Vivere nella società multietnica

PROFUGHI NEL PROPRIO PAESE

Il mio lavoro nelle scuole trentine mi ha fatto tornare anche in quelle serbe, sempre come mediatrice interculturale. In Serbia non ci sono i mediatori, non ci sono neanche bambini stranieri, ma ho fatto la mediatrice interculturale fra i bambini serbi e quelli italiani che così hanno iniziato a scriversi.

A Belgrado mi aspettavano con impazienza e, ogni volta che andavo a visitarli, mi accoglievano con gioia. In accordo con il loro insegnante di serbo avevamo un’ora per i nostri amici italiani, per le nostre lettere, per la nostra conoscenza dell’Italia. Leggevamo ad alta voce tutte le lettere e poi loro facevano le domande, pieni di curiosità. Mi chiedevano della scuola italiana, del mio lavoro, dei bambini stranieri. Le scuole a Belgrado sono degli enormi palazzoni costruiti negli anni Cinquanta e da allora non sono cambiati molto. Le aule sono grandi, luminose, pulite, ma con poco materiale scolastico, piene di bambini chiassosi, ma molto silenziosi e disciplinati durante le lezioni.

Una volta chiesi loro: «Ci sono tra voi bambini venuti da lontano come nella mia città, Rovereto?». Si alzarono alcune mani. Erano bambini profughi, venuti dalla Croazia, dalla Bosnia o dal Kosovo. Anche loro erano «diversi» fra i loro compagni, anche se di stessa nazionalità. Erano i bambini portati via da una casa, da una scuola, dai compagni, con una esperienza dolorosa che nella scuola dovevano affrontare con le loro maestre. Durante i bombardamenti i bambini hanno perso quasi 3 mesi di lezioni.

Alcune maestre hanno in classe circa 35 alunni; molte volte non arriva neppure lo stipendio. I genitori di molti bambini sono in difficoltà economiche, ma la scuola va avanti perché le risorse umane riescono a superare molti ostacoli.

IL NUOVO «MURO DI BERLINO»

I ragazzi e i bambini del mio paese non possono viaggiare, perché per venire in Europa è necessario il visto. Per ottenere il visto servono molto tempo, fatica, soldi, e bisogna soddisfare innumerevoli ed umilianti richieste delle autorità degli stati europei.

Il «Muro di Berlino» non è stato abbattuto: è stato solo spostato. Per scavalcare quel muro, ho avviato una corrispondenza fra i ragazzi serbi e i ragazzi italiani delle scuole elementari, medie e superiori. Scambiando i pensieri, i desideri, i progetti per il futuro, facendo conoscere gli uni agli altri il proprio paese, non dai libri di testo e atlanti, ma come loro lo vedono, come ci vivono e come lo vorrebbero. Sono diventati amici che aspettano con impazienza la risposta dell’amico dall’altra parte del «muro» e quella amicizia tra loro spero riuscirà ad abbattere il muro dell’ignoranza, della diffidenza e del pregiudizio.
Quando è cominciata la guerra in Iraq, i ragazzi italiani avevano chiesto agli amici serbi che cosa si prova mentre ti cadono le bombe addosso, e loro hanno risposto. Abbiamo poi elaborato le testimonianze dei ragazzi serbi nelle varie classi delle scuole elementari, medie, e superiori, insieme agli insegnanti, con l’obiettivo di contribuire ad un’educazione alla pace. Mi ha colpito in modo particolare una frase di un bambino della scuola elementare: «Io so che le bombe che cadevano al mio paese partivano dall’Italia, ma so che i bambini italiani non c’entrano niente. Io voglio diventare tuo amico e aspetto con impazienza la tua risposta».
Queste lettere, dei bambini e ragazzi serbi e quelle degli italiani, per me sono un bene prezioso, perché mi hanno svelato un mondo meraviglioso dell’infanzia, che dà una speranza a questo mondo di cui tutti parliamo male. Mi danno speranza il loro ottimismo, la capacità di sdrammatizzare, di sperare, di perdonare.

LE RADICI DELL’UOMO

Tutti i ragazzi stranieri (in particolare, quelli venuti dal mio paese) sono «i miei alunni», perché tutto il mio lavoro è rivolto a loro: per integrarsi, ma soprattutto per non perdersi, per non perdere l’identità nazionale, la madrelingua, la religione (ortodossa, di solito).
La società multietnica avrà un sapore se gli esseri umani restano quello che sono, come Dio li ha fatti, tutti diversi fra di loro, e non come un miscuglio variopinto di individui, privi dei valori e delle tradizioni, che nonni e genitori si sono tramandati per secoli, ignoranti della propria storia. Senza radici, insomma.

Né la pianta né l’uomo possono durare a lungo senza una radice solida. Uno degli obiettivi di lavoro di un mediatore interculturale è rafforzare le radici, aiutando in questo modo i ragazzi (ma anche gli adulti) a trovare una sana integrazione.

Snezana Petrovic