Ancora su «Kenya, amore nostro»

Cari amici redattori,
questa volta non scrivo
per una delle mie solite
puntualizzazioni, ma per
rallegrarmi con voi per
l’ottima riuscita del numero
speciale, dedicato ai
100 anni dei missionari
della Consolata in Kenya.
È stato chiarificatore di
molte inesattezze nell’immaginare
la realtà della
missione e ha aiutato ad
ammirare il coraggio di
questi uomini e il mistero
della loro vocazione. Senza
una chiamata divina, è
impossibile andare (e restare)
in luoghi così lontani
e inospitali.
Mi ha molto colpita la
pratica di circoncisioni e
delle mutilazioni sessuali.
Dolorosissime! Ma che significato
hanno? Si praticano
ancora? Come può il
missionario indurre il
cambiamento di certi costumi?
Mi piacerebbe saperlo.
Ancora un «bravissimo!
» ai redattori, così documentati
e competenti.

Alle «mutilazioni sessuali» abbiamo dedicato
un dossier (cfr. Missioni
Consolata, maggio 2002).
Ma occorre considerare il
fenomeno presso ogni
popolo e cultura, senza
generalizzare. Di regola
le mutilazioni sono legate
ai riti di «iniziazione», attraverso
i quali si realizza
l’entrata degli e delle adolescenti
nella vita completa
del gruppo di appartenenza.
Le mutilazioni
cui si sottopongono i
ragazzi sono da considerarsi
una prova di coraggio
(cfr. Achille Da Ros,
Popoli e culture, Emi, Bologna
1982).

Giulia Guerci




Pace in Sudan?

Cari amici,
grazie per lo «speciale»
sui 100 anni dei missionari
della Consolata in
Kenya. Un numero speciale
anche nel titolo indovinatissimo:
«KENYA, AMORE
NOSTRO». Vivendo in
questo paese da molti anni
e conoscendovi bene, il
mio complimento non è una
pura formalità…
Vi invio pure questa foto
di giornale, che non
parla di… «amore»: riguarda
il Sudan, il più grande
paese dell’Africa. Superfluo
ogni commento, con
la speranza che la foto resti
solo… una foto.

La foto ritrae una donna,
dell’etnia dei dinka,
con un fucile a tracolla e
un figlioletto sulla schiena.
È un’immagine sconvolgente.
Siamo in Sudan,
un paese che da 20
anni è alle prese con una
guerra civile fra il nord arabo-
islamico e il sud tradizionale-
cristiano: una
guerra che ha causato oltre
2 milioni di morti.
Ma il 20 luglio 2002 a
Machakos (Kenya) è stato
sottoscritto un accordo di
pace tra il governo sudanese
e il movimento di liberazione
del Sud-Sudan
(Spla). Funzionerà?

Giorgio Ferro




«Scusate,non siamo credenti…»

Spettabile rivista,
ho ricevuto il vostro interessantissimo
«speciale»
sul Kenya e sono rimasto
impressionato per le magnifiche
cose che i missionari
e le missionarie fanno
in quel paese (ed anche in
altre nazioni povere ed emarginate).
Vi ho spedito
una modesta offerta e vi
prego di inviarmi per posta
un altro paio di moduli
per versamenti in conto
corrente postale.
Vorrei precisare che io e
mia moglie non siamo credenti
(ci scuserete!), ma
ammiriamo profondamente
tutto quello che voi e altre
organizzazioni fate per
gli emarginati di tutto il
mondo.
Non avete senz’altro bisogno
del nostro incoraggiamento;
ma (per quanto
può contare) vi preghiamo
vivamente di andare avanti
così: noi, anche se non
frequentiamo la vostra
chiesa, vi saremo sempre
vicini e vi ringraziamo per
quanto fate.

Come missionari, riteniamo
che i non credenti
siano rarissimi. Forse non
esistono affatto, perché
Dio (a modo suo!) si rivela
a tutti. E poiché la fede
è un dono del Signore, se
uno ritiene di non averlo,
non si deve scusare con
gli uomini.
Gli amici di Sover sono
non credenti? Non ci
sembra proprio, dato il
loro comportamento.

Lettera firmata




Dopo le «alte sfere»

Caro direttore,
mi sono trasferito definitivamente
a Rosà, dopo 52
anni di missione nel terzo
mondo. Se credete opportuno
inviarmi ancora Missioni
Consolata, fatelo al
nuovo recapito. Ero compagno,
nel seminario di
Padova, del vostro missionario
Domenico Zordan,
con il quale ho poi collaborato
in Kenya ed Etiopia
come delegato della
Santa Sede e dell’Unesco.

Certo, don Cipriano,
che le invieremo la rivista,
anche perché lei è rimasto
sulle «alte sfere»
con semplicità e generosità.
Ne è prova l’amicizia
con il compianto padre
Domenico Zordan.

don Cipriano Rossi




I CONFINI DEL BENE E DEL MALE

«Dio non si rivela più, sembra nascondersi nel suo
cielo, in silenzio, quasi disgustato dalle azioni dell’umanità».
Così, dicono le cronache, il pontefice si è rivolto
ai fedeli durante un’udienza collettiva di catechesi,
lo scorso 11 dicembre. Parole di fuoco, così aspre non
erano mai state dette. Un’immagine di Dio più corrucciata
non era mai stata proposta da un vicario di Cristo.
Credo che sia uno dei segnali della estrema gravità della
situazione di questa umanità contemporanea, e di questo
pianeta.
Undici anni sono trascorsi dalla fine di quello che venne
definito – da Ronald Reagan – l’«Impero del Male».
Invasione di campo, poiché non spetta a un uomo politico,
nemmeno se è presidente dell’unica superpotenza
mondiale, definire i confini del Bene e del Male.
Deformazione inusitata della politica, che non poteva che
produrre effetti devastanti, sia sulla politica che sulla morale.
Poiché stabilire in sede politica ciò che è il Male
Assoluto, significa parallelamente, implicitamente, assegnare
alla politica il diritto di stabilire che cosa è il Bene.
Da 11 anni, dunque, noi tutti, noi ricchi, noi sazi, abbiamo
vissuto in quello che è divenuto, per definizione,
il Bene. E adesso scopriamo, con stupore, con angoscia,
che questo Bene non ha molto a che vedere né con l’etica,
né con la spiritualità, né con la giustizia. Un altro
materialismo ha occupato prepotentemente il posto dell’ateismo
di Stato che sembrava ergersi come una minaccia
universale. E questo appare oggi più minaccioso
del predecessore, poiché è più insidioso, pervasivo, onnipresente,
subdolo, perfino – a tratti – caritatevole. La vita,
specie quella dei nostri figli, è ormai riempita di disvalori,
di vuoto intellettuale, di egoismo, di una insensata
corsa a procurarsi oggetti di cui nemmeno abbiamo
bisogno.
Siamo divenuti tutti homines videntes, coloro che vedono,
coloro che apprendono, quel poco che apprendono,
attraverso la televisione. E la televisione è divenuta il
nostro cattivo maestro. Cattivo ma così potente da avere
scardinato i caposaldi della nostra vita e di quella delle generazioni
che ci hanno preceduto. Famiglia, scuola, società
civile: luoghi dove ci si guardava negli occhi, luoghi
del confronto diretto tra i visi reali, dove si poteva cercare
di capirsi, sono stati travolti dall’ondata catodica.
Coloro che creano i flussi di sentimenti, di emozioni,
d’informazioni, non hanno altri criteri di regolazione che
il risultato finale di una infinita crescita della vendita di
quei prodotti che avvelenano la nostra vita quotidiana e
la nostra anima. Aspettarsi da loro un qualsiasi messaggio
di verità, giustizia, pace è cosa del tutto vana, poiché
l’ondata catodica non è di queste cose che si occupa. Ma
loro sono divenuti determinanti nello stabilire qual è la
nostra agenda quotidiana.
Io non so se si possa dire che Dio è adirato. E con chi
è adirato. Ma non si può restare indifferenti di fronte a
tanto disastro morale, di fronte all’indifferenza, di fronte
alla distrazione collettiva nella quale siamo trascinati e
che ci porta a dimenticare e stravolgere non solo il passato
ma perfino il presente.
Non so neppure se sia giusto incolpare la gente comune
di questa apatia e indifferenza, poiché la gente comune
– l’«uomo della strada», come lo si definisce comunemente
– non può più sapere in quale mondo vive, che
cosa sta accadendo attorno a noi e perché accade. Non
può saperlo perché il sistema di informazione-comunicazione-
intrattenimento che ci circonda, nel quale noi
siamo immersi senza soluzione di continuità, anche coloro
che pensano, spegnendo la televisione, di sottrarsene,
ci avvolge proiettandoci in un mondo irreale, il prodotto
di una «fabbrica dei sogni», che ci nasconde le verità
più elementari e ci impedisce di trarre perfino le più
elementari conclusioni che conceono la nostra vita
quotidiana.
In queste condizioni è la democrazia stessa a essere minacciata,
poiché non può aversi società democratica là dove
i cittadini non conoscono le scelte possibili, e vengono
quindi condotti, anzi trascinati, a scegliere dentro un
mazzo di carte mescolato da bari, che hanno tolto dal mazzo,
preventivamente, le scelte che loro non piacciono.
Il papa ha parlato, angosciato, evidentemente. Ma le sue
parole sono annegate nel gran mare di chiacchiere, nell’indifferenza
generale. Subito dimenticate, subito cancellate
da quel frenetico voltar di pagina che contraddistingue
tutto il lavorio mediatico del villaggio globale.

GIULIETTO CHIESA




A proposito di verità e libertà di critica: «Guai a toccare l’America»!

È possibile criticare gli Stati Uniti senza essere etichettati come «anti-americani»? È sempre stato difficile.
Oggi lo è ancora di più. Ma…
Perché ho scelto di chiamare questa mia personale
rubrica su Missioni Consolata «luoghi comuni»?
Perché la strada dell’inferno è appunto lastricata di
luoghi comuni. Saltellando sui quali si ha l’impressione
di stare al sicuro, mentre sono voragini – questa è la
caratteristica principale dei luoghi comuni – in cui la
verità scompare sempre, soverchiata dall’interesse, dall’ignoranza,
dall’ignavia, dalla presunzione.
I luoghi comuni sono anche le armi per eccellenza dei
manipolatori, specie di quelli televisivi, degli editorialisti
dei grandi giornali cosiddetti d’informazione. Chi
oserà mai contrapporsi ai luoghi comuni, in cui si rifugiano
i pigri e quelli che pensano di sapere già tutto?
Iluoghi comuni sono infiniti. Ce n’è uno che gira per
il mondo da decenni. È quello dell’anti-americanismo.
Guai a toccare l’America! Che, come diceva quel
filantropo di Ronald Reagan, è il «Regno del Bene».
Io pensavo che il Regno del Bene fosse più difficile da
identificare e, per questa ragione, sono stato spesso accusato
di anti-americanismo. Luogo comune per eccellenza,
come si può dimostrare.
Perché se è anti-americano chi critica il governo degli
Stati Uniti, allora è anti-francese chi critica quello di
Parigi e anti-italiano chi critica quello di Roma. Cioè
si giungerebbe alla conclusione che, per esempio, gli
americani che manifestano contro la guerra irachena
sono anti-americani e gl’italiani che criticano questo o
quel governo nazionale sono anti-italiani.
Andando avanti su questa strada si arriverebbe presto
alla conclusione che non si deve criticare più niente,
perché si finirebbe comunque sotto qualche anatema.
Invece dovrebbe essere evidente che un governo, buono
o cattivo che sia, non rappresenta mai la totalità di
un paese e di un popolo. Se c’è democrazia, questa non
si manifesta mai in forma di unanimità (questa è caratteristica
dei regimi totalitari, come sappiamo).
Dunque, un governo, nella migliore delle ipotesi, rappresenta
sempre e soltanto la maggioranza, non la totalità.
Per cui chi dissente dalle sue decisioni non manifesta
un atteggiamento di spregio nei confronti di un
popolo intero. Si limita a esercitare il diritto, individuale
e collettivo, della minoranza. Spesso poi accade
che un governo (com’è il caso dell’attuale governo degli
Stati Uniti) non solo non rappresenta la maggioranza,
ma è espressione di una minoranza di elettori.
E il presidente attuale degli Stati Uniti non risulta neppure
eletto in base alla conta dei voti, ma in base a un
editto di un tribunale della Florida, il cui governatore
è suo fratello. Per cui dare dell’anti-americano a chi critica
George Bush è davvero un’operazione troppo
sbrigativa. Ma, tant’è, i prigionieri di questo luogo comune
– come, in genere, coloro che amano starsene accucciati
nelle nicchie dei luoghi comuni – non badano
ai dettagli.
Così, continuando ad affibbiare agli altri la critica di
anti-americanismo non appena manifestano il minimo
dubbio circa le decisioni di questo o quel presidente
degli Stati Uniti d’America, gli adoratori di una certa
America perdono il bene dell’intelletto. Per esempio
sostenendo – altro luogo comune – che l’America ci ha
salvati dall’egemonia mondiale del nazismo. La verità
storica, come sa chiunque abbia studiato la storia invece
che leggerla attraverso gli occhiali di Angelo
Panebianco, dice che la vittoria contro il nazismo fu ottenuta
con il contributo assolutamente essenziale
dell’Unione Sovietica, mentre gli Stati Uniti arrivarono
dopo, con ritardo – c’è chi pensa che sia stato un ritardo
molto grave – a prendersi una parte del merito e
la quasi totalità del risultato.
Il comunismo sovietico poteva e può non piacere; anzi,
può essere visto con orrore, ma questo non autorizza
a negare la verità storica in nome del luogo comune,
ormai dominante, secondo cui noi tutti saremmo
stati salvati dall’America. Il fatto che questo luogo
comune stia trionfando da tutti i giornali e da tutti i teleschermi
non lo fa diventare, per questa sola ragione,
più vero.

Per molti anni corrispondente da Mosca per il quotidiano
«La Stampa», Giulietto Chiesa è uno dei più noti
giornalisti italiani. Tra i suoi ultimi libri: Afghanistan,
anno zero (Guerini e Associati, 2001), G8/Genova
(Einaudi, 2001), La guerra infinita (Feltrinelli, 2002).

Giulietto Chiesa




I grandi missionari: Giovanni Bonzanino MILLE E UN SOGNO

Giovanni Bonzanino

Missionario di frontiera, irresistibilmente attratto dal più difficile,
lontano e bisognoso, padre Giovanni Bonzanino moriva a Shashemane
(Etiopia) 20 anni fa, il 30 gennaio 1983. Amò la «sua Africa» con
passione contagiosa, fino a consumarsi a soli 56 anni.
«Non sono nato in Africa.
Questo mi dispiace un
poco. Avrei voluto essere
sfornato in questa verde, dolce, ubertosa
Africa, dove si viene al mondo
inguantati in un’ambra vellutata
e soave e la vita scorre smorzata come
un venticello che sfarfalla tra ramificazioni
di alberi giganteschi».
Così inizia una specie di diario in cui
padre Bonzanino racconta l’esperienza
dei suoi primi anni in Africa.

SOGNANDO L’AFRICA
«Invece sono nato a Biella» continua.
Era il 29 gennaio 1927. Prima
ancora che venisse al mondo, sua
madre lo aveva offerto alla Madonna,
conservando quel segreto per 30
anni, fino a quando visitò il figlio in
Kenya: padre Giovanni l’abbracciò,
sollevandola da terra e, in un impeto
di gioia, le disse: «Mamma, quel
giorno mi hai fatto il più bel regalo».
Alberta Maria era una donna che
«sapeva il fatto suo, dai battibecchi
con le vicine al far filare dritto i figli,
dallo speculare fino all’osso per sbarcare
il lunario a lavorare in fabbrica
e passare tra posti di blocco in bicicletta
con un carico di granoturco».
Papà Vittorio non era da meno.
«Tutto casa e lavoro, vecchio socialista,
dovette assoggettarsi a portare il
fez in testa per campare, rischiare la
galera per racimolare due chili di farina
al mercato nero, poiché il pane
della tessera finiva troppo in fretta».
Erano i tempi duri del fascismo e
della seconda grande guerra. Ciò
non impedì al piccolo Giovanni di
coltivare sogni e avventure, come un
ragazzo normalissimo. Nei tempi liberi
dalla scuola faceva qualche lavoretto
in fabbrica, per arrotondare
il bilancio familiare. In classe si appassionava
di storia e geografia, ma
era allergico alla matematica. «Non
fui mai uno sgobbone – confessa -. La
mia specialità era il pallone e il tifo
per la Juventus: primo amore che mi
portai in Africa come un soldato il
suo fucile».
A volte, con la banda del quartiere,
marinava la scuola per esplorare
la campagna o alleggerire la pianta di
fichi nell’orto del prevosto. «Un
giorno Tavio, il vecchio sacrestano,
mentre si riallacciava la cinghia dei
calzoni appena usata sui piccoli furfanti,
mi domandò cosa sarebbe stato di una canaglia come me da grande;
risposi innocentemente: “Mi farò
missionario”. Si sbellicò dalle risa.
Ma quando celebrai la prima messa,
mi diede una pacca sulle spalle e sorrise:
“L’ho sempre detto che ti saresti
fatto prete”».
Entrato nel seminario di Biella,
Giovannino sognava di essere torturato
dagli africani e finire martire. In
quinta ginnasio decise di farsi missionario
della Consolata. «Coi miei
17 anni, lieto, baldanzoso e impaziente
– racconta -, iniziai il liceo a Varallo.
Non all’algebra e trigonometria.
Avevo qualche ebbrezza poetica,
ma il mio ideale era l’Africa. In
noviziato, alla Certosa di Pesio, non
ho avuto sussulti mistici, né impennate
carismatiche. Tra i miei compagni
c’era un africano: fu il migliore
stimolo missionario».
Durante gli studi teologici continuò
a respirare aria di missione, più
dalle figure di missionari incontrate
nella casa madre di Torino che dalle
lezioni accademiche. Arrotondò il
suo curriculum con discipline utili
per l’Africa: diploma magistrale, fotografia,
dattilografia. Finché fu ordinato
prete nel 1953, a 26 anni. L’anno
seguente partì per il Kenya: «Fu il
giorno più bello della mia vita».

L’INAFFERRABILE JOHN
Destinato alla missione di Mujwa,
nel Meru, John cominciò subito a
studiare la lingua locale, familiarizzare
con usi e costumi della gente e
smontare qualche idee preconcette,
alla scuola della figura poliedrica e
briosa di padre Chiardo.
Appena riuscì a masticare qualche
parola in kemeru, prese a scorrazzare,
prima con una vecchia moto, poi
con una Land Rover scassata, per visitare
le comunità, portare uno all’ospedale,
un’altra alla mateità, un
terzo al brefotrofio. «Mai paura! Passo
per uno che pialla le curve e mangia
i freni» scriveva nel diario.
A giugno del 1954 era professore
d’inglese e storia nella scuola secondaria
di Nkubu. «Come è impartita
qui – scriveva -, la storia ha una piuma
bianca sul cappello scozzese: testi
in inglese di autori inglesi. È una
storia colonialista». Ma ci pensò lui a
metterci la penna nera dello struzzo
africano, evidenziando le scoperte archeologiche
fatte in Africa orientale,
sciorinando imprese coloniali e tratta
degli schiavi, «pagine che facevano
impazzire gli studenti».
Alla fine del 1956 fu nominato
parroco di Meru, capitale dell’omonimo
distretto, dove si stava costruendo
la cattedrale. «Sono uscito
dalla fase di amore avventuroso-romantico
per l’Africa e posso dire, parafrasando
san Paolo: sono cittadino
africano» scriveva nel diario.
E continuò a sognare e dare sfogo
alla creatività vulcanica con innumerevoli
iniziative di successo: pubblicazione
del Twi ba Meru, mensile
di 10 mila copie; compilazione, con
l’aiuto di un prete africano, di innumerevoli
fascicoli, libri, sussidi, catechismi
in lingua locale; uso di modei
strumenti di comunicazione
come radio e cinema, guadagnandosi
il nome di Patere Kameme (padre
radio); fondazione del Meru Sport
Club e organizzazione di popolarissime
competizioni sportive, corse ciclistiche
e toei di calcio, collezionando
un altro titolo onorifico: Thuranira,
l’organizzatore.
«La nostra squadra ha vinto la
coppa del distretto – scriveva nel
1960 -. I ragazzi sono in orbita; io ho
un ginocchio gonfio. Naturalmente
la maglia indossata dalla squadra era
quella della Juve».
John era uno specialista nel coinvolgere
la gente in progetti di chiese,
cappelle, scuole, asili o altre opere
sociali e si meritò un altro gallone:
Patere Lotari (padre lotteria). Quasi
tutte le costruzioni da lui promosse
nascondono nelle fondamenta, come
«pietra» angolare, una manciata
di due scellini, il prezzo del biglietto
della lotteria.
In una parrocchia di 5 mila cristiani
e 60 mila abitanti, padre John si
buttava a pesce nel lavoro missionario:
catecumenati e battesimi a bizzeffe.
«Vacci piano, mi dicono – scrive
nel quarto anniversario dell’arrivo
in Kenya -. Piano un corno. Non
sono io a cercare il numero; sono loro
che vengono a cercare Cristo».
Come se non bastasse, estendeva la
sua attività a tutta la diocesi: formazione
della gioventù; supervisione di
una quindicina di scuole cattoliche;
estenuanti trattative per fondae altre;
animazione dell’Azione cattolica;
visite ai campi di concentramento,
dove erano rinchiuse migliaia di persone
accusate o sospettate di appartenere
al movimento mau-mau.

LA PRIMA AFRICA
Padre John era arrivato in Kenya
quando la tensione tra guerriglia
mau-mau e repressione dell’amministrazione britannica era al culmine
e si trovò subito schierato dalla parte
degli africani.
«Nel mercato tra Mujwa e Nkubu
– scriveva il 23 agosto 1954 – hanno
disteso a terra, allineati, sette cadaveri
di mau-mau uccisi nella foresta.
C’erano lunghe file di persone a guardare.
Mi sono fermato anch’io. Ho
detto una preghiera e tracciato un segno
di croce sui morti. Ho sentito alle
spalle una risata: “Padre, neanche
i tuoi sortilegi possono più farli vivere”.
Era l’ispettore di polizia, che
continuò: “È comodo essere neutrali
per voi missionari, che benedite tutti.
Vorrei esserlo anch’io; invece mi
tocca fare questo maledetto lavoro e
ammazzare questi bastardi”. “Non
sono neutrale” gli ho risposto. Mi ha
guardato con faccia da carciofo, come
un macellaio che affonda la mannaia
per staccare una bistecca; ma
non ha più fiatato. Me ne sono andato
a fare la mia lezione di storia».
Nel suo diario, pubblicato una decina
d’anni dopo, insieme ad altri articoli,
col titolo di Le due Afriche, padre
John non fu solo testimone di
nove anni di convulsioni, ma anche
protagonista del passaggio dall’Africa
coloniale a quella indipendente.
Dall’intreccio socio-politico dei
suoi scritti emergono pure problemi,
riflessioni e intuizioni squisitamente
missionarie: inculturazione, ecumenismo,
chiesa locale, rispetto delle
culture, problemi tribali, divergenze
con altri evangelizzatori, impegno
scolastico e religioso per costruire la
nuova Africa.
Le sue riflessioni possono apparire
un po’ daltoniche: il «nero» è bello;
il «bianco» da cancellare. John
guardava l’africano con occhi di missionario
ciecamente innamorato,
sorvolando sulle pecche e dipingendolo,
o meglio «sognandolo», come
«dovrebbe essere». Ma non senza
apprensione. «Non ho paura di fame
o lebbra, leopardo o serpente,
freccia o fucilata – scriveva alla fine
del ’57 -. Forse ho paura di quello
che potrà accadere al Kenya».

LA SECONDA AFRICA
«Mentre il paese marcia verso l’indipendenza,
anche la chiesa deve avere
una certa autonomia» scriveva
alla fine del 1960. John propose al vescovo
di nominare parroco della cattedrale
un prete africano. L’idea fu
approvata, ma passarono quasi due
anni prima che fosse messa in atto.
Nominato padre Salesio, John scese
al rango di viceparroco e accelerò
il ritmo delle attività. «Il mio lavoro
è un mosaico – scriveva nel 1963 -.
Arrivo alla sera che annaspo. Stampa,
Azione cattolica, cine, conferenze
e raduni in continuità. Ogni missione
vuole una settimana, con ritiri
e proiezioni alla sera. Sono piuttosto
stanco di fare il giradischi». Eppure
trovava tempo per partecipare a comizi
e adunate, incontrare leaders
politici e altri «pezzi grossi».
Le pagine del Twi ba Meru sprizzavano
politica, facendo arricciare il
naso ai missionari stagionati. Ma lui
imperterrito, con idee chiare e benedizione
del vescovo. «Ho preparato
gli schemi per gli incontri del
prossimo anno sul tema: libertà e cristianesimo
– scriveva a una settimana
dall’indipendenza -. Si tratta di far
scendere tutti i cristiani nell’arena e
aiutarli a non essere spettatori: il lavoro
è il padre della libertà; l’ozio è
il padre del colonialismo. Passerà la
febbre dell’indipendenza e occorrerà
rimboccarsi le maniche, soprattutto
i cristiani. È un lavoro eccitante
progettare l’Africa nuova».
Quei giorni John doveva avere una
febbre da cavallo. «Sale la pressione
dell’entusiasmo – scriveva -. Ho una
serie di pellicole sulla libertà di altri
stati africani e tutte le sere le proietto
in qualche parte del Meru. Massa
di gente anche in cattedrale: nella
predica padre Salesio ha detto che i
presenti sono stati battezzati da me
e che, con l’indipendenza, divento
più africano di prima».
Nella notte dell’11 dicembre 1963
toccò a padre John introdurre il Meru
all’indipendenza, intrattenendo la
folla con film, musica e discorsi, inno
nazionale a mezzanotte e trasmissione
radio della cerimonia di
Nairobi. Il giorno seguente fu un’apoteosi,
come racconta nell’ultima
pagina del diario (vedi riquadro).
Alla fine del 1963 padre John fu
nominato parroco di Nkabune e cominciò
a costruire la nuova Africa:
pozzi, chiesa, orfanotrofio, strutture
per le opere parrocchiali e sociali; soprattutto
formazione di comunità responsabili
del proprio futuro civile e
religioso.

DESERTO CHE FIORISCE
Metà della diocesi di Meru, grande
come mezza Italia, non aveva mai visto
la barba di un missionario. Per
sfondare occorreva un uomo di fegato,
fantasia e testa dura. John lesse nella
mente del vescovo e si offrì volontario:
fu subito nominato vicario episcopale
della North Easte Province
(Nep), così si chiama la regione.
In passato il governo l’aveva chiusa
ai missionari, per non scontentare
i musulmani; poi gli schifta (ribelli
somali) vi seminarono terrore e
morte (1963-67), producendo 4 mila
orfani. Siccità, fame e colera stavano
mettendo a rischio la sopravvivenza
di quasi 300 mila abitanti.
Nel 1968 padre John raggiunse
Garissa e, con fratel Mario Petrino,
distribuì aiuti umanitari e trasformò
una caserma diroccata in Boys’ Town
(città dei ragazzi) per accogliere gli
orfani del luogo. Tre anni dopo passò
a Wajir, 400 km più a nord, nel
cuore del deserto, per dare una mano
a padre Baldazzi: sfamati vecchi
e bambini, fondò la Girls’ Town per
un centinaio di bambine orfane. Nel
1972 era a Mandera, altri 400 km più
a nord, ai confini con Somalia ed Etiopia.
Anche qui fondò una Boys’
Town, affidata a Manlio e Lorenza,
due volontari italiani, e sostenuta
dall’adozione a distanza di un gruppo
di 500 famiglie italiane.
Spendere tante forze in un ambiente
totalmente musulmano, quando
altrove si mietevano conversioni a
tutto spiano, per qualcuno era uno
spreco. Ma John ribatteva: «In uno
scenario che è un’orgia di sole e sabbia,
la gente ha soprattutto fame e sete.
Corre voce che il papa abbia presentato
al nostro vescovo l’urgenza
della presenza cristiana in questa zona,
anche soltanto per offrire un bicchiere
d’acqua all’assetato».
Solo Dio sa quanti ne furono distribuiti:
dal fiume Tana, una pompa
foiva alla missione un milione
di litri d’acqua al giorno e la gente attingeva
liberamente.
I giornali parlavano di «miracolo a
Garissa». La missione contava 24 edifici,
chiesa, distributore di benzina
e piscina; accoglieva 225 orfani; impiegava
200 operai locali; ogni sabato
sfamava 300 fra vecchi e bambini;
30 ettari di terra producevano 12 tonnellate
di meloni al mese per il mercato
di Nairobi; poi mais, melanzane,
fagioli, cipolle, peperoni, angurie,
pomodori, arachidi e 5 mila piante di
banane, papaia, uva, datteri.
Identico prodigio, ma con enormi
sacrifici, si ripeté a Mandera, con
l’acqua stagionale del fiume Dawa:
città dei ragazzi, scuola secondaria,
cornoperativa agricola, artigianato, sviluppo
dell’habitat e commercio iniettarono
nella città di nomadi la
voglia di vivere più dignitosamente.
Questo fu il miracolo più vero nel
deserto: schiodare la gente dall’atavica
apatia e rassegnazione alla sopravvivenza:
gli operai impiegati nelle
costruzioni impararono a farsi case
più decenti; i braccianti arruolati
nei lavori agricoli si misero a produrre
in proprio; i pastori, abituati al
numero di bestie, cominciarono a
puntare sulla qualità. Perfino il governo
avviò progetti agricoli e incoraggiò
la gente a fare altrettanto.
Più difficile era fare attecchire il seme
del vangelo. Padre John non esitò
a studiare il Corano e insegnarlo
nella scuola, come ordinava la legge
del Kenya per quell’ambiente; ma
non senza accostare gli insegnamenti
morali di Maometto a quelli
di Gesù. E ci riusciva troppo bene;
tanto che gli fu ingiunto di non profanare,
lui infedele, il messaggio del
profeta.
John continuò a seminare la testimonianza
dell’amore verso i più
bisognosi; oggi se ne vedono i frutti:
la Nep costituisce la diocesi di
Garissa, con 10 missioni e una trentina
di succursali, dove lavorano i
cappuccini di Malta e vari missionari
laici.

VANGELO
NELLA RIVOLUZIONE

Nel 1974, a pochi mesi dal colpo
di stato di Menghistu, John fu destinato
all’Etiopia, dove una
decina di confratelli, da
pochi anni, lavoravano
nel sud del vicariato
di Harar, provincia
degli Arussi. Fu
subito chiamato
dal vescovo a salvare
la scuola secondaria
di Dire
Dawa, intossicata
dai fumi rivoluzionari.
Ascoltati
studenti e genitori,
con pazienza e
fermezza ristabilì
subito ordine e disciplina;
per tre anni
continuò a dirigere
la scuola con
grande discrezione e coraggio, specie
durante la guerra somala.
Non essendo il tipo da restare incollato
a una poltrona, si occupò di
una cornoperativa agricola fuori della
città; aprì una scuola in un quartiere
povero; fondò un pensionato per i
ciechi e insegnò loro un mestiere.
Nel 1978 John fu eletto superiore
del gruppo di confratelli. Quando la
provincia degli Arussi fu staccata da
Harar per formare la prefettura apostolica
di Meki (1980), ne diventò amministratore
apostolico, in attesa della
nomina del prefetto. Sarebbe stato
l’uomo ideale per tale carica, ma insistette
perché vi fosse posto un etiope,
accontentandosi di fare il vicario generale.
Al tempo stesso, John fu eletto
presidente della Conferenza dei religiosi
del sud Etiopia.
Calatosi con tutte le forze in tali responsabilità
e nella realtà socio-politica
del paese, padre John portò la rivoluzione
nel modo di fare missione,
per rispondere alle sfide antireligiose
del regime marxista.
Rivoluzione e missione, diceva, sono
legati da un filo di speranza: entrambe
vogliono sviluppo, giustizia
e liberare tutti dall’oppressione. «Ma
il punto debole della rivoluzione –
continuava – è che non s’interessa di
Dio. Per noi missionari, il nocciolo
della questione rimane questo: dimostrare
che non può esserci vera
giustizia e sviluppo senza Dio. La nostra
vocazione inequivocabile nella
rivoluzione è operare in modo che
uomini e donne della nuova Etiopia,
con tutto il progresso e sviluppo che
meritano, non siano tagliati fuori dal
loro Creatore e Redentore».
«La rivoluzione – spiegava – trascura
le lacune di miseria: non può rallentare
la marcia del progresso per
stare al ritmo degli storpi. Il vangelo,
invece, è buona notizia per tutti; l’evangelizzazione
porterà frutti, solo se
avremo con noi i ciechi e gli storpi».
Insieme agli altri missionari, padre
John si gettò a capo fitto nelle opere
sociali, consolidando quelle già esistenti
e creandone di nuove appena
ne intuiva la necessità.
L’ospedale rurale di Gambo, rimasto
a lungo senza medici, diventò il
centro di controllo e cura della lebbra
e, con 267 dispensari sparsi nella
provincia, assisteva oltre 4 mila colpiti
da tale infermità. Accanto all’ospedale
costruì un villaggio di 25 casette
per dare dignità a quelli già guariti.
Il centro di riabilitazione per handicappati
a Gighessa fu potenziato
con nuove strutture e attrezzature.
Una «casa-famiglia» per handicappati
e orfani fu costruita ad Asella; a
Shashemane nacque la scuola per
bambini e bambine non vedenti.
In ogni missione fu costruito il dispensario;
venne organizzata la distribuzione
di tonnellate di viveri ai
poveri, specie nei periodi di emergenza;
si moltiplicarono le scuole. In
un paese col 90% di analfabeti, l’istruzione
era una priorità e un’occasione
provvidenziale per l’evangelizzazione.
John viaggiava da una missione all’altra
per incoraggiare i confratelli,
sostenere e lanciare nuove iniziative;
ma senza mai perdere di vista l’evangelizzazione
diretta: visita alle scuole
dei villaggi, messa domenicale nelle
cappelle, formazione della gioventù
e aspiranti al sacerdozio, animazione
delle piccole comunità cristiane.
Le vacanze in patria si trasformavano
in estenuanti scorribande da un
capo all’altro della penisola, per
sconvolgere coscienze, snidare egoismi,
costruire solidarietà, coinvolgere
la gente nella sua avventura missionaria.
Talvolta si sobbarcava, fino
a 10-15 incontri al giorno in scuole,
circoli giovanili, chiese, convegni.
Nascevano gruppi di appoggio in Italia
e Nord America; professionisti
di ogni genere (medici, maestri, agronomi,
assistenti sociali…) lo seguirono
in Africa.

COMPLEANNO IN PARADISO
Durante le ultime vacanze in Italia
il dottore gli aveva detto di darsi una
calmata, se voleva arrivare a 70 anni.
«Se me ne restassero solo due, cosa
importa? Ciò che conta è come e cosa
si vive» rispose sorridendo.
Era un presentimento? Due anni
dopo, la sera del 28 gennaio 1983,
John toò a Shashemane dopo 10
giorni di incontri tenuti ad Addis Abeba:
confessò che quella fatica «lo
aveva ammazzato».
Il giorno seguente ricorreva il suo
compleanno. Per fargli una sorpresa,
suor Flaminia stava preparando una
torta, quando il padre la chiamò. Lo
trovò a letto con brividi e febbre alta;
gli somministrò medicine antimalariche,
ma la situazione si aggravò.
Accorsero i medici della zona; diagnosticarono
un blocco renale e tentarono
di salvarlo con flebo, antibiotici,
diuretici, cortisone. Inutilmente.
Per padre John i sogni si spensero
la sera del 30 gennaio, a 56 anni. Una
vita stroncata precocemente, ma vissuta
in pienezza fino all’ultimo respiro,
come si legge nell’ultima lettera
alla madre: «Oggi faccio 56 anni.
Certo che sono stati intensamente
vissuti. Non ho avuto tempo
di annoiarmi neppure
per un’ora».

JOHN SCRITTORE
Fin dal liceo Giovanni Bonzanino aveva
«una voracità innata di lettura;
non era mai sazio di libri. Lettura
non superficiale, ma riflessiva: fissava
idee, espressioni e parole che interiorizzava
» testimonia il suo professore
d’italiano. Passione che lo accompagnò
tutta la vita. Leggeva articoli e
saggi di storia, politica, teologia, tenendosi
aggiornato su tutto ciò che
capitava nel mondo e nella chiesa,
specie di quanto avveniva in Africa.
Nella frenetica attività che caratterizzò
la sua vita, trovò il tempo
per scrivere. E scrisse moltissimo: lettere,
poesie, articoli, saluti appelli, libri.
«È il mio relax» soleva dire, anche
se rubava il tempo al sonno necessario.
Il suo stile snello, agile, frizzante, volentieri
anche sferzante, faceva sgranare
gli occhi al lettore e lo coinvolgeva
nella sequenza di miseria e fame
del terzo mondo.
Ecco alcuni titoli dei libri più famosi:
Cittadini d’Africa (1974), ritratti di
missionari e missionarie.
Un uomo per l’Africa (1977), presentazione
della figura del beato Allamano.
Missionari nella rivoluzione (1978),
note di pastorale missionaria per i
paesi africani a regime socialista.
Queste mie verdi colline (1979), profilo
di padre Luigi Eandi.
Africa casa mia (1979), quadri di esperienza
missionaria.
Il primo figlio (1980) e Gli insabbiati
(1982), romanzi a sfondo missionario.
Quattro volumi pubblicati postumi:
Due Afriche e un po’ d’Italia, prima e
dopo l’indipendenza.
Momenti d’Africa, riflessioni sull’attività
missionaria in Africa.
Ritoo a casa, romanzo con protagonista
un lebbroso guarito.
Africa mia, raccolta di poesie.

Benedetto Bellesi




La vedova: Morte in terra straniera

Il marito (e padre dei suoi figli) faceva il camionista. Era
morto lontano da casa. La famiglia avrebbe voluto riportare
la salma in patria, ma non c’era denaro sufficiente.
Quanto pesa lasciare la tomba del proprio
defunto in un paese straniero?

Cominciò la liturgia. Il prete ortodosso, girato verso
l’altare, cantava le preghiere e la gente dietro di
lui rispondeva in coro: «Amin!». Si distingueva la voce
della moglie del prete, un bellissimo soprano, seguito
dal coro. In chiesa c’era poca gente. Erano tutti
in piedi: gli uomini a destra, le donne a sinistra, alcune
con la testa coperta dal foulard.
Vicino alla porta, come se fosse appena entrata, c’era
una donna in nero. La liturgia durò quasi due ore e alla
fine il prete disse alla gente di sedersi e cominciò la
predica:
«Fratelli e sorelle, fra noi oggi c’è una vedova, e io vi
prego di non girare vigliaccamente le spalle a chi in
questo momento ha bisogno di voi, ma di affrontare
coraggiosamente la nuova prova che Dio ha messo davanti
a noi. La nostra sorella ha perso il suo sposo, ma
questa è solo una parte della sua disgrazia. Il marito è
sepolto qui, nel cimitero di questa città, perché nessuno
ha potuto sostenere la spesa per il trasporto del
morto nel paese natio. Adesso la vedova e i suoi due
figli devono lasciare questo paese, ma dovranno anche
lasciare qui la tomba del padre e marito. La madre del
defunto non potrà mai venire a piangere sulla tomba
del figlio. Perciò chiedo a ognuno di voi, di raccogliere
quanto serve per trasferire la bara nel cimitero del
loro villaggio…».
Non c’era molta gente perché era la fine dell’estate e
non tutti erano tornati dalle ferie (per gli immigrati le
ferie sono andare nella propria terra).
Ognuno diede qualcosa, ma era poco, troppo poco rispetto
a quanto serviva…
La donna viveva con i figli in un piccolo paese della
Serbia. Suo marito faceva il camionista per una
ditta di trasporti. Quest’estate avevano deciso di riunirsi.
Anche i figli volevano trovare un lavoro e aiutare
i genitori a finire la casa che avevano iniziato a costruire
nel loro villaggio. Ma le delusioni arrivarono
ancora prima della morte del padre.
Questi non poteva ottenere per i figli il permesso di ricongiungimento
familiare, perché erano maggiorenni.
Erano allora venuti con un visto turistico per provare
a trovare un lavoro, ma non potevano averlo senza
il permesso di soggiorno. Non potevano trovare
neanche la casa. Erano ospiti nell’alloggio che il padre
divideva con due colleghi connazionali. Poi la morte
improvvisa del marito aveva tolto anche alla moglie la
possibilità di ottenere il permesso di soggiorno.
«Non posso lasciarlo qui – confidò alle donne davanti
alla chiesa – non sarei in pace. Noi abbiamo
il nostro cimitero, le nostre usanze… Mi hanno
detto che qui, dopo alcuni anni, liberano la tomba
occupata per fare posto ad altri morti. Mettono le ossa
in una fossa comune del cimitero: non c’è più nome,
nessuna traccia… Nel nostro cimitero non si toccano
le ossa del defunto. Restano lì fino alla risurrezione.
E poi né io né i miei figli né la mia povera
suocera, sua madre, nessuno
insomma potrebbe mai venire qui.
Non ci darebbero il visto soltanto
per andare al cimitero…».
«Non preoccuparti – cercarono
di consolarla le donne
– ti aiuteremo noi. Ti
aiuteremo…» ripetevano
come in una preghiera,
convinte che il loro
forte desiderio di
aiutare fosse ad un
tempo consolazione
e speranza.

Snezana Petrovic




PERÙ storie di immigrazione dal Sud del mondo

E NULLA
LI POTRÀ FERMARE
Arrivano travestiti da turisti o da uomini d’affari. Chi non può, attraversa
a piedi le frontiere. Spesso hanno un titolo di studio, che non possono
utilizzare. Si adattano a qualsiasi lavoro, vivendo nell’ombra, in attesa
di tempi migliori. Ora la legge Bossi-Fini è entrata in vigore, ma né
le frontiere né le leggi fermeranno chi non ha niente da perdere.

Tanti anni fa mi chiamarono
per andare a visitare
una persona anziana.
La donna era diabetica,
con una gamba amputata e aveva
problemi cardiaci. Morì
dopo pochi mesi. Si chiamava
Elena Rossi ed era nata a Genova.
L’unica cosa particolare
di questo breve e sbiadito ricordo
è il luogo.
La signora Elena viveva in una
decrepita catapecchia di esteras,
plastica e cartoni nel deserto
su cui si stava sviluppando
Villa El Salvador, alla
periferia estrema di Lima, in
Perù.
Poco distante, a Tablada de
Lurin, avevo avuto modo di
sorridere alla visione di una casa
che con il tempo era diventata
parte del paesaggio. Si
trattava di una casetta normale,
se si esclude la particolarità
di un cancello sormontato da
un grande ponte di Rialto, in
cemento armato, che fungeva
da trave. Non era una grande
opera. Anzi, direi che era di
cattivo gusto. Il proprietario
della casa – mi avevano raccontato
– era un orologiaio italiano che lavorava in una baracchetta
alla chancheria, il mercato centrale
di Villa El Salvador. Era fuggito
dall’Italia alla caduta del fascismo.
Se questi erano gli emigrati nostrani
che non avevano sfondato, Lima
invece è piena di segni del passaggio
di italiani. Una delle scuole
straniere più famose della capitale è
l’istituto italiano Raimondi, il dolce
tipico di natale è il panettone, si
mangiano spaghetti Molitalia e Nicolini,
i gelati principali portano il
nome D’Onofrio e – cosa scandalosa
per noi, ma devo dire molto appetitosa
– un piatto tipico di Lima è il
«musciame». Il musciame, vietatissimo
in Italia, è di origine genovese
(con lo stesso nome) e lo si può incontrare
ancora in ristorantini di
Chorrillos e Baranco. Si tratta di
«sfilaccetti» di delfino secco, conditi
con limone, e che a Lima ti servono
con fettine di avocado (assomigliano,
ma con un sapore più forte,
alla bresaola).
Insomma, a Lima ed in Perù, gli italiani
per lo più hanno sfondato eccetto
la signora Rossi di Genova, l’orologiaio
del ponte di Rialto ed il
mio amico Carlos Tozzi.

«NIENTE VISTO,
RIPROVI FRA TRE MESI»

Carlos è della selva, di Lamas, vicino
a Tarapoto. Il suo cognome,
Tozzi, è tipicamente italiano e lui si
arrabbia se lo chiamiamo charapa,
come vengono soprannominati gli
indigeni della zona. Ci ricorda infatti
che suo padre era maestro, che
vivevano nella «Plaza de armas» di
Lamas e che ha lontane origini italiane.
Carlos è una persona normale. Vive
a Villa El Salvador, possiede un
piccolo commercio di elettronica e,
fra gli alti e i bassi della sua attività,
si è dovuto far carico dei fratelli che
ha preso a lavorare con lui.
I fratelli sono cresciuti, ma il paese
(sempre in crisi economica) non
ha permesso a Carlos di sviluppare
il suo piccolo commercio. I fratelli,
insoddisfatti dello stipendio, hanno
cominciato a pensare di emigrare e
Carlos, spinto dalle pressioni della
famiglia, si è trovato a dover organizzare
e finanziare questo viaggio
della speranza.
Già un fratello di sua moglie era emigrato in Italia da alcuni anni, raggiungendo
la fidanzata (partita prima
di lui) e, quindi, una base di esperienza
già c’era. Il cognato di
Carlos, dopo quasi 10 anni di clandestinità
passata come cameriere in
una casa di lusso dell’Olgiata a Roma,
era riuscito ad ottenere il visto.
Ora, quando torna in Perù, prende
la famiglia ed offre loro un viaggio
in una zona turistica: non ne vuole
più sapere della povertà della periferia
di Lima. Si è comprato una casa
a Roma che affitta, per stanza, ad
altri peruviani. E lui continua a vivere
e lavorare all’Olgiata.
Un anno fa dissi a Carlos che non
ce l’avrebbe fatta a mandare i suoi
due fratelli in Italia, perché i controlli
erano rigorosi ed i visti quasi
impossibili. I due fratelli sono invece
tranquillamente nel nostro paese.
Clandestini, lavorano in nero e spediscono
soldi in Perù.
Bossi, Fini e Berlusconi hanno fallito
con i miei amici peruviani.
Grazie invece al nostro governo e
al Consolato italiano di Lima, non
sono riuscito a far viaggiare, per un
mese di vacanza in Italia, la mia figlioccia
che, finite le superiori, si era
iscritta a medicina a Lima. Sua
madre, professoressa universitaria
peruviana, è stata respinta dal Consolato,
pur potendo dimostrare il
suo stipendio (decente per il Perù,
anche se indecente per l’Italia), l’iscrizione
in un’università privata
della figlia e la mia lettera d’invito,
nella quale mi facevo carico dell’alloggio
e di ogni possibile spesa. Le
hanno detto: «Niente visto, riprovi
fra tre mesi… Fate tutti così e poi rimanete
in Italia».
Allora come ce l’hanno fatta i fratelli
di Carlos?

LA DISPERAZIONE
AGUZZA L’INGEGNO

Come ce la fanno le altre migliaia
di peruviani che viaggiano in Europa
e rimangono come clandestini?
(Si parla di 30.000 passaporti nuovi
emessi ogni mese in Perù e… certo
non per turismo).
I metodi sono tanti e vengono accuratamente
scelti in base alle caratteristiche
delle persone e delle variazioni
che si osservano nei paesi
europei.
Me ne hanno raccontati alcuni.
IL RICCO TURISTA
Si compra un tour, alberghi compresi,
per andare a visitare la Terra
Santa. Il viaggio prevede però una
sosta ad Amsterdam di due giorni,
perché non vi sono coincidenze immediate.
Viene rilasciato il «visto
Schengen» (vi aderiscono 15 paesi
europei, ndr) per la sosta, si va all’albergo
prenotato nella città olandese,
ci si riposa e, dopo una bella
doccia, si prende il primo aereo per
Roma. Arrivati alla dogana, ti chiedono
il perché di questa deviazione.
Rispondi che, avendo due giorni di
tempo, ne approfitti per visitare anche
il papa. Poi, fuori dell’aeroporto,
c’è qualcuno che ti aspetta. Lo
segui in silenzio fino alla macchina e
quindi sparisci.
IL MANAGER
Si sa che un manager deve poter
viaggiare e che il «negozio» non ha
frontiere. Il problema è che non tutti
sono manager. Bisogna allora scegliere
una piccola società (basta un
negozietto) che abbia la sede in un
buon quartiere di Lima (Miraflores
e San Isidro sono i più gettonati). Si
nomina la persona candidata a trasformarsi
in «emigrante clandestino» direttore generale. Con un documento
falso si dimostra l’elevato
stipendio dello stesso, e si chiede il
visto per un viaggio di affari.
Nel Consolato di uno dei paesi
Schengen (il paese viene cambiato
a seconda dell’aria che tira e ultimamente
mi dicono che venga utilizzata
spesso la Grecia) si ottiene il
visto e poi, arrivati in Europa, si
sparisce.
L’AVVENTUROSO
Forse questo modo di viaggiare è
meno caro degli altri. Conosco una
ragazza che è andata a lavorare a Milano,
passando per la Croazia e di là,
via terra, in Italia. Un altro è partito
per il Marocco e, non so per quali
vie, è arrivato in Italia.

VITA DA CLANDESTINO
Che fanno il ricco turista, il manager,
l’avventuroso una volta arrivati
in Italia?
Appoggiati da contatti in loco
(spesso familiari), un lavoro in nero
lo riescono a trovare. Di frequente
nelle case (i camerieri e le cameriere
peruviani sono molto apprezzati), in
piccole e medie imprese (ne conosco
uno che lavora in nero in una
concessionaria di una grossa società
di automobili). Ne ho conosciuto un
altro, che è riuscito a sposarsi con una
postina italiana di un’isola della
laguna di Venezia.
In Italia bisogna rigare dritto. La
vita deve essere tutta casa e lavoro,
evitare assembramenti, i locali dove
si riuniscono i peruviani, non creare
problemi, arrangiarsi se si sta male
e attendere l’occasione per diventare
regolare.
Carlos mi diceva che non capiva
perché i suoi fratelli se ne andassero
a cercare fortuna altrove. In fondo
un lavoro ce l’avevano e bastava aspettare
che l’economia si riprendesse
per migliorare la loro condizione
economica. Mi confessava che
non capiva come uno che avesse un
certo livello di studio, una certa responsabilità
nella gestione di una
piccola impresa, moglie e figli, decidesse
di abbandonare tutto per andare
a cambiar gomme alle auto o a
pulire i gabinetti di qualche ricca famiglia
italiana.
Poi però, riflettendo, confessava
che mentre suo cognato, pulendo i
cessi in Italia, era riuscito a comprarsi
un’auto e una casa a Roma, a
tornare a Lima ogni due anni e a fare
il signore, lui laureato ed impresario
in Perù stentava a tirare avanti.
«Questo è il problema – mi spiegava
– i nostri emigrati sono giovani
che hanno perso la speranza di un
futuro nel proprio paese». Quello
che cercano in Italia e in Europa è la
prospettiva di un domani diverso e
per questo sono disposti a pagare un
prezzo pesante: abbandonano mogli
o mariti, figli, affetti, dignità professionale,
ed accettano qualunque
lavoro.
«Un eventuale fallimento – mi diceva
Carlos -, la possibilità di un’espulsione,
l’andare come clandestini,
il pagare 5.000 dollari per viaggiare,
la vita di segregazione nei
vostri paesi, sono il prezzo da pagare
nella ricerca di una speranza e
quindi non sono un vero ostacolo».

ANDATA E RITORNO
Basta sedersi davanti alla mia casa
a Villa e parlare con i vicini per capire
molte cose e ascoltare tante storie.
L’Argentina sicuramente è stata una
tragedia per i peruviani. Un giorno
José bussò a casa e, con grande
vergogna, ci chiese 10 dollari. Sua
madre, in fuga dal disastro dell’Argentina,
era rimasta bloccata con il
pullman di linea a causa di una gran
nevicata su un alto passo ai confini
fra Argentina e Bolivia. Non aveva i
soldi per mangiare e se li era fatti
prestare da una compagna di viaggio.
Era partita solo un anno prima,
sbagliando i calcoli e trovando
un’Argentina senza possibilità di
darle un lavoro.
Roberto, ragazzo intelligente ed
inquieto, era riuscito a lavorare come
portiere in un’impresa televisiva
a Buenos Aires. Si era fatto raggiungere
dalla fidanzata e aveva messo su
casa. Poi il disastro argentino, il lavoro
perso e il ritorno a casa, a Villa
El Salvador. Ora vaga per il quartiere,
ben vestito, insoddisfatto della
povertà che lo circonda e pronto a
ripartire. Questa volta però per
l’Europa.
Gli Stati Uniti sono un’altra meta
desiderata e sognata.
La famiglia del farmacista Juan ha
mollato tutto. Prima un figlio in
Francia, poi anche l’altra figlia, infine
loro due, marito e moglie, li hanno
raggiunti, ma Eduardo no. Lui era
stato sempre un ribelle, elegante
e affascinante. Si era comprato una
bella macchina: aveva lavorato come
guardia del corpo in Perù e non
voleva andarsene. Poi qualche problema
con la coca, i primi figli, la crisi economica sempre più profonda
e la decisione di andare (anche lui!)
negli Stati Uniti. Un lavoro da scaricatore
(non riesco ad immaginarmi
questo ragazzo elegante e ribelle a
scaricare camion). Poi, con l’11 settembre,
l’impresa è stata colpita dalla
crisi, ma lui ha resistito, pur avendo
perso il lavoro. È riuscito a trovae
un altro e a chiamare moglie e
figli che poco tempo fa sono partiti
da Villa El Salvador per raggiungerlo
negli Stati Uniti.
Potrei ancora raccontarvi del difficile
anno di Sara a Milano, clandestina
e prigioniera in una casa borghese,
dove lavorava per una piccola
mancia quotidiana: schiava e
prigioniera. Una bella ragazza di poco
più di vent’anni, figlia di un amico
di Villa El Salvador, che mi aveva
pregato di aiutarla. Gli avevo
spiegato che non potevo fare granché,
ma gli avevo dato il mio indirizzo
e il numero di telefono per ogni
possibile problema.
Ogni tanto Sara mi telefonava. Si
sfogava, mi raccontava di come era
maltrattata e di come non poteva
reagire, perché minacciavano di denunciarla.
Non ce la fece a resistere
e toò in Perù. Adesso sta bene: si
è sposata ed è tornata serena. Ma
non vuole parlare di quell’anno trascorso
in Italia.

«PERÒ VIVONO»
Ci sono anche persone più fortunate.
Maria che si è sposata con un
francese e ora vive a Parigi; Feando
e Jorge che si sono sposati con
due spagnole e adesso vivono a Madrid
uno e a Barcellona l’altro. Certo
le loro parole sono piene di nostalgia
e i loro lavori non sono al livello
della preparazione e capacità.
Però vivono.
Specialmente Jorge è rimasto
sconvolto dallo scoprire la povertà.
Piangendo l’ho sentito raccontare la
povertà della vita e della morte dei
suoi genitori, della tubercolosi di un
suo fratello. Era la sua stessa povertà,
ma l’ha scoperta vivendo in
Spagna. Sono stato a casa sua a
Barcellona, bella, modea, con
tutto il necessario, ben diversa
dalla casetta della sua famiglia a
Villa El Salvador. Jorge è triste
e rimpiange la sua gente. Ma
non toerà.
Se solo potessi raccontarvi la
storia di Feando che in Perù
sognava di essere giornalista.
Ma non posso, perché neanche
lui vuole raccontarla. La conosco solo
grazie a due notti passate nella
stessa stanza d’albergo a Barcellona,
a qualche bicchiere di birra bevuto
insieme passeggiando per las Ramblas
e ad una parte di storia vissuta
con lui nel ruolo di «complice».
Ha attraversato le frontiere di
mezza Europa nascosto nel bagagliaio di un’automobile, venduto
palloncini nel Parque del Retiro di
Madrid, mangiato nelle mense dei
poveri, dormito agli angoli delle
strade. Ha fatto il «vu’ cumprà», e
poi lentamente è risalito per la china
di una vita che si è dovuto conquistare
palmo a palmo, fino ad iscriversi
all’università, a lavorare
come giornalista in un grosso periodico
di Madrid, e poi, perso il lavoro
per una crisi del giornale, a riciclarsi
come assistente di anziani.
Con lui sono in contatto settimanalmente
per E-mail.

CHI TROVA
LE FRONTIERE APERTE?

Chissà quale sarà la storia delle
persone che incontriamo quotidianamente
e che, genericamente, cataloghiamo
come «extracomunitari
». Sarà simile a quelle dei miei amici?
Una volta, nella bella città dove vivo,
Venezia, ero andato a comprare
il latte con mio figlio di 5 anni. Dentro
il negozio, c’era un grande, grosso
e nero «vu’ cumprà». Quella volta
non riuscì a trattenere un largo
sorriso di fronte a mio figlio e mi disse:
«Nel mio paese facevo il maestro,
i bambini sono belli in tutto il mondo
»! e se ne andò via con il suo borsone
pieno di borse contraffatte,
senza aspettare una mia risposta che
peraltro non avevo.
I transessuali peruviani viaggiano
tranquillamente e costantemente fra
Lima e Milano, dove svolgono il loro
«apprezzato» (inutile negare l’evidenza)
commercio e da Milano
portano l’Aids in Perù insieme a
manciate di soldi (tre di loro erano
nei sedili posteriori del volo Iberia
che a giugno mi riportava in Europa).
I commercianti di droga, le mafie
della prostituzione, i delinquenti incalliti
di tanti paesi possiedono ottimi
visti e per loro le frontiere sono
sempre aperte.
Come spiegare queste cose a Pamela,
la mia figlioccia di 17 anni?
Lei mi disse con candido stupore
che non capiva. Non capiva perché
io potevo viaggiare quando volevo
in Perù ed invece lei era respinta dall’Italia
per il suo sogno di una vacanza
promessa da tanti anni.
Aveva scoperto quella stupida e inutile
ingiustizia che le peserà per
tutta la vita (perché io sempre sarò
europeo e libero e lei peruviana e
prigioniera).

L’ILLUSIONE
DI CONTROLLARE IL MONDO

I ragazzi alla ricerca di una speranza
viaggeranno comunque. Passeranno
per il Marocco, la Slovenia,
la Turchia, la Grecia. Saliranno su
carrette del mare. Attraverseranno
le frontiere nascosti in camion o nei
bagagliai delle auto e, se verranno
trovati, saranno espulsi, ma sicuramente
ci riproveranno. E, quando
saranno vecchi, lo faranno i figli e
poi i figli dei figli.
No, Bossi, Fini e Berlusconi e la
maggioranza dei miei compaesani si
stanno illudendo. Le frontiere non
bloccano chi non ha niente da perdere
e cerca solo una speranza per
il proprio futuro. E non bastano pochi
aiuti ai loro paesi per evitare la
loro migrazione, perché – contrariamente
a quanto si crede – non sono
gli affamati che tentano l’avventura.
Bensì tutti quelli che nel loro paese
non hanno una speranza di un futuro
diverso.
Sono proprio loro, questi giovani
senza speranza, pericolosi, fastidiosi
immigrati che vengono a sconvolgere
le nostre illusioni
di poter controllare
il mondo.

Guido Sattin




FARE… NON BASTA PIÙ!

Domande e inquietudini
di un missionario, di fronte
al suo lavoro e al modo
di annunciare il vangelo.
Per evitare di lavorare
invano! Con un punto fisso:
la solidarietà non si discute.
Ma non è patealismo.

La missione rende presente il
regno di Dio, conducendo
persone e comunità a fare
esperienza di Gesù, unico salvatore e
redentore. L’unum necessarium della
missione è quello di portare i frutti
della redenzione a tutti. «Legge suprema
è la salvezza delle anime» si diceva
un tempo.
Noi siamo i responsabili del cammino
della chiesa in questa porzione
del regno che è il Distretto samburu
(Kenya), in cui la missione di Baragoi
ha compiuto 50 anni (1952-2002).

Dopo 50 anni
di generoso lavoro, fino allo spargimento
del sangue, non possiamo
chiudere gli occhi sulla realtà: circa
l’80% dei samburu e un po’ meno
per i turkana e gli altri immigrati
(kikuyu, kalinjin, rendille, meru…)
non è stato raggiunto dal vangelo. Le
nostre comunità samburu sono com-
poste da bambini e da alcune donne.
Sono assenti anziani e giovani.
Inoltre, forse a causa dell’eccessiva
tutela dei missionari, la chiesa locale
appare rachitica, malata di perenne
adolescenza, incapace di responsabilità
e progresso. La gioventù, dentro
e fuori la scuola, sta perdendo
ogni senso etico e religioso; gli anziani
sono irraggiungibili…
Molte le attività: spesso siamo immersi,
senza risparmio, dentro a un
vero e proprio dinamismo pastorale.
Ma ciò che stiamo facendo è davvero
secondo il vangelo? Non corriamo,
forse, il rischio di trascurare ciò
che è essenziale? Il nostro ministero
è il modo migliore per condurre la
gente (tutta!) a conoscere, amare e
servire Dio, vivere in grazia per la sua
gloria?
Se guardiamo i nostri consigli parrocchiali
e pastorali, le varie associazioni
di giovani e studenti, i diversi
incaricati della catechesi, possiamo
domandarci: che cosa fa tutta questa
gente che collabora e si sacrifica per
la vita della chiesa? Come collabora?
Che cosa ha in mente e cosa si propone?
Qual è l’anima di tutto il lavoro?
È l’amore di Dio, la comunicazione
del Verbo della vita? È aiutare
gli altri a vivere nella
quotidianità, immersi nella giorniosa
volontà di Dio? È questo che noi e
loro stiamo facendo?
Non ci lasciamo, forse, ingannare
da routine, pigrizia, ricerca di realizzare
noi stessi, dall’amore ai nostri
progetti, dallo spirito mondano, dal
populismo e patealismo?
Sono interrogativi che nascono da
una dolorosa realtà e, se non fosse
per la fiducia nel Dio misericordioso,
principale artefice della missione,
ne saremmo quasi schiacciati.

Guardando
alle nostre missioni, mi viene da
pensare che, forse, siamo su un’altra
strada e che tante delle nostre realizzazioni,
che tuttavia hanno un volto
religioso e apostolico, non rispondono
all’esigenza e al fine del nostro
mandato missionario: la salvezza delle
anime.
Penso che, al principio del nostro
cammino pastorale, vada messa la
prospettiva della santità a tutti i livelli.
Abbiamo bisogno di gente, uomini
e donne, con il dono di una
giorniosa tensione alla santità, che annuncino
e anticipino l’avvento del
regno.
È richiesta la santificazione del
missionario e dei preti locali, dei religiosi
e laici, di tutto il popolo di
Dio: senza la volontà di santificazione,
tutto diventa spreco di energie e,
ancor più, illusione. È la santificazione
che la chiesa deve portare dentro
le culture e la società. Se lo fa, risponde
alla sua vocazione. «Siate
perfetti come il Padre».
La «storia della missione» e delle
sue opere (scuole, ospedali, chiese,
pozzi) sovente non è la «storia della
salvezza». La nostra organizzazione,
spesso così materialistica da non avere
neppure più il ritegno di dire che
senza denaro non si può far missione,
impedisce o ritarda la nascita di
un’autentica chiesa locale. Il nostro
lavoro è quello di spianare la via al
vangelo, affinché, per quanto dipende
da noi, entri senza troppi ostacoli
nelle anime e diventi una realtà loro
propria.
Il termine di ogni attività missionaria
è la creazione di un cristianesimo
locale, che realizzi il triplice self
support (ecclesiastico, culturale e finanziario)
e in cui i cristiani diventino
evangelizzatori. La gente ha bisogno
di sentire con entusiasmo e gioia
il vangelo, mentre l’attuale missione
si preoccupa (troppo spesso) di
strutture, a scapito del vero annuncio.
È, forse, perché abbiamo smesso
di tendere alla santità, di collaborare
nell’intimità con il Cristo risorto,
che le nostre comunità sono interiormente
così povere? Abbiamo dimenticato
che, «se Dio non costruisce
la casa, invano vi faticano i costruttori
»? Fondare la chiesa è un
ministero che esige santità. Il beato
Giuseppe Allamano ce lo ricorda:
«Prima di convertire gli altri, voi dovete
essere santi, altrimenti non sarete
utili né a voi stessi né agli altri».
Se manca questo, ogni darsi da fare
porta soltanto delusione.

La forza
di penetrazione del vangelo si basa
sulla potenza della croce, più che
su quella delle opere: siamo dei consacrati
a Dio per la missione. Tutto il
resto viene dopo. Da qui, la necessità
di un’osmosi tra vita apostolica e
ascetica. Come condizione per pascolare
il gregge, Cristo non chiede
a Pietro che un assoluto e definitivo
amore per Lui. E fu dalla croce, assai
più che dalla predicazione o dalle
opere (miracoli), che Gesù acquistò
lo Spirito per noi.
Si è missionari per «salire» sulla
croce: è qui che il Cristo compie definitivamente
il «mandato missionario
» ricevuto dal Padre. L’apostolo
Paolo lo comprese bene e lo fece valere
come il suo unico titolo di gloria:
«Quanto a me, non ci sia altro
vanto che nella croce del Signore nostro
Gesù Cristo» (Col 6, 14). E il nostro
vanto, qual è?
Preoccupati delle strutture, siamo
in ritardo nell’annuncio del vangelo
fra i non-cristiani. Questi, in generale,
non vedono subito Gesù Cristo
nel lavoro apostolico della missione.
Vedono la scuola, il dispensario e le
altre belle opere. Nei missionari vedono
stranieri colti, ricchi e influenti;
nei convertiti vedono individui
soggetti agli stranieri per i benefici
che ne ricevono o che sperano di ricavare.
Se vedono una religione, è
quella degli stranieri.
Penso che sia giunto il tempo di
non affannarci più per le opere, ma
di impegnarci nell’indigenizzazione
della chiesa.

Per una chiesa,
indigena, at home, sono indispensabili:
autofinanziamento (se continua
il finanziamento estero, continua
la servitù) e autoevangelizzazione
attraverso il clero locale, capace
di vivere con mezzi e ritmi propri.
Una missione, senza sussidi esteri,
potrebbe significare una grande purificazione
e un decisivo passo verso
la nascita e costituzione di una autentica
chiesa locale.
Dobbiamo convincerci che il denaro
non è la conditio sine qua non
per l’attività missionaria: al contrario,
esso contiene una logica infeale,
che nasconde la croce di Gesù
Cristo. È la prima delle schiavitù e
rende artificiale la presenza della
chiesa. Se alla chiesa locale manca
l’indipendenza economica, la sua indigenizzazione
resta un’utopia. Ma
la continua dipendenza dall’estero e
l’incapacità dei ministri locali di guidare
le strutture e i meccanismi «europei
», sia parrocchiali sia diocesani,
bloccano sul nascere ogni genuina
iniziativa diversa.
Anche triplicando il numero di
missionari, se non si cambia metodo,
non si rimedierà alla «piaga» della
missione. Infatti, dove più forti sono
uomini e mezzi, più debole è la chiesa
locale. La missione è per sua natura
transitoria, «provvisoria» ed è
necessario che i missionari lavorino
per rendersi «superflui». È tempo di
passare dalla fase protettivo-assistenziale
a quella di una piena responsabilità
diretta.
Bisogna cambiare metodo e perseguire
con maggiore energia l’ideale
di una chiesa locale, sulla scia delle
prime comunità apostoliche. C’è
bisogno di un’élite di laici, accanto
ai sacerdoti, che siano responsabilmente
presenti nelle strutture della
vita non solo parrocchiale, ma anche
sociale e politica.
Il cristianesimo non è soltanto liturgia
e culto, ma anche impegno
umano e sociale. Ma sono i cristiani
che lo devono realizzare, in forza del
loro battesimo e della loro carica interiore.
La chiesa primitiva ha creato
il diaconato per questo: perché gli
apostoli dovevano impegnarsi al ministero
della parola e della preghiera.

Achille Da Ros