Una piccola orfana
è accolta in una famiglia africana: la notte
di natale, prende il posto di Gesù bambino
nel presepe e continua
ad essere accolta e amata come una benedizione divina.
È l’antivigilia di natale; l’estate calda e piena di luce: restare a casa a far poco o nulla è scoraggiante quanto mai. Mancano due settimane alla riapertura delle scuole (in Kenya l’anno scolastico inizia in gennaio), ma la gioia della vacanza e della festa del natale elettrizza non solo i bimbi d’Europa, ma anche quelli del continente nero.
– Vieni, Scolastica; andiamo a trovare alcuni amici.
L’invito di mamma Mary alla figlioletta, ultima di quattro figli, non poteva giungere più accetto.
– Dove andiamo, mami?
– Partiamo e vedrai.
Mamma Mary mise in una borsa di plastica una manciata di samosa (specie di frittelle ripiene di carne e spezie) e prese la strada che porta alla grande bolgia di Kibera: una delle più grandi e tristi bidonville di Nairobi, ove si accalca mezzo milione di individui di tutte le etnie del Kenya.
– Hai degli amici qui dentro? – riprese Scolastica, quasi paurosa di quel luogo da tutti ritenuto un covo di briganti.
– Non aver paura. Mami è con te.
Mamma Mary puntò dritta verso una costruzione di vecchi pezzi di assi tenuti insieme faticosamente da listelli e fil di ferro. Il tetto, fatto di vecchie latte di benzina spianate col martello, ormai arrugginite e sforacchiate, riparava dal sole, non certo dalla pioggia. Chiamarla casetta avrebbe offeso anche un apprendista carpentiere; definirla pollaio… si sarebbero offese le galline.
– Odi? (permesso?) – chiese mamma Mary, mentre spingeva una specie di paravento di pezzi di plastica e sacco catramato.
Nell’interno, diventato tutto ad un tratto silenzioso, decine di puntini luminosi fendevano la semioscurità: sembravano altrettanti occhi di gattini spalancati.
– Hamjambo watoto! (salve bambini) – salutò la donna.
– Hatujambo, mama! (salve, mamma) – fece eco un coro di vocine.
Anche Scolastica, che si era quasi nascosta dietro la mamma, si fece avanti per stringere una selva di manine, che avrebbero avuto bisogno di tanta acqua e sapone.
Quella «topaia» (questa volta senza offesa per i topi) voleva essere un «orfanotrofio». Venti o trenta bambini erano stipati in quella stanza, sotto la sorveglianza benevola di una matrona africana, che aveva tentato di intrecciare il suo grande cuore e la monumentale statura con la estrema povertà e la triste realtà di un gruppo di bambini rimasti orfani e da tutti abbandonati. Almeno potevano avere un luogo per dormire, scaldandosi a vicenda, una scodella dove pescare qualche foglia di cavolo, una manciata di polenta da divorare.
Mamma Mary conosceva già quella situazione. Ma Scolastica ebbe un momento di brivido, specie quando sentì due mani umide aggrapparsi alle sue gambe, come per sostenersi a qualcosa e non lasciarsela scappare.
Scolastica guardò in basso; i suoi occhi si incontrarono con quelli lucenti di una bimba dai vestiti scoloriti e laceri. Non una parola. Una guardava in giù, l’altra guardava in su, con occhi di speranza. Neanche la distribuzione dei samosa interruppe quella specie di abbraccio.
– Hai idea di chi possa essere questa bimba? – chiese alla matrona mamma Mary, che aveva notato lo strano comportamento della bimba.
– Me l’hanno portata dopo che anche la mamma fu trovata morta. La piccola aveva tanta fame. Dovrebbe essere di etnia luo, poiché i genitori venivano dalla regione del lago Vittoria. Niente di più. Neppure il nome. Ho cominciato a chiamarla Owino ed essa mi risponde quando uso questo nome.
Owino restava imperterrita attaccata alle gonne di Scolastica.
– Vedi, Scolastica? Ti vuole bene! E se le regalassimo un po’ di amore in questi giorni di natale?
– Ci sto!
Non furono necessari lunghi discorsi: la matrona non ebbe difficoltà a concedere ad Owino la «libera uscita».
Documenti? E quali documenti? Papà e mamma sconosciuti, morti di aids, sepolti o abbandonati chissà dove. Ben venga uno spiraglio di bontà e per una creatura che ha tutti i diritti di vivere!
E uscirono in tre da quella stanza, tenendosi per mano. Scolastica stringeva forte la manina di quella «bambola in carne ed ossa», per paura che nella ressa della bidonville qualcuno gliela portasse via.
A casa la bimba fu accolta con gioia. Gli altri tre figli, uno dei quali universitario, si dissero onorati di far posto alla bimba piovuta dal cielo.
Il bagnetto nella vaschetta di plastica, con tanto di spugna e sapone, fu una commedia per tutta la nuova tribù. Owino spuntò fuori come se fosse stata rifatta nuova; fu rivestita dei vecchi abiti di Scolastica: alcuni spilli e qualche ritocco, ed ecco la nuova star della famiglia.
«Che nome le mettiamo? – domandò Scolastica, dando subito la risposta -. Propongo Little Mary, (piccola Maria) in onore di mamma che l’ha scovata». Apprato senza fiatare.
La notte Little Mary dormì un sonno tranquillo, anche perché non sentiva, una volta tanto, gli stimoli della fame arretrata. Dormì in una culla, la prima volta in vita sua: la vecchia culla di famiglia, usata da tutti e quattro i figli.
Il giorno seguente c’era un gran da fare in casa Mary per preparare il natale: pulire, lavare, cucinare qualcosa di speciale senza la solita polenta.
Giunge la sera. La «messa di mezzanotte», in certi posti del Kenya, non è pensabile per le difficoltà di trasporto e motivi di sicurezza.
– Mamma, abbiamo dimenticato il presepio! – disse Scolastica, guardando attorno come se avesse smarrito qualcosa d’importante.
– Ma non abbiamo la capanna né le statuine dei pastori.
– Abbiamo Gesù bambino in carne ed ossa, la nostra Little Mary, che Gesù ci ha regalato per natale. Noi faremo Maria, Giuseppe e i pastori; a mezzanotte porteremo Little Mary nel nostro presepio.
– Dove metteremo il nostro Bambin Gesù? La culla non va bene!
– Nel cestino del nostro cucciolo. Bob avrà pazienza di aspettare la fine della festa.
Verso mezzanotte, in un’aura di gioia e fantasia tutta africana, il presepio vivente prese a muoversi dalla cucina alla camera da letto; Maria e Giuseppe portavano un cesto di vimini tutto addobbato; Scolastica, seria e compunta, reggeva in braccio Little Mary e la depose delicatamente nella cesta di Bob. Poi mamma Mary intonò in kikuyu «Tu scendi dalle stelle…».
Il coro era piccolo e neppure troppo intonato, ma tanto gradito al cielo e agli angeli, presenti e osannanti anche quella notte.
La storia avrebbe voluto che nella mangiatornia ci fosse un «bambino» Gesù; ma credo che anche il buon Dio avrà sorriso alla fantasia del cuore africano, che in questa bella notte aveva fatto nascere un Gesù «bambina», nella cesta del cucciolo di famiglia.
T re giorni dopo natale, mamma Mary, che da tanti anni è segretaria tuttofare in casa nostra, mi raccontò quanto era successo in famiglia, come se fosse la cosa più naturale al mondo.
– Hai pensato, Mary, al rischio in cui ti sei cacciata? – le domando.
– Ci ho pensato a lungo e ne ho parlato con i figli: abbiamo deciso di tenerla come un dono di Dio. Da quando nacque Scolastica, dieci anni fa, e mio marito se ne è andato, lasciandomi sola, senza lavoro e mezzi, intorno a me ho sempre trovato tanta bontà. Sono riuscita ad allevare i miei figli dignitosamente e mandarli tutti e quattro a scuola. Dio ci ha benedetti. È ora che anch’io restituisca al Signore tanta bontà che ha usato verso di noi.
Cercai di guardare altrove, fingendo di essere occupato, perché due lacrimoni mi scendevano dagli occhi.
– Mary, hai pensato che anche la bimba possa avere il male dei suoi genitori?
– Sì. La farò visitare e saprò curarla. La bimba ha bisogno di medicine e, soprattutto, dell’amore di una madre e il calore di una famiglia.
Una visita accurata rivelò che Little Mary aveva ereditato il male dei genitori. Ma la notizia non scombussolò né cambiò il progetto di accettarla in famiglia.
O ggi Little Mary è cresciuta. Si è rinforzata in salute, grazie anche all’aiuto di amici italiani a cui ho raccontato questo «fioretto africano». Ha ancora bisogno di cure; ma l’amore che ha trovato intorno a sé è la migliore medicina e l’aiuta a superare le difficoltà.
Alla scuola di Scolastica e mamma, Little Mary ha imparato a parlare tre lingue, si destreggia bene tra le compagne dell’asilo ed è pronta per passare alla scuola elementare.
Nessuno è ancora riuscito a sapere esattamente come si chiamasse. Ma che importa? Forse un giorno qualche pignolo ufficiale governativo vorrà sapee di più. E allora – ci scommetto – mamma Mary, con la sua furbizia e senso dello humour, tirerà fuori questa spiegazione: «È un Gesù “bambina”, venuta dal cielo, accolta provvisoriamente nella cesta del nostro cucciolo, ma amata da tutti noi, come l’ultima figliola che il Signore mi ha donato».
Giuseppe Quattrocchio