TANZANIA – Otto ragazzi dal baba…

Il missionario è Camillo Calliari e il vescovo
Alfred Maluma. Otto giovani italiani in Tanzania
li osservano e pongono domande anche spinose:
sull’aids, per esempio.

Intanto, nell’anno internazionale dell’acqua,
i ragazzi danno una mano a completare un acquedotto
di 7 chilometri.

Sud del Tanzania. Dalla città di Njombe alla missione di Kipengere un pulmino arranca su ripide salite sterrate e geme nella morsa dei freni nei tratti di vorticosa discesa. Al passaggio del mezzo, i viandanti lungo la strada voltano le spalle e si coprono la bocca con una mano per proteggersi dal polverone, reso più denso dall’incombere della sera.

«Come te
non c’è nessuno…»
Il pulmino trasportava otto giovani italiani.

«Stop, per piacere! – si rivolsero ad un tratto gli italiani all’autista tanzaniano -. Ci piacerebbe fotografare quei bambini alla fontana». «Avrete altre e migliori occasioni – rispose il conducente -. Fra non molto è notte, e padre Camillo ci attende un po’ ansioso a Kipengere…».
A Kipengere opera padre Camillo Calliari, più noto come «baba Camillo». Il baba ha votato se stesso alla causa del vangelo: il vangelo della «vita in abbondanza». Vita che è pure acqua.

Fra tante e significative iniziative di promozione umana, il missionario ha inventato pure un acquedotto, sostenuto dal coinvolgimento della popolazione locale e dalla solidarietà di numerosi amici in Italia, non ultimi gli otto giovani del pulmino.

L’acquedotto è un’opera necessaria, costosa ed imponente, realizzata con tenacia nell’arco di anni su un vasto territorio, ricco di sorgenti d’acqua potabile, a circa 2.200 metri di quota. Dunque un’impresa in montagna, che ha esaltato baba Camillo, trentino di Romeno, in Val di Non. Un’opera surriscaldata dai raggi ultravioletti del sole, con gli uomini che disboscano il percorso dei tubi con un coltellaccio su terreni scoscesi, mentre le donne aggrediscono il suolo roccioso a colpi di zappa. E questo per chilometri e chilometri: 210 per la precisione, se si sommano gli 80 chilometri della condotta principale dell’acquedotto ai 130 delle diramazioni…

Spalla a spalla con i tanzaniani, gli otto giovani nostrani aggiunsero altri sette chilometri all’acquedotto, innalzando tre fontane nel villaggio di Ihagala e due in quello di Ilindiwe, a 20 chilometri da Kipengere. «Per noi è stato il modo migliore per celebrare l’anno internazionale dell’acqua» commentò uno dei protagonisti ad opera finita.

Quando l’acqua potabile sgorgò giorniosa e cristallina dai candidi rubinetti, fu un trionfo. I bambini dei villaggi cantavano: «Baba Camillo, hakuna mtu kama wewe» (come te non c’è nessuno).

Ma il missionario della Consolata abbassava la testa, pensando forse al prossimo «appuntamento» già fissato: un nuovo ramo dell’acquedotto di 15 chilometri. «Ah, dimenticavo! – disse anche ai ragazzi rincasando a Kipengere dopo la festa – l’acquedotto è… ecumenico, poiché vi ha contribuito anche la chiesa luterana pagando il trasporto di materiali e persone».

Chi offre una sedia?

«Il vescovo è arrivato» annunciò Laura. «Come lo sai?» chiese Mario. «Ho visto un uomo con un vistoso anello al dito…».

Sì, monsignor Alfred Maluma era giunto. Desiderava incontrare Laura e Mario, come pure Alessio ed Elena, Barbara, Lucia, Valeria e Francesca: gli otto giovani italiani che, nell’agosto scorso, trascorsero alcune settimane a Kipengere, missione della diocesi di Njombe.

«Buon pomeriggio» accolsero il vescovo i ragazzi. «Buon pomeriggio a voi e benvenuti nella nostra diocesi di Njombe!».

Il presule si rivelò subito affabile, con un sorriso accattivante, padrone di un buon italiano e in grado di rispondere a tutte le domande degli ospiti.
– Quale vescovo, come giudica la nostra presenza nella sua diocesi?

«Desidero che la diocesi sia accogliente: chi viene qui deve sentirsi a casa. Voi siete cristiani, penso. Allora ricordo che la chiesa è una famiglia che riunisce tutti. Come afferma san Paolo, dopo Gesù Cristo non ci sono più arabi, ebrei, italiani. Siamo tutti figli di Dio.
Qui, fra i missionari della Consolata, c’è baba Camillo, che lavora da tanti anni e ha fatto ottime cose. Voi pure, insieme a lui, avete contribuito a portare l’acqua potabile in due villaggi… I missionari lavorano, presentandosi come fratelli di tutti nella grande famiglia di Cristo. Questa è la nostra fede. È come un albero con tanti rami, e voi siete alcuni rami che continuano a spuntare. Mi auguro che la vostra presenza porti anche frutto. Per la gente locale siete una testimonianza di carità».

– Lei, forse, non è nato cattolico. Ebbene, com’è avvenuto il suo incontro con la chiesa?
«Io sono nato cattolico. In questa regione c’era una scuola elementare cattolica. I miei genitori vi lavoravano… e, con il tempo, sono stati battezzati. Quindi io sono nato cattolico. Però non tutti i miei coetanei sono cattolici. Ma i missionari hanno sempre annunciato il vangelo, accompagnato da servizi sociali: scuole, ospedali, coltivazioni. E la gente si interroga: chi è il missionario? In che cosa crede? Se crede in Gesù Cristo, anche la popolazione è pronta a farlo».
– In Tanzania molti vivono in condizioni difficili. Che fa la chiesa per promuovere lo sviluppo?

«Sono già state fatte molte opere, perché la chiesa ha sempre presentato il vangelo con i fatti: per esempio, l’istruzione scolastica in Tanzania è opera dei missionari. Fino agli anni ’70 era quasi impensabile un’istruzione senza le scuole missionarie, che sono state centri di sviluppo. Ma resta ancora molto da fare».
– Monsignore, ci parli di lei…

«Sono vescovo da appena un anno e sto avendo una drammatica esperienza visitando le parrocchie. Io sono figlio di contadini, ma forse non conosco la loro vita. La prima volta che, da vescovo, sono stato in un villaggio per conferire la cresima, ho dovuto cambiare la predica preparata, per non battere l’aria. Ero di fronte a tantissimi bambini: coglievo nei loro occhi una grande aspettativa, ma non sapevo cosa dire.

Uscendo di chiesa, ho chiesto ai genitori: cosa possiamo fare per i giovani? La risposta è stata: noi non siamo più in grado di educare, specialmente le ragazze… Ho invitato tutti a pregare, a riflettere maggiormente, ad incontrarsi. L’hanno fatto giungendo a questa conclusione: la chiesa dovrebbe impegnarsi di più nella scuola, dall’asilo all’università… Ecco perché la mia prima lettera pastorale, brevissima, affronta il tema dell’educazione-istruzione.
Se ci impegneremo di più nell’educazione, assicureremo il benessere integrale ai ragazzi di oggi».

– Pertanto il vescovo costruirà scuole?

«Il vescovo, da solo, non può costruire scuole, perché non ha soldi e la diocesi è povera. Siamo tutti poveri. Però se ognuno fa qualcosa (una finestra, una porta, una sedia)… Se anche voi, giovani, costruirete un muro di un’aula scolastica, contribuirete all’educazione. Non lasciatevi scoraggiare… La diocesi conta 240 mila abitanti; quelli che possono dare qualcosa sono 100 mila; ma, se tutti costoro lo faranno, costruiremo due nuove scuole, o almeno una».

AIDS E PRESERVATIVO

Il vescovo di Njombe e i giovani italiani conversavano all’aperto, seduti su una panca. Improvvisamente si levò un vento freddo, che costrinse tutti ad entrare in casa, cioè la baita, dove i ragazzi alloggiavano. Sul prefabbricato spicca una targa: «Dono degli alpini di Giussano».

L’intervista ad Alfred Maluma riprese attorno a un tavolo, ingentilito da un mazzo di splendide calle.
– Eccellenza, qual è il rapporto con i non cristiani?
«Nella regione di Njombe ci sono cattolici, luterani, anglicani e altre piccole denominazioni religiose. In passato c’era fra loro antagonismo; oggi questa malattia sta scomparendo. Fin da piccoli siamo abituati a vivere in armonia con ogni fede».

– Anche con i musulmani?

«Con i musulmani il problema si fa acuto di fronte ai fondamentalisti, che vengono dai paesi arabi. Ma con i musulmani tanzaniani (salvo qualche eccezione), non ci sono grosse difficoltà. Partecipiamo anche ai loro matrimoni e funerali. È un dovere di famiglia».
– Aids. In Italia si dice che in Africa servono soprattutto i preservativi. Lei, che dice?
«È essenziale cambiare abitudini e mentalità. Anche l’aspetto economico influisce molto: si cerca di lucrare sfruttando l’aids, cioè produrre e vendere preservativi. Invece si pensa troppo poco alla prevenzione, basata sull’educazione.

L’aids è esploso come una bomba per povertà e ignoranza: per esempio, se andate in un villaggio, vedete che si usano siringhe scadute, non sterilizzate, già impiegate per più individui. Vi sono medici tradizionali (un po’ stregoni) che incidono i corpi di vari pazienti con la stessa lametta, senza neppure disinfettarla. Lo stesso avviene nelle pratiche chirurgiche dell’iniziazione femminile e maschile. Sono fatti macroscopici.

Prevenzione contro l’aids significa investire sulla formazione dei giovani: questo comporta anche la revisione di alcuni costumi sessuali legati alla tradizione. È una trappola dire: “Tanto prenderò il preservativo!” (che in Africa è magari difettoso).
Io ho lavorato con i giovani subito dopo l’ordinazione sacerdotale. I giovani, prima che con il male, cercano di identificarsi con il bene. Ma se non lo vedono, perdono la speranza. Di qui l’urgenza di prospettare ideali positivi».

– Noi siamo qui a Kipengere anche per imparare. Secondo lei, che cosa possiamo apprendere?
«Questo dipende da voi. Io sono a casa mia, e non posso propormi a voi. Voi dovete scegliere. Tuttavia vi dò un consiglio: osservate con attenzione le persone, informatevi sui loro problemi, rifuggite dai luoghi comuni proposti dai mass media. In ogni caso siate solidali, generosi…».

Alfred Maluma saluta Laura e amici prima di cena, mentre la campana della missione di Kipengere suona l’Ave Maria. Congedato il vescovo, baba Camillo entra in chiesa per la preghiera della sera. In cielo splende la luna.
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Francesco Beardi