattenermi dal rispondere male, ma poi ho cominciato a riflettere.

Se sei veramente convinto che l’islam sia la salvezza, non puoi non comunicare questa tua certezza alle persone che incontri, a maggior ragione se le stimi. Non è strano che i musulmani esprimano il desiderio di vedere tutti convertiti all’islam; è strano che i cristiani non facciano altrettanto con la loro fede. Non si tratta, ovviamente, di esercitare pressioni indebite, ma soltanto di rendere manifesta quella speranza che dà significato alla vita. Tutto ciò si chiama, molto semplicemente, «missione»!
Quanto diversa, rispetto a tanto buonismo dei nostri giorni, la posizione di san Paolo che, in carcere a Cesarea, parlando in propria difesa davanti al re Agrippa, proclamava senza mezzi termini il proprio desiderio che tutti si convertissero alla fede in Cristo: «Vorrei supplicare Dio che non soltanto tu, ma quanti oggi mi ascoltano diventassero così come sono io, eccetto queste catene» (At 26, 29). Oggi, Paolo non potrebbe più parlare così, senza essere tacciato, magari dagli stessi cristiani, di intolleranza o irriverenza verso le opinioni altrui. Invece, quelle parole esprimono un amore infinito verso tutti gli uomini, che si vogliono partecipi dello stesso banchetto di felicità.
Se i cristiani hanno perso l’abitudine di testimoniare pubblicamente la propria fede, non sarà, forse, perché non ci credono più di tanto?

Biancamaria Balestra




Panorama Missionario

AFRICA
L’evangelizzazione deve far fronte a varie sfide. Come annunciare il messaggio di salvezza in un contesto di povertà, miseria, con lo sfondo di una storia fatta di umiliazioni, violenza e schiavitù, alle prese con il problema della fame, della guerra, con tensioni sociali e tribali, nell’instabilità politica vissuta come situazione di normalità, con quotidiana esperienza di violazione dei diritti umani?
L’Africa è un continente emarginato (un’appendice senza alcuna importanza), maltrattato, dimenticato e abbandonato.

Parlando dell’Oceania che ha nell’inculturazione la principale sfida missionaria, mons. Sarah, segretario di Propaganda fide, osserva: «L’inculturazione non è né una canonizzazione, né una incoronazione della cultura con il rischio di assolutizzarla, ma l’epifania e l’irruzione del Signore nel cuore di un popolo e di una cultura. Attraverso di essa, Dio si muove dal di dentro la cultura e la purifica. In tal modo il vangelo trasforma le tradizioni di un popolo e di una cultura, offrendo nuovi punti di riferimento. Quando il vangelo entra nella vita, la smuove; le offre un orientamento nuovo, dei nuovi riferimenti morali ed etici».

ASIA
Il continente ospita i due terzi dell’umanità, di cui solo il 3% cristiani. Eppure ci riserva belle pagine di storia di martirio, di contributi sociali, culturali offerti dai missionari… La chiesa è quasi nella totalità indigenizzata e ben stabilita. La Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche è bene organizzata, con diverse commissioni che curano l’evangelizzazione, la ricerca teologica, l’educazione, la formazione, le comunicazioni sociali, l’inculturazione, la giustizia e la pace; il programma di comunità di base ecclesiali è in piena fioritura.

AMERICA
– Le circoscrizioni che dipendono da Propaganda fide in America rappresentano in molte nazioni le zone più difficili, sia dal punto di vista geografico (vastità di territorio, mancanza di vie di comunicazioni), sociale (povertà, narcotraffico, guerriglia), che pastorale (scarsità di personale e di mezzi).
Si registra una crescita di coscienza missionaria con l’invio di sacerdoti fidei donum e missionari laici; la nascita di diversi seminari missionari; la celebrazione dei Congressi missionari americani (il prossimo sarà in Guatemala, nel novembre 2003).
Difficoltà e problemi:
a) Le motivazioni politiche nella difesa delle culture indigene provocano spesso un’erronea concezione della rivelazione divina e dell’inculturazione del vangelo. In alcuni casi viene promosso un ritorno alle antiche tradizioni religiose.
b) Le sètte, che diventano una vera sfida. Da qui la necessità di offrire una liturgia viva, un’esperienza di comunità e fratellanza, un’attiva partecipazione alla missione e all’annuncio diretto del vangelo.
c) Le sfide della cultura post modea, urbana, globale, pluralista, secolarizzata, che si manifesta in una perdita del senso religioso, nella disuguaglianza sociale, nella mancanza di rispetto per la vita e nella violenza.

aa.vv.




Piu’ contemplativi, più santi, più missionari

<b<GIORNATA MISSIONARIA MONDIALE

Alla riscoperta della preghiera del rosario, come strumento di ascolto, apertura agli altri, invocazione sul mondo.

Una premessa: a partire da quest’anno il messaggio del papa per la Giornata missionaria mondiale non è più pubblicato nella solennità di Pentecoste, ma viene reso noto nella festa del battesimo del Signore, per permettere a diocesi e parrocchie di inserirlo nei loro progetti pastorali. «Con tale iniziativa si vuole evitare – scrive il cardinale Sepe – che la missione ad gentes venga vissuta in termini di eccezionalità o straordinarietà. Non si può permettere, pena il tradimento del vangelo di Gesù Cristo, che la dimensione missionaria sia percepita come una sorta di cenerentola…. La missione è, infatti, parte nodale dell’itinerario di ogni comunità cristiana».
Quest’anno, la Giornata missionaria mondiale cade il 19 ottobre, in coincidenza con la celebrazione del XXV anniversario del pontificato di Giovanni Paolo II, con la beatificazione di madre Teresa di Calcutta e la chiusura dell’Anno del rosario. In tale prospettiva il papa ha voluto indicare la «preghiera del rosario» come tema di riflessione, per una chiesa più contemplativa, più santa, più missionaria.

1.Sin dall’inizio, ho voluto porre il mio pontificato sotto il segno della speciale protezione di Maria. Più volte, poi, ho invitato l’intera comunità dei credenti a rivivere l’esperienza del cenacolo, dove i discepoli «erano assidui e concordi nella preghiera… con Maria, la madre di Gesù» (At 1,14). Già nella prima enciclica Redemptor hominis scrivevo che solo in un clima di fervente orazione è possibile «ricevere lo Spirito Santo, che scende su di noi e divenire in questo modo testimoni di Cristo fino agli estremi confini della terra, come coloro che uscirono dal Cenacolo di Gerusalemme nel giorno di Pentecoste» (22).
La chiesa prende sempre più coscienza di essere «madre» come Maria. Essa è «la culla – notavo nella bolla Incaationis mysterium, in occasione del Grande Giubileo dell’anno 2000 – in cui Maria depone Gesù e lo affida all’adorazione e alla contemplazione di tutti i popoli» (11). Su questo cammino spirituale e missionario intende proseguire, sempre accompagnata dalla Vergine Santissima, stella della nuova evangelizzazione, aurora luminosa e guida sicura del nostro cammino (cfr. Novo millennio ineunte 58).

Maria e la missione
della chiesa
nell’anno del rosario

2.Nell’ottobre scorso, entrando nel 25° anno del mio ministero petrino, quasi a ideale prolungamento dell’anno giubilare, ho indetto uno speciale anno dedicato alla riscoperta della preghiera del rosario, tanto cara alla tradizione cristiana; un anno da vivere sotto lo sguardo di colei che, secondo l’arcano disegno divino, con il suo «sì» ha reso possibile la salvezza dell’umanità, e dal cielo continua a proteggere quanti a lei fanno ricorso specialmente nei momenti difficili dell’esistenza.
È mio desiderio che l’Anno del rosario costituisca per i credenti di ogni continente un’occasione propizia per approfondire il senso della vocazione cristiana. Alla scuola della Vergine e seguendo il suo esempio, ogni comunità potrà meglio far emergere la propria dimensione «contemplativa» e «missionaria».
La Giornata missionaria mondiale, che cade proprio alla fine di questo particolare anno mariano, se ben preparata, potrà imprimere un più generoso impulso a quest’impegno della comunità ecclesiale. Il ricorso fidente a Maria con la quotidiana recita del rosario e la meditazione dei misteri della vita di Cristo sottolineeranno che la missione della chiesa deve essere anzitutto sorretta dalla preghiera.
L’atteggiamento di «ascolto», che suggerisce la preghiera del rosario, avvicina i fedeli a Maria, che «serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19). La ricorrente meditazione della Parola di Dio diventa un allenamento per vivere «in comunione viva con Gesù attraverso – potremmo dire – il cuore della madre» (Rosarium Virginis Mariae 2).

Chiesa più contemplativa:
il volto di Cristo
contemplato

3.Cum Maria contemplemur Christi vultum! Mi tornano spesso alla mente queste parole: contemplare il «volto» di Cristo con Maria. Quando parliamo del «volto» di Cristo ci riferiamo alle sue sembianze umane, nelle quali rifulge la gloria eterna del Figlio unigenito del Padre (cfr. Gv 1,14): «La gloria della divinità sfolgora sul volto di Cristo» (ibid. 21). Contemplare il volto di Cristo induce a una conoscenza profonda e coinvolgente del suo mistero. Contemplare Gesù con gli occhi della fede spinge a penetrare nel mistero di Dio-Trinità. Dice Gesù: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). Con il rosario ci inoltriamo in questo itinerario mistico «in compagnia e alla scuola della sua Madre Santissima» (Rosarium Virginis Mariae 3). Anzi, Maria stessa si fa nostra maestra e guida. Sotto l’azione dello Spirito Santo, ci aiuta ad acquisire quella «tranquilla audacia» che rende capaci di trasmettere agli altri l’esperienza di Gesù e la speranza che anima i credenti (cfr. Redemptoris missio 24).
Guardiamo sempre a Maria, modello insuperabile! Nel suo animo tutte le parole del vangelo trovano un’eco straordinaria. Maria è la «memoria» contemplativa della chiesa, che vive nel desiderio di unirsi più profondamente al suo sposo per incidere ancor più nella nostra società. Di fronte ai grandi problemi, dinanzi al dolore innocente, alle ingiustizie perpetrate con arrogante insolenza come reagire? Alla docile scuola di Maria, che è nostra madre, i credenti apprendono a riconoscere nell’apparente «silenzio di Dio» la parola che risuona nel silenzio per la nostra salvezza.

Chiesa più santa:
il volto di Cristo
imitato e amato

4.Tutti i credenti sono chiamati, grazie al battesimo, alla santità. Il Concilio Vaticano II, nella costituzione dogmatica Lumen gentium, sottolinea che la vocazione universale alla santità consiste nella chiamata di tutti alla perfezione della carità.
Santità e missione sono aspetti inscindibili della vocazione di ogni battezzato. L’impegno a diventare più santi è strettamente collegato con quello a diffondere il messaggio della salvezza. «Ogni fedele – ricordavo nella Redemptoris missio – è chiamato alla santità e alla missione» (90). Contemplando i misteri del rosario, il credente è incoraggiato a seguire Cristo e a condividee la vita sino a poter dire con san Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).
Se tutti i misteri del rosario costituiscono una significativa scuola di santità e di evangelizzazione, i misteri della luce pongono in evidenza aspetti singolari della nostra «sequela» evangelica. Il battesimo di Gesù al Giordano ricorda che ogni battezzato è eletto a diventare in Cristo «figlio nel Figlio» (Ef 1,5). Nelle nozze di Cana, Maria invita all’ascolto obbediente della parola del Signore: «Fate quello che vi dirà» (Gv 2,5).
L’annuncio del regno e l’invito alla conversione sono una chiara consegna per tutti a intraprendere il cammino della santità. Nella trasfigurazione di Gesù, il battezzato sperimenta la gioia che lo attende. Meditando l’istituzione dell’eucaristia, egli torna ripetutamente nel cenacolo, dove il divino maestro ha lasciato ai suoi discepoli il tesoro più prezioso: se stesso nel sacramento dell’altare.
Sono le parole che la Vergine pronuncia a Cana a costituire, in un certo modo, lo sfondo mariano di tutti i misteri della luce. L’annuncio del regno vicino, la chiamata alla conversione e alla misericordia, la trasfigurazione sul Tabor e l’istituzione dell’eucaristia trovano infatti nel cuore di Maria un’eco singolare. Maria mantiene gli occhi fissi su Cristo, fa tesoro di ogni sua parola ed indica a tutti noi come essere autentici discepoli del suo Figlio.

Chiesa più missionaria:
il volto di Cristo
annunciato

5.In nessuna epoca la chiesa ha avuto tante possibilità di annunciare Gesù come oggi, grazie allo sviluppo dei mezzi della comunicazione. Proprio per questo la chiesa è oggi chiamata a far trasparire il volto del suo sposo con una più rilucente santità. In questo sforzo, non facile, sa di essere sostenuta da Maria. Da lei «impara» a essere «vergine», totalmente dedicata al suo sposo, Gesù Cristo, e «madre» di molti figli che genera alla vita immortale.
Sotto lo sguardo vigile della Madre, la comunità ecclesiale cresce come una famiglia ravvivata dall’effusione potente dello Spirito e, pronta a raccogliere le sfide della nuova evangelizzazione, contempla il volto misericordioso di Gesù nei fratelli, specialmente nei poveri e bisognosi, nei lontani dalla fede e dal vangelo. In particolare, la chiesa non ha paura di gridare al mondo che Cristo è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6); non teme di annunciare con gioia che «la buona notizia ha il suo centro, anzi il suo stesso contenuto, nella persona di Cristo, il Verbo fatto carne, unico Salvatore del mondo» (Rosarium Virginis Mariae 20).
Urge preparare evangelizzatori competenti e santi; è necessario che non si affievolisca il fervore negli apostoli, specialmente per la missione ad gentes. Il rosario, se pienamente riscoperto e valorizzato, offre un ordinario quanto fecondo aiuto spirituale e pedagogico per formare il popolo di Dio a lavorare nel vasto campo dell’azione apostolica.

Una precisa consegna

6.L’animazione missionaria deve continuare a essere impegno serio e coerente di ogni battezzato e di ogni comunità ecclesiale. Un ruolo più specifico e peculiare compete certo alle pontificie Opere missionarie, che ringrazio per quanto già generosamente stanno facendo.
A tutti vorrei suggerire di intensificare la recita del santo rosario, a livello personale e comunitario, per ottenere dal Signore quelle grazie di cui la chiesa e l’umanità hanno particolare necessità. Invito proprio tutti: bambini e adulti, giovani e anziani, famiglie, parrocchie e comunità religiose.
Tra le tante intenzioni, non vorrei dimenticare quella della pace. La guerra e l’ingiustizia hanno il loro inizio nel cuore «diviso». «Chi assimila il mistero di Cristo – e il rosario proprio a questo mira -, apprende il segreto della pace e ne fa un progetto di vita» (Rosarium Virginis Mariae 40). Se il rosario batterà il ritmo della nostra esistenza, potrà diventare strumento privilegiato per costruire la pace nel cuore degli uomini, nelle famiglie e tra i popoli. Con Maria tutto possiamo ottenere dal Figlio Gesù. Sorretti da Maria, non esiteremo a dedicarci con generosità alla diffusione dell’annuncio evangelico sino agli estremi confini della terra.
Con tali sentimenti, di cuore tutti vi benedico.

Dal Vaticano, 12 gennaio 2003,
festa del battesimo del Signore

Giovanni Paolo II

Giovanni Paolo II




ETIOPIA – Ciclica o endemica? A proposito di fame in Etiopia

Domenica 11 maggio 2003 a Cachachulo. Dopo la messa, i capi delle Associazioni contadine ripetono davanti a padre Paolo Marré una litania di problemi: «Nessuno ci aiuta. Dopo varie relazioni alle autorità, abbiamo solo promesse. Le organizzazioni umanitarie non vengono qui perché non ci sono strade. Intanto moriamo di fame e sete. Le donne fanno fino a 8 ore di cammino per attingere l’acqua. Buona parte del bestiame è morto. Venite a vedere».
Non ne abbiamo bisogno: abbiamo già incontrato carcasse di capre per la strada; il padre ha visitato le famiglie un mese fa. Finalmente può comunicare la bella notizia: mercoledì inizierà la distribuzione di cibo alle famiglie bisognose.
Cachachulo, a 95 km da Shashemane, ai confini sud-orientali dell’Oromia, con oltre 100 persone, è un’icona della disperazione di un intero paese con oltre 63 milioni di abitanti, di cui nove decimi vivono in aree rurali, le più colpite dalla carestia.

DISASTRO ANNUNCIATO
L’allarme fu lanciato dal Programma alimentare mondiale (Pam) fin dal giugno 2002: 6 milioni di persone in Etiopia rischiano di morire di fame. Il 18 novembre, a Londra, il primo ministro etiopico, Meles Zenawi, chiese più aiuti alla comunità internazionale, per la sopravvivenza di 12 milioni di etiopi; oggi si parla di 15 milioni e potrebbero arrivare a 20. «In un solo paese – afferma Georgia Shaver, segretario del Pam in Etiopia – il numero di bisognosi di cibo potrebbe essere pari a quello di tutto il resto dell’Africa».
Ad aggioare le cifre, oltre al Pam, l’agenzia di soccorsi umanitari dell’Onu, è pure la Commissione per prevenire e prepararsi ai disastri (Dppc), organo del governo etiopico per monitorare l’andamento della sicurezza alimentare nel paese e sollecitare gli aiuti inteazionali.
I paesi donatori (Usa in testa) hanno inviato tonnellate di granaglie; la Dppc ha riunito le Associazioni dei contadini, steso le liste delle famiglie bisognose e cominciato a distribuire mezzo quintale di grano a ogni gruppo di 5 persone: tale aiuto, però, si riduce a una manciata di grano tostato al giorno, con cui un’intera famiglia deve sopravvivere per un mese.
Per quanto misero, tale soccorso non arriva regolarmente a tutti, sia perché molte zone del paese sono lontane dai punti di distribuzione, sia perché gli aiuti inteazionali sono insufficienti: la tragedia è più grave del previsto e, dopo i primi mesi, l’attenzione mondiale è stata rivolta al disastro umanitario e alla ricostruzione dell’Iraq. Di fronte al disastro annunciato, i mezzi di comunicazione mondiale non hanno speso una parola, troppo assorbiti dalle vicende del Golfo.

«INCUBO RICORRENTE»
L’espressione è del presidente etiopico. La crisi è peggiore di quelle del 1983-84 e del 1993-94, in cui 10 milioni di persone furono colpite dalla carestia, causando un milione di vittime. Questa volta, il numero potrebbe essere triplicato, senza contare le conseguenze che la denutrizione lascerà nei superstiti.
Sembrerebbe che tale incubo ritorni ciclicamente ogni dieci anni. Le statistiche foite dal Dppc testimoniano che in Etiopia fame e denutrizione sono endemiche.
Dal 1984 tutti gli anni si susseguono carestie di varia intensità, con la differenza che, negli anni «normali», la distribuzione di cibo procede bene; quando la crisi è troppo estesa, la mancanza di strutture e risorse adeguate impedisce interventi rapidi e capillari. Di solito si dà la colpa ai fenomeni climatici. Nel caso attuale la crisi è attribuita al fatto che da un paio d’anni piove poco e nel 2002, soprattutto, le precipitazioni sono state pressoché nulle, sia durante le piccole (febbraio-maggio) che le grandi piogge (agosto-novembre).
In teoria, l’Etiopia non manca d’acqua: numerosi fiumi, tra cui il Nilo blu, nascono sugli altipiani, attraversano il paese ed esportano acqua in Sudan e Kenya; nella Rift Valley, una delle zone più colpite dalla carestia, ci sono una dozzina di laghi, alcuni grandi come il Garda. In alcune zone piove più che in Nord Italia: mentre in certe aree c’è la siccità, in altre i raccolti sono più che abbondanti.

DISASTRO POLITICO
Qual è, allora, la vera causa della fame in Etiopia? Il professor Mesfin Wolde Mariam, fondatore del locale Movimento per i diritti umani, studioso e autore di vari libri sul problema, afferma che la fame in Etiopia è di «origine socio-politica» e spiega: «L’85% della popolazione etiopica vive di agricoltura di sussistenza ed è vulnerabile alla fame, perché oppressa e sfruttata da regimi dispotici e sfavorita dalle condizioni di mercato. Il regime marxista ha nazionalizzato la terra e i contadini non hanno più diritto di proprietà né sicurezza di tenuta: essi possono coltivare piccoli appezzamenti di terreno finché esprimono lealtà al regime. L’obbligo di partecipare agli incontri di indottrinamento sottrae tempo prezioso al lavoro dei campi; la chiamata alle armi lascia il lavoro agricolo a donne, vecchi e bambini. Ogni anno, poi, al tempo del raccolto, piombano sui contadini esattori di tasse, contributi, debiti, forzandoli a pagare o andare in prigione. Gli agricoltori vendono i loro prodotti quasi allo stesso tempo, provocando il crollo dei prezzi. Più devono pagare più prodotti sono costretti a vendere: così 5-6 milioni di persone rimangono senza cibo e non hanno soldi per comperarlo, neppure negli anni di abbondanza.
Malnutrizione e fame si trascinano di anno in anno. Se poi falliscono le piogge stagionali, la fame diventa un killer di massa».
Per superare la povertà ereditata dal passato, il governo ricorre a iniziative come quelle del «cibo o denaro in cambio di lavoro», ma esse non bastano per mantenere la promessa di dare a tutti «tre pasti al giorno». Sono state introdotte misure positive: economia mista, liberalizzazione del mercato, decentramento amministrativo, investimenti nell’agricoltura, ma i risultati non si vedono.
Le spese militari assorbono almeno il 5% del prodotto interno lordo (Pil); il regime continua a essere oppressivo e l’amministrazione burocratica e corrotta; la proprietà è ancora negata; l’assegnazione della terra dipende dai venti politici; i sistemi di produzione e allevamento sono arretratissimi; le strutture di stoccaggio, mercato e ridistribuzione dei prodotti quasi inesistenti; la ricerca scientifica e difesa del suolo dalle erosioni totalmente assente…
E mentre milioni di persone rischiano di morire di fame, il problema più discusso dal governo sono i quattro sassi di Badme, per cui il paese si è dissanguato di uomini e denaro nella guerra contro l’Eritrea.

SINDROME DA DIPENDENZA
«Finché piove negli Stati Uniti e in Canada, non importa se le piogge sono totalmente assenti in Etiopia» recita una trita e ritrita facezia. A parte il sarcasmo, essa fotografa la crescente sindrome da dipendenza del paese.
Tale dipendenza fa comodo al regime. Le donazioni inteazionali sono la principale industria dell’Etiopia: quest’anno dovrebbero sfiorare il miliardo di dollari (un sesto del Pil). E poiché tali aiuti sono gestiti dalla Dppc, parte di essi resta impigliata tra le maglie dell’intricato labirinto burocratico, a livello nazionale e locale.
Inoltre, la fame può essere usata come strumento di potere per muovere le pedine della politica e degli equilibri etnici. Nonostante i proclami di sostegno all’agricoltura, afferma il prof. Mesfin, «la politica inespressa del regime consiste nel tenere i contadini politicamente senza potere, economicamente impoveriti e socialmente arretrati: così, nelle cosiddette elezioni, alcuni membri del partito ottengono fino al 100% dei voti e il regime mantiene una legittimazione di facciata per governare il paese».
La sindrome da dipendenza fa comodo anche alla comunità internazionale, che chiude un occhio sulle cause delle carestie, tutt’altro che inevitabili.
Controllata con pugno di ferro dall’esercito, l’Etiopia è diventato un paese strategico del Coo d’Africa nella lotta internazionale al terrorismo. Gli americani elogiano il ruolo di Addis Abeba in tale lotta e meditano di collocare basi militari Usa nel paese, lungo il confine con la Somalia. Lo ha rivelato il segretario alla difesa Usa, Donald Rumsfeld, a metà dicembre 2002, durante la visita al Coo d’Africa, dove ha incontrato il presidente Meles Zenawi.

SOLUZIONE POLITICA
«Le potenzialità agricole dell’Etiopia (terra, risorse idriche, diversità climatiche) possono diventare talmente produttive – continua il professor Mesfin – da permettere al paese di esportare una grande quantità di prodotti. Non ho alcun dubbio al riguardo. Ma fino a quando i contadini rimangono impotenti e in servitù, e fino a quando continua la cattiva amministrazione di tali risorse, la carestia sarà sempre un problema per il quale la comunità internazionale sarà chiamata a provvedere soccorsi di emergenza».
«In ultima analisi, la fame è una creazione politica e dobbiamo usare mezzi politici per porvi rimedio» afferma James Morris, direttore esecutivo del Pam. L’alternativa è il caos.
La fame provocò scioperi, manifestazioni studentesche e proteste generali, portando alla caduta dell’imperatore Hailé Salassié (1974). La carestia del 1983-84 diede origine ai partiti di opposizione e alla guerra civile, culminata con la fuga di Menghistu. Anche oggi le proteste di studenti e contadini vengono represse nel sangue. Se il regime non cambia atteggiamento, l’Etiopia potrebbe diventare teatro di una tragedia simile a quella dei Grandi Laghi.

Benedetto Bellesi




ETIOPIA – Ragnatela d’amore e vita

Asili, scuole, acquedotto, dispensario medico, campagne di vaccinazioni, soccorsi di emergenza… sono alcuni fili della «rete» di progetti di promozione umana della parrocchia di Wonji, insieme a un’intensa attività di evangelizzazione.

I contadini delle montagne circostanti la chiamano col termine di «verde». E tale appare Wonji, vista da lontano: una grande conca verde cupo, che si estende a perdita d’occhio. Il colore le deriva dalle estese piantagioni di canna da zucchero, irrigate con le acque del fiume Awash.
Ma il centro abitato non è un paradiso: le abitazioni sono quasi tutte di fango; le strade sporche e sconquassate, con uomini e bestie in libertà; auto scassate e biciclette sono l’unico segno di progresso.
Gli oltre 18 mila abitanti della città vivono (si fa per dire) grazie all’industria dello zucchero: la maggioranza di essi si spaccano mani e schiena nelle piantagioni per 30 dollari al mese; gli operai dei due zuccherifici non sono più fortunati.
Fuori dal «verde», poi, l’impressione è più penosa, specialmente in questi mesi: l’anno scorso sono mancate le piogge stagionali e in molte zone è fame nera.
ACQUA «CATTOLICA»
Mentre guardo il panorama, in piedi sulla grande cisterna costruita in cima a una collina a ovest del paese, padre Giuseppe Giovanetti mi spiega il paradosso: il fiume Awash è generoso, ma inquinato; la falda acquifera è a soli 10 metri sotto terra, ma l’acqua dei pozzi contiene un’alta percentuale di fluoro che rovina denti e ossa. Ancora oggi si incontrano ragazzi con i denti neri e anziani ringobbiti.
Lo spettacolo doveva essere più impressionante nel 1980, quando padre Tarcisio Rossi fu nominato parroco del luogo: il progetto dell’acqua potabile fu una priorità. Scavò un pozzo non lontano dal fiume Awash, costruì un serbatornio da 50 mila litri e cominciò la distribuzione dell’acqua in varie zone dell’abitato.
«Quando arrivai per la prima volta a Wonji, nel 1992-93 – continua padre Giovanetti -, la popolazione era aumentata enormemente: scavai un altro pozzo e raddoppiai questo serbatornio. Ora che sono tornato, continuo a occuparmi del progetto».
Notte e giorno, due pompe spingono l’acqua nei due serbatorni da 100 mila litri; una rete di oltre 12 km di tubi la porta in 18 punti di distribuzione pubblica e ad altre strutture private (scuole, bar, banca, moschea, chiese ortodosse e protestanti).
Mentre visitiamo alcune fontane, dove si allineano serpentoni di bidoni gialli, padre Giovanetti spiega: «Ogni famiglia preleva una tanica al giorno, per un totale di 1.000 litri al mese, pagando due birr (20 centesimi di euro); le strutture private hanno il contatore e pagano secondo il consumo. Ma tale compenso non basta a pagare il personale addetto alla manutenzione e gestione del progetto».
Intanto aumenta la richiesta d’acqua. Per accontentare tutti, la distribuzione è razionata: le famiglie attingono solo al mattino; durante la notte le condutture vengono chiuse, per evitare che eventuali sprechi o abusi dei privati provochino l’entrata di aria nelle tubature, creando disguidi per tutta la popolazione.
I problemi arrivano, soprattutto, quando una pompa si brucia, a causa degli sbalzi di corrente: prima che arrivi il tecnico da Addis Abeba e ripari i guasti, parte della città rimane a secco per oltre dieci giorni.
Per diminuire tali rischi, padre Giovanetti sta pensando di costruire un altro serbatornio di 50 mila litri e ha fatto appello per una pompa più potente. La Caritas italiana ha accolto la richiesta.
Sembra che anche il governo si stia muovendo. Alcuni tecnici hanno visitato il progetto, sono rimasti contenti e vorrebbero portare acqua potabile da Nazaret e immetterla nel progetto della missione. «Ho accettato subito. Almeno la gente, che da oltre 20 anni beve acqua “cattolica”, non darà la colpa alla chiesa, quando i rubinetti rimarranno asciutti» conclude il padre sorridendo.

FAFA «MORMONE»
Fin dagli inizi, la chiesa di Wonji è impegnata pure nel campo sanitario. Il dispensario, oltre a curare la gente che accorre alla missione, svolge varie attività nelle zone rurali e di montagna: sensibilizzazione igienica e sanitaria, campagne di vaccinazioni, formazione di levatrici tradizionali e agenti di sviluppo comunitario.
«La chiesa cattolica promuove la coscientizzazione sui problemi basilari della gente» spiega padre Giovanetti, mentre mi porta nel suo quartiere generale, dove una dozzina di giovani sono impiegati nei vari progetti sociali e umanitari della missione. Sono tutti indaffarati nei preparativi per il giorno seguente: trasferta ad Amude, 62 km da Wonji, per distribuire 180 quintali di cibo a oltre 4 mila persone.
«È ancora la chiesa cattolica a portare alla ribalta i problemi della gente e a prestare i primi soccorsi» continua il padre. Alla fine dell’anno, durante le varie visite per le attività sanitarie, abbiamo scoperto che i contadini avevano finito le loro scorte di cibo: era la fame, causata dal fallimento delle grandi piogge autunnali. Abbiamo subito avvisato il Dppc (Disaster prevention and preparedness commission), l’organismo governativo incaricato di prevenire i disastri naturali. Ho dovuto smuovere capi politici della sanità, educazione, agricoltura, portandoli sul posto; ho pure suggerito una possibilità di soluzione».
La soluzione si chiama Crs (Catholic relief service), l’organizzazione dell’episcopato americano, con programmi di aiuti in vari paesi africani. «Dapprima il governo disse che avrebbe preso in mano la situazione – continua padre Giovanetti -. Ma in un incontro tra autorità federali e Ong, parlando a nome del Crs, dissi chiaro e tondo che i donatori volevano che fosse la chiesa a gestire il progetto: e ce lo ha permesso; cosa che prima non accadeva».
Il principale donatore si chiama Gary Flake, incaricato delle attività caritative della Chiesa di Gesù Cristo dei santi dell’ultimo giorno (mormoni). Si era rivolto al Crs offrendo aiuto contro la fame. «La signora Anne Bousquet, rappresentante del Crs lo mandò da me – racconta il padre -. Ci incontrammo in un hotel di Nazaret e mi fece grande impressione. A un certo punto, rivolgendosi a due signore che lo accompagnavano disse: “Io sono un mormone, ma mi metto nelle mani di un prete cattolico; sono felice di essere qui, per fare del bene insieme al mio fratello padre Giuseppe Giovanetti”. Poi, rivolto a me, disse che era disposto a pagare fino a 35 mila tonnellate di cibo».
Era un’impresa grande e complessa. Fu fatto un accordo con mister Flake, il Crs e la chiesa di Wonji: il primo paga le fatture all’Unimix, una fabbrica locale di fafa (miscela di farine, vitamine, proteine, zuccheri…); il Crs provvede ai contratti con la fabbrica, al trasporto e alle spese per il personale; alla chiesa la responsabilità di organizzare la distribuzione.

LA RAGNATELA…
Come supervisore, padre Giovanetti ha impiegato un mese per organizzare tale impresa: ha preparato gli impiegati (3 supervisori, 7 animatori, 12 distributori); ha visitato le autorità locali (sindaci di città e capi di Associazioni dei contadini) per stendere il piano e risolvere i problemi logistici.
«L’avventura è cominciata a febbraio – spiega il padre, mentre andiamo al centro di distribuzione di Amude -. L’abbiamo chiamata Web of love, help and life: ragnatela di amore, aiuto e vita, perché coinvolge donatori e beneficiari. La rete è composta da 8 centri (5 nel distretto di Adama e 3 in quello di Dodota Sire, in cui è Amude), coinvolge 42 Associazioni di contadini con oltre 40 mila persone e distribuisce ogni mese 1.400 quintali di fafa. Il nostro è un progetto integrativo: mentre il governo dovrebbe aiutare le famiglie affamate con la distribuzione di granaglie, noi aiutiamo donne gestanti, allattanti e bambini sotto i 5 anni».
Ad Amude arriviamo quando il sole è allo zenit; troviamo una marea di donne in attesa di essere servite. Alcune siedono pazientemente al sole o sotto un albero; altre sono attorno agli impiegati, che controllano schede, confrontano liste di nominativi, fanno apporre la firma (impronte digitali) sulle tessere; intanto si formano file variopinte ai punti di distribuzione.
È la scena che si svolge ogni mese negli 8 centri di distribuzione. Per padre Giovanetti e i suoi aiutanti tale è un lavoro snervante, ma gratificante. Più noiose, invece, sono le giornate passate in ufficio a stilare resoconti dettagliati del lavoro fatto da inviare al Crs e alle autorità governative; preparare il piano, altrettanto dettagliato, con date, luoghi e quantità di cibo necessario per il mese seguente.
Tale avventura continuerà fino a ottobre, quando si spera che la gente possa avere i primi raccolti. «Ma la ragnatela non scomparirà – continua il padre -. Ho preso accordi con varie capi locali per pesare tutti i bambini e controllare se abbiano superato la crisi o siano ancora denutriti e bisognosi di ulteriore aiuto».

FAME DI SAPERE
Dei sette progetti sociali gestiti dalla missione, quattro riguardano l’educazione: un asilo vicino alla chiesa parrocchiale e un altro ad Awash Melkasa, nella parte opposta delle piantagioni di canna; una scuola elementare e media con oltre 700 alunni a Wonji e un’altra a Bati Bora, a 12 km dalla sede parrocchiale.
Di tali opere si occupa padre Matthieu Kasinzi, missionario della Consolata congolese, eccetto Bati Bora, gestita da padre Giovanetti.
Mentre ci rechiamo a visitarla, traballando su una sassosa mulattiera, il padre racconta: «Piccola e malandata, la scuola stava per chiudere, poiché le famiglie non potevano pagare le tasse scolastiche, a causa della fame. Ho fatto un patto con i genitori: li avrei esonerati dalle tasse per un anno, purché mandassero i figli a scuola. Non l’avessi mai detto! Da 113, gli alunni sono saltati a 715. Ma con l’aiuto di alcuni amici italiani sono riuscito a mandare avanti la baracca e ingrandire gli edifici».
Siamo in vista della scuola; ma un’enorme erosione ci costringe a fare l’ultimo chilometro a piedi, attraversando un profondo burrone. Le aule sono piene come un uovo: le classi oscillano tra i 95 e i 110 alunni; alcune seguono il ciclo regolare di quattro anni; in altre i programmi vengono condensati in due anni: lo chiamano «sistema informale» ed è riconosciuto dal governo.
Ciò che colpisce nelle aule «informali» è la scala delle teste: nelle prime file esse sporgono dai banchi a malapena; nelle ultime si ergono ragazzotti e signorine in età da matrimonio.
Un particolare fa gongolare di gioia padre Giovanetti: in alcune classi le ragazze sono più numerose dei maschi. «È un fatto nuovo in Etiopia – osserva il padre -. La gente ha capito l’importanza della scuola per il futuro dei loro figli, in modo particolare per le donne, anch’esse affamate di sapere».

FAME DI DIO
Wonji non è solo progetti sociali, ma svolge una capillare opera di evangelizzazione e formazione di comunità cristiane. Il parroco, Ghebre Egziabher Gebru, missionario della Consolata etiopico, cornordina il lavoro religioso e pastorale, visita le famiglie, malati e anziani. È coadiuvato da padre Matthieu, responsabile dei giovani. La domenica, padre Giovanetti dà una mano a tutti e due, celebrando la messa nelle comunità rurali.
Wonji è la parrocchia più grande del vicariato di Meki: conta 18 comunità; alcune sono disseminate nella piantagione; altre sparse in campagne e colline; quella di Alentena è la più sviluppata e richiede tanta attenzione come la sede centrale.
Tutte le comunità sono caratterizzate da un comune denominatore: la fame di Dio. Per questo ha avuto un grande sviluppo: dalle poche centinaia di 20 anni fa, i cattolici sono passati a 5.700, un quarto della popolazione cattolica di tutto il vicariato.
L’attività di evangelizzazione, corroborata dalla testimonianza della carità dei progetti sociali e umanitari, continua a rispondere alla più profonda fame e sete della popolazione di Wonji: anche qui «i poveri hanno fame di Dio; non solo di pane e libertà» (RM 83).

Benedetto Bellesi